Fare prevenzione è sinonimo di buona informazione e comunicazione. L’Aquila è stato purtroppo un esempio di cattiva prevenzione. Mentre il Giappone, se da una parte era ben equipaggiato a fronteggiare un grave sisma, non lo è stato nella gestione di un’emergenza nucleare. E i media non hanno aiutato.
Nel primo pomeriggio dell’11 marzo 2011, a partire dall’isola di Honshu (l’isola più grande del Giappone che include anche Tokyo), le notizie si sono rincorse in tutto il mondo. La zona era stata colpita da un fortissimo terremoto (magnitudo 9 della scala Richter, che descrive l’energia sprigionata dal sisma), il sesto più potente nella storia umana, ma il popolo giapponese ha subito solo relativamente il contraccolpo di un evento di tale portata. A L’Aquila a due anni di distanza (in questi giorni ricade la ricorrenza) la ricostruzione è ancora lenta e si continuano a contare danni ingenti, in termini di costruzioni, di edifici storici che forse non ritorneranno più, di un centro della città ancora puntellato e deserto, ma soprattutto di vite umane perse, provocati da un terremoto molto meno potente (5,9 Richter), mentre in Giappone la sua popolazione ha pagato pochissimo gli effetti del sisma.
Il popolo giapponese, conscio di vivere in una zona fortemente sismica, da tempo si è dotato di costruzioni in grado di reggere a forti scosse, rinnovando le conoscenze di anno in anno e eventualmente demolendo e ricostruendo da zero gli edifici a rischio. Ma soprattutto la consapevolezza di tutta la comunità ha permesso e permetterà in futuro al Giappone di fronteggiare gli effetti dei forti terremoti, limitandone i danni, proprio perché la comunicazione tra la popolazione su come comportarsi in caso di terremoto è continua, efficace e diffusa. Dalle scuole dei piccolissimi a qualunque edificio pubblico, fino agli anziani nelle case, tutti sanno come comportarsi all’arrivo di una scossa, e la richiesta di abitare, lavorare, divertirsi in luoghi costruiti secondo le più moderne regole dell’ingegneria anti-sismica parte dalle istituzioni, prima ancora dei cittadini. L’innovazione in campo ingegneristico e delle costruzioni viaggia a braccetto con la responsabilità di fornire strumenti e informazioni di prevenzione per la popolazione.
Ma la storia dell’11 marzo giapponese non si ferma purtroppo al terremoto. La devastazione vera è arrivata qualche minuto dopo sotto forma di tsunami dall’immensa forza travolgente, con onde alte oltre dieci metri in grado di cambiare in pochissimo tempo l’aspetto della costa nord-est dell’isola giapponese e infiltrarsi sotto forma di inondazione in case e centri abitati attorno alle città di Sendai e Fukushima. A questo punto entra in campo un’altra forma di comunicazione, quella giornalistica, quella dei media che ha descritto quei giorni, i peggiori dopo la Seconda Guerra Mondiale, così come ha dichiarato lo stesso primo ministro del Gabinetto giapponese, Naoto Kan, da subito dopo il sisma apparso sulle TV nazionali in tuta celeste delle emergenze. Mentre il Giappone poco alla volta riprendeva la quotidianità, anche se scioccato da un terremoto di così grave entità, i media esteri, in preda ad ansia febbrile di copertura, dipingevano uno scenario apocalittico in cui gli abitanti giapponesi non si ritrovavano: la realtà descritta era piuttosto lontana da quella vissuta. Diversi giornalisti, inviati, bloggers hanno parlato ex-post di una mistificazione dei fatti e di grossolani errori (anche di traduzione dal giapponese), resi ancora più eclatanti dopo l’allarme radiazione nucleare, conseguenza dei danni post-terremoto, ancora non perfettamente quantificati, ai sei reattori della centrale nucleare di Fukushima. Complice della spinta a dipingere il Giappone come un’Apocalisse, in questo caso è stata la scarsa informazione da parte delle istituzioni e dei gestori della centrale, la Tokyo Electric Power Co. (Tepco) di quanto stesse accadendo. A poche ore dal sisma e dallo tsunami, le notizie erano poche, sommarie e tutto sommato rassicuranti: c’erano stati dei danni alla centrale, costruita per resistere a danni sismici e anche ad eventuali tsunami di moderata entità, anche se non ad entrambi, ma ovviabili in breve tempo. La popolazione poteva non preoccuparsi di eventuale rilascio di radiazioni. Ma col passare delle ore e dei giorni la situazione si è drammaticamente capovolta: i reattori danneggiati erano 3, forse 4, e i loro noccioli di uranio, centro nevralgico della funzionalità delle centrali, erano rimasti scoperti a lungo così da dare luogo a rilascio di radiazioni altamente dannose per l’organismo umano. Quante radiazioni? Chi erano le persone in pericolo? Solo gli abitanti di Fukushima? O c’era da allertare una più ampia zona di popolazione? Fin dove le radiazioni potevano spingersi? Eravamo di fronte a una nuova Chernobyl?
In pochissimi giorni i media di tutto il mondo hanno seguito minuto per minuto una situazione di grandissima crisi, dando ampio spazio a foto e video che descrivessero in maniera vivida quanto accadeva in Giappone, e in alcuni casi di buon giornalismo, andando oltre alla notizia in sé. Ma in diverse situazioni, hanno generato ulteriore confusione nella popolazione locale in una situazione di crisi (quella nucleare), mal gestita dalle istituzioni. A poco meno di un mese dal terremoto, la situazione non solo non è migliorata, ma peggiora. Il controllo sulla centrale è ormai pari a zero: i tentativi di contenimento (anche con cemento armato) sono falliti e le radiazioni sono ormai arrivate nelle acque dell’oceano. I media, continuano a seguire la situazione, ma in molti casi quasi distrattamente, a fondo pagina. Tra qualche giorno forse non se ne parlerà neanche più, perché notizie nuove impongono di cambiare argomento e interessi e il giornalismo, soprattutto quello italiano, fa fatica a seguire nel corso del tempo le grandi calamità.
Il caso del Giappone è emblematico, dal punto di vista della comunicazione, perché cattive e buone pratiche si sono incrociate, così come il succedersi dei tre disastri: terremoto, tsunami e nucleare. E soprattutto ha messo in luce i punti dolenti della gestione delle crisi, che va pianificata in anticipo e nel dettaglio, anche nella continua ed equilibrata informazione alla popolazione coinvolta, perché i piani di rischio vanno preparati nei momenti di calma e lucidità, e non sotto la spinta emotiva di danni irreparabili già fatti e a venire.
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