La vicenda di Wikileaks ha avuto ampio spazio sui media nelle scorse settimane, ma sebbene il contenuto dei file resi noti dal sito abbia occupato la maggior parte degli articoli, i commenti e gli editoriali si sono soffermati piuttosto sul significato del fatto in sé. Infatti, la divulgazione di una mole così massiccia di documenti segreti, con una modalità che li rende accessibili a chiunque senza filtri, rappresenta un fatto nuovo, nel quale si possono ravvisare almeno due elementi che toccano da vicino il rapporto fra innovazione e responsabilità. Il primo è l’impossibilità di mantenere il segreto sui documenti elettronici, che – si è visto – possono ora essere rivelati con tecniche di spionaggio e hackeraggio e diffusi in rete su scala globale; il secondo elemento, strettamente legato al precedente, è il potenziale sovversivo di uno strumento che, come Wikileaks, azzera la riservatezza delle informazioni sulla quale si fonda l’esercizio del potere. Questo potenziale è del tutto indipendentemente dal contenuto dei documenti divulgati.
La novità introdotta da Assange rispetto alla segretezza informatica è balzata immediatamente all’occhio di molti osservatori, fin dai primi giorni. Il 28 novembre, data della pubblicazione della prima trance degli oltre 250.000 documenti, il Guardian, uno dei giornali cui Wikileaks aveva passato i file, scriveva: «Non esiste più un archivio elettronico sicuro […]. Nessuna organizzazione può più contare sulla riservatezza della comunicazione digitalizzata. Un segreto elettronico è una contraddizione in termini». E qualche giorno dopo, in Italia, Stefano Rodotà su Repubblica sottolineava l’inadeguatezza dei sistemi politici attuali di far fronte a questa rivoluzione: «Lo scandalo è Wikileaks o l’incomprensione e l’inconsapevolezza degli Stati nell’affrontare lo “tsunami digitale” che già caratterizza il tempo presente e sempre più disegnerà il futuro? È stata colta l’opportunità tecnologica per far crescere quasi senza limiti la raccolta delle informazioni e la loro conservazione in banche dati sempre più gigantesche. Ma questo mondo è troppo spesso governato da una cultura assai simile a quella degli antichi archivi, protetti dalle loro stesse caratteristiche fisiche – carta, schede, dischi – che rendevano difficile l’accesso e la circolazione delle informazioni raccolte. E invece le informazioni sono divenute sempre più facilmente reperibili, alla portata di molti, accessibili a distanza, agevoli da divulgare».
In molti si sono chiesti se il crollo del muro della riservatezza delle relazioni diplomatiche rappresenti un passo in avanti per la democrazia, e su questo sono emersi punti di vista differenti. La premessa necessaria è che, come osservato da numerosi commentatori, i fatti resi noti da Wikileaks non sono fatti nuovi. Lo ha notato subito, fra gli altri, Massimo Gramellini, che il 30 novembre, con il solito stile scanzonato, scriveva su La Stampa: «Diciamo la verità: per ora è stata più eccitante la Waka Waka del Wiki Wiki». E dopo aver elencato una serie di rivelazioni che davvero novità non sembrano, concludeva: «Sicuramente domani usciranno prove di torture, golpe, alieni seppelliti nel deserto con le antenne di fuori. Ma per adesso la vera vittima di Wikileaks è il mito della carriera diplomatica. Con gli ambasciatori, per secoli burattinai del potere, ridotti a messaggeri dell’ovvio». Un messaggio identico nella sostanza arriva anche, su Panorama, da Gianni Castellaneta, ambasciatore italiano negli Usa dal 2006 al 2009: «Non si può escludere che nei prossimi giorni e settimane l’ultima fuga di notizie di Wikileaks […] riveli novità dirompenti. Almeno al momento in cui scrivo, tuttavia, così non sembra. Non è un grande scoop la preoccupazione dei Paesi arabi rispetto al programma nucleare iraniano e la volontà di sollecitare l’alleato americano a verificare tutte le opzioni per rovesciare il regime di Teheran. Ne è la riprova che il regime stesso, piuttosto che fingere di stupirsene, inquadra tutta la vicenda come parte della guerra psicologica mossa da Washington». Analogamente, prosegue Castellaneta, non sono sorprendenti le rivelazioni sul rapporto ambiguo fra Usa e Pakistan, le relazioni fra Italia e Russia, né i giudizi sui leader dei Paesi. I file di Wikileaks, insomma, non cambieranno la politica estera dei governi. Tuttalpiù rappresentano per qualcuno un’occasione per togliersi qualche soddisfazione (come ha fatto Putin, accusando gli Usa di comportamento antidemocratico). Per dirla con le parole di David Thorne, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia: «È importante sottolineare che i documenti diplomatici interni non rappresentano la politica estera ufficiale di un governo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, essi costituiscono uno dei tanti elementi che contribuiscono a definire le nostre politiche, che vengono poi stabilite dal Presidente e dal Segretario di Stato».
