Due articoli pubblicati sulle pagine di cultura del Corriere della Sera, il 24 novembre, mettono in risalto aspetti inquietanti della diffusione sempre più capillare delle tecnologie informatiche, che starebbero modificando profondamente non solo il modo di interagire e rapportarci al mondo, ma il nostro stesso cervello e le sue facoltà. I due articoli non sono disponibili online, ma per l’originalità delle argomentazioni e la lucidità con cui sono espresse, merita in questa sede riassumerli.
Il primo («La perdita dei sensi della digital generation») è di Vittorino Andreoli, psichiatra studioso del comportamento umano e, in particolare, di come questo si sviluppa durante l’adolescenza. Ed è proprio sui giovani che si concentrano le sue riflessioni.
Andreoli parte dalla constatazione che la scuola attuale è del tutto inadeguata a educare gli adolescenti che vivono immersi nel mondo digitale. Prova ne sia che, durante gli esami, è proibito avvalersi di qualsiasi supporto tecnologico, sia esso un cellulare o un computer. Questo distacco, secondo Andreoli, crea una voragine fra chi dovrebbe insegnare e chi va a scuola per imparare. I due mondi non comunicano, anche perché il cervello stesso degli studenti di oggi non è più strutturato per comprendere insegnamenti impartiti con i criteri di ieri. Internet, infatti, ha trasformato la sensibilità (intesa come i 5 sensi), e con essa l’organizzazione cerebrale, che – come insegna la scienza – è capace di modificarsi in base agli imput che riceve, grazie al fenomeno che i neurologi chiamano plasticità. Più in generale, però internet ha profondamente alterato, e in senso generalmente negativo, le facoltà intellettive dei giovani.
A comporre il quadro del fenomeno, che è piuttosto complesso, concorrono numerosi elementi. Il primo è la perdita della capacità di dubitare, indotta dal mondo semplificato e virtuale in cui i giovani sono perennemente immersi: «Il mondo dello “yes or not” non lascia spazio al dubbio, che è invece la forza stessa del procedere scientifico e che immette la dimensione del tempo che passa, poiché la ricerca è progressione, dunque proiezione al futuro» scrive lo psichiatra.
Un altro elemento di novità è poi il declino della capacità di attenzione: un fenomeno questo strettamente legato alla modifica della sensibilità. L’attenzione dei giovani, si legge nel testo, «è molto selettiva e risponde con alta precisione ai sensi della vista e dell’udito». Ma contrariamente a quanto avveniva in passato (quando peraltro erano più sviluppate anche altre sensibilità), la vista oggi «non si rivolge al mondo concreto: quello che un tempo si chiamava reale, ma al mondo del video che è il luogo in cui si rappresenta e si consuma la vita digitale». E anche l’udito è diverso, giacché – fa notare lo psichiatra – i giovani vivono immersi nei suoni (prevalentemente quelli della loro musica) e non conoscono più il silenzio.
Tutto ciò non è privo di conseguenze, perché «modificando l’uso dei sensi si può cambiare la formazione delle idee e il procedere della mente». Un fenomeno, quest’ultimo, rafforzato da un altro elemento proprio delle generazioni il cui pensiero è costantemente sostenuto da qualche apparecchio elettronico: la perdita della memoria e della capacità di memorizzare numeri, parole e concetti. Scrive Andreoli: «Senza la memoria dei numeri, senza quella verbale (che significa memoria semantica) entrambe delegate alla memoria digitale, diventa impossibile formulare un pensiero articolato o comprendere un problema matematico […]. Non a caso, la generazione digitale sembra aver rinunciato alla relazione interpersonale a vantaggio di quella digitale che è visiva e auditiva. Ne deriva che, progressivamente, la lettura della Storia o di un romanzo non solo è rifiutata, ma più semplicemente non è comprensibile perché manca l’attenzione richiesta».
Ma a cambiare non è solo il rapporto con la cultura già prodotta. La generazione che è incapace di leggere un testo scritto, infatti, è incapace anche di produrre pensiero. Scrive lo psichiatra: «Della dialettica non rimarrà nemmeno l’ombra, del cartesiano “cogito ergo sum” sopravviverà solo una incomprensibile espressione: non ci sarà più niente da dimostrare e soprattutto nulla che sia oltre l’individuo».
Le osservazioni di carattere neurologico legano le riflessioni di Andreoli all’articolo di Carlo Formenti, «La rivincita di McLuhan (ma la Rete ora preoccupa)». «Esaurita l’onda lunga dell’entusiasmo “tecnofilo”» scrive il giornalista, «iniziano a circolare discorsi che traggono spunto dal pensiero del mediologo canadese, per andare nella direzione opposta: la Rete non rappresenta l’apoteosi di una tecnologia salvifica; al contrario, le trasformazioni che essa sta provocando nella nostra civiltà e nella natura stessa della nostra specie rischiano di essere catastrofiche». In particolare, Formenti si riferisce a due saggi scritti rispettivamente da due grandi esperti di tecnologie informatiche: Nicholas Carr e Jaron Lanier. Il primo (in The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains, un uscita per Raffaello Cortina) passa in rassegna le modifiche che la fruizione di internet porta al cervello, in particolare quando questa si sostituisce alla lettura su carta. A rafforzare quanto esposto nell’articolo di Andreoli, Formenti scrive: «Chi legge un libro impegna aree cerebrali associate a linguaggio, memoria e processi visuali, chi legge una pagina web o un ebook usa le regioni prefrontali associate all’assunzione di decisioni e alla risoluzione di problemi (deve valutare se seguire o no un link, elaborare i diversi stimoli multisensoriali indotti dalla multimedialità, eccetera). Ecco perché stiamo “amputando” le abilità associate alla cultura del libro (ragionamento astratto, sequenziale, pensiero individuale lento e profondo…) per sviluppare quelle associate alla cultura dello schermo (saltare rapidamente da un argomento all’altro restando in superficie, reagire fulmineamente a stimoli che sollecitano contemporaneamente sensi di versi…). Di per sé ciò non è né bene né male, ammette Carr, se non che dovremmo essere consapevoli che ci stiamo trasformando in “macchine da lavoro” tagliate su misura per le esigenze di una nuova industria culturale: Goolge funziona come una “macchina taylorista” che quantifica, parcellizza e svuota di senso il lavoro cognitivo, allo stesso modo in cui la catena di montaggio riduceva a mansioni ripetitive il vecchio lavoro artigianale».
I rischi di questa trasformazione sono esposti poi, in modo più esplicito, dall’altro libro recensito da Formenti: Tu non sei un gadget, di Jaron Lanier (Ed. Mondadori). Vi si sottolinea, per esempio, che le tecnologie offrono soluzioni preconfezionate, che non sono però necessariamente le migliori. E che la pervasività della rete rischia di sminuire l’ingegno degli uomini. Si legge nell’articolo: «Internet ha legittimato la concezione secondo cui dalle reti di computer emergerebbe una sorta di intelligenza superiore […]; ma questa ideologia svalorizza sia l’intelligenza umana (se le macchine sono intelligenti è giusto adattarsi alle loro esigenze!) sia il valore dell’individuo (la creatività non sta nel singolo ma nella “folla”).
(fotografia: Considering a Digital Future di ‘Stuck in Customs’ da Flickr)