Nel 1986, poco prima della catastrofe di Chernobyl, Ulrich Beck pubblicò il libro “La società del rischio“. Le tesi di allora, tornano in mente ricorsivamente a ogni grande catastrofe. E ogni volta risultano essere centrate e scomode.
Il quotidiano La Repubblica, così come fece dopo l’attentato dell’11 settembre alle torri gemelle, ha pubblicato un articolo di Beck dal titolo “La faccia oscura del progresso“, dove si osservano le reazioni internazionali alla catastrofe di Fukushima.
Nell’articolo Beck riprende gli assiomi su cui si basa la sua tesi: “A differenza dai precedenti rischi industriali, essi – i rischi – (1. non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2. non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3. non possono essere compensati, né coperti da assicurazione.”
Infatti le assicurazioni non coprono i rischi nucleari, della tecnologia genetica e delle nanotecnologie, campi dove non è possibile circoscrivere una ipotesi realistica di rischio.
Sono “potenziali” di rischio per essere politcamente gestiti, vengono ridescritti e ridefiniti a livello di comunicazione.
Beck è drastico e chiarisce come le scelte politiche di adottare tecnologie ad alto rischio non possano avere scusanti sul piano della casualità: “La categoria di ‘catastrofe naturale’ segnala che essa non è stata causata dagli uomini e quindi la sua responsabilità non può essere attribuita agli uomini. Ma questo è il punto di vista di un secolo passato. Questo concetto è sbagliato già per il fatto che la natura non conosce catastrofi ma, semmai, drammatici processi di trasformazione. Questi cambiamenti, come uno tsunami o un terremoto, diventano catastrofi solo nell’orizzonte di riferimento della civiltà umana. La decisione di costruire centrali nucleari in zone a rischio sismico non è affatto un evento naturale, ma una scelta politica, che deve anche essere giustificata a livello politico di fronte alle pretese di sicurezza dei cittadini e deve essere attuata contro le opposizioni.”
Beck poi continua osservando come gli sforzi, più che a procedere verso delle scelte politiche più ragionevoli nei confronti dei rischi potenziali, vengano concentrati verso una mistificazione che mia a negare i pericoli: “Lo shock che ha colpito la gente di fronte alle spaventose immagini provenienti dal Giappone consiste anche nel ridestarsi della consapevolezza che non c’è istituzione, né reale, né immaginabile, preparata al super-Gau, il ‘massimo incidente ipotizzabile in una centrale nucleare’, e capace di garantire l’ordine sociale e le condizioni culturali e politiche anche nel caso di questo disastro dei disastri. Invece, ci sono molti attori specializzati nell’unica opzione che appare possibile: la negazione dei pericoli.”
Verso la fine dell’articolo Beck contesta le critiche di coloro che non approvano che le immagini del disastro nucleare di Fukushima vengano diffuse (perché potrebbero far crescere posizioni emotive e pseudo-scientifiche), e sostiene che invece proprio la percezione concreta di quei rischi che normalmente sono invisibili e difficilmente osservabili, dovrebbe spingere la società del rischio a modificare il suo percorso.
Nelle pagine del nostro sito il tema della società del rischio è stato più volte preso in esame. Giuseppe O. Longo ha pubblicato un lungo articolo, quasi un saggio, dallo stesso titolo. Prima ancora la tematica era stata affrontata con un progetto in collaborazione con Poster, dal titolo “Biotecnologie fra innovazione e responsabilità“, una indagine sulle su opinioni e sugli atteggiamenti della popolazione italiana nei confronti delle biotecnologie.
Sul tema è stato fatto un “percorso“, una sorta di dialogo e concatenazione di articoli, e aperta una sezione degli “Argomenti“.
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Illustrazione: “la società del rischio” di tomcorsan (creative commons)