Nonostante questo, però, la divulgazione dei documenti ha fatto infuriare la diplomazia americana e ha reso per qualche giorno Assange l’uomo più ricercato del pianeta (forse anche più di Osama Bin Laden, al quale qualcuno lo ha paragonato). Il motivo va cercato nel potenziale sovversivo di Wikileaks, che alcuni articoli hanno messo in luce, e che in generale i più entusiasti sostenitori di Assange non hanno colto in pieno. Commentando gli attacchi degli hacker del gruppo Anonymous, ai siti di MasterCard, Amazon, Paypal e altri, colpevoli di aver boicottato Wikileaks, Carlo Formenti scrive sul Corriere della Sera: «Ciò che colpisce, in questa vicenda, è l’ingenuo stupore che gli utopisti della rete manifestano di fronte a una verità talmente ovvia da sembrare banale: il potere – qualsiasi potere – si basa necessariamente sul segreto; è impossibile governare uno Stato, un partito, un’azienda senza nascondere ai cittadini/dipendenti/militanti una quota più o meno significativa di informazioni. Ma se ciò è vero, l’obiettivo di Assange e dei suoi fan non è rendere il potere più trasparente, bensì distruggerlo. Siamo di fronte alla versione postmoderna/digitale dell’utopia anarchica che sogna una società orizzontale e senza gerarchie, quindi senza segreti».
Le conseguenze di ciò sono ancora poco chiare. Scrive Heather Brooke sul Guardian: «Le rivelazioni di Wikileaks cambiano la dinamica del potere in modo rivoluzionario, perché ora semplici individui possono mettere online un documento e diffonderlo in tutto il mondo. Per alcuni è l’inizio di una crisi, per altri un’opportunità. La tecnologia abbatte le barriere tradizionali di status, classe, potere ricchezza e geografia sostituendole con una filosofia di collaborazione e trasparenza. […] Wikileaks è il fronte in un movimento globale per una maggiore trasparenza e partecipazione. […] Una volta un leader controllava i cittadini attraverso il controllo delle informazioni. Ora è diventato più difficile controllare quello che la gente legge, vede e sente. La tecnologia dà alle persone la capacità di unirsi e di sfidare le autorità. I potenti hanno a lungo spiato i cittadini, ora sono i cittadini a puntare gli occhi su di loro. Questa è una rivoluzione […] Ci avviamo verso un nuovo illuminismo dell’informazione o la reazione di chi vuole mantenere il controllo produrrà un nuovo totalitarismo?».
Coloro che Formenti chiama “utopisti della rete” (probabilmente gli stessi che tempo fa hanno proposto di dare a internet il Nobel per la Pace) sono convinti che una maggiore trasparenza avrà solo conseguenze positive (un articolo sul giornale online Huffington Post esprime bene le loro opinioni). Ma la trasparenza totale rischia di essere un boomerang per la libertà di informazione (come osserva Marco Bardazzi su La Stampa) e rischia anche di rendere ingovernabili gli Stati. In un commento dal titolo significativo di “Trasparenza senza responsabilità“, Juan Carlos de Martin conclude: «Dopo un primo entusiasmo a favore di una totale trasparenza, in realtà oggi si sta affermando la consapevolezza che l’apertura è sì un principio ordinatore essenziale a tutela di una democrazia sana, ma da temperare secondo l’etica della responsabilità, ovvero tenendo in conto le conseguenze della trasparenza. Se riusciremo a superare sia la resistenza degli apparati che preferiscono quasi costitutivamente l’opacità perché garantisce spazi di manovra, sia l’acritico entusiasmo della trasparenza assoluta, avremo capito meglio un aspetto essenziale della democrazia cogliendo allo stesso tempo i benefici della rete».