Continua da un precedente articolo
(Questo è il terzo di una serie di brevi articoli dedicati alle nuove forme di comunicazione offerte dal web, che promettono e permettono modalità di fruizione, gestione e distribuzione delle informazioni completamente nuove, pervadendo sempre più la nostra quotidianità.)
Questo settembre è uscito un libro di Giampiero Moioli e Mario Gerosa che compie una panoramica di tutte le tematiche che gravitano attorno all’Augmented Reality, in maniera esaustiva. Al suo interno potete trovare un breve dialogo, sulla scorta dei miei diabloghi, frutto di un incontro tra Stefano Lazzari (che proponeva il tema), me e Federica Peruzzo, in cui si sostiene che noi tutti siamo i nostri device.
La nostra identità è composta di tutte quelle porzioni di identità che ci rappresentano nei diversi ambienti digitali e sociali. Le nostre presenze nei social networks, nei mondi immersivi tramite i nostri avatar, i nostri interventi nei blog, gli articoli, le raccolte di foto, di video, le nostre preferenze espresse, le scelte di un sito piuttosto che di un altro, tutte le iscrizioni e gli account creati dove abbiamo dovuto dare i nostri dati e indicazioni su noi stessi, le icone scelte o imposte… tutto questo compone la nostra identità digitale. Essa viene portata, distribuita dagli strumenti che usiamo, così che questi strumenti ci rappresentano nei confronti degli altri, non solo come scelta “di marca”, ma anche come scelta di modalità d’interazione. E il nostro device ci rappresenta in tutto e per tutto.
Pierangelo Garzia in “Mente&Cervello” di aprile fa una analisi simile riguardo al nostro rapporto con la tecnologia in generale; e Enrico Bellone nella sua rubrica “scienza e società” in Le scienze di settembre appoggia il punto di vista sottolineando che “il vero problema è darwiniano. Siamo davvero in grado di adattarci a quelle evoluzioni tecnologiche che sono indipendenti dalle nostre scelte, dalle nostre intenzioni e dalle nostre capacità predittive? Conosco una sola risposta: per adattarci a sopravvivere dobbiamo conoscere le regole del gioco, ovvero le leggi dell’evoluzione“. Va considerato che queste parole di Bellone concludono un articolo non sulla bomba atomica, ma su facebook!
Quindi, integrazione identitaria tra noi e i nostri device. Se si torna indietro al mio articolo precedente, a quando dicevo che tramite piccole applicazioni nel nostro device (capite come mai è sempre più difficile chiamarlo telefono cellulare?) possiamo ricevere informazioni su una persona inquadrata dalla nostra fotocamera, si può intuire come la rappresentanza può essere evidente.
Se proviamo ad immaginare un ambiente in cui la maggior parte degli individui usano questi strumenti e gli oggetti e gli ambienti sono geolocalizzati e forniscono informazioni, possiamo dire che ci troviamo immersi in una realtà aumentata. Si parla di personomy (Personal Information Cloud) per indicare qualcosa che combina l’identità, l’attività e la socialità (l’insieme delle persone che conosciamo).
I cosiddetti mondi immersivi (MUVE, multi-user virtual environment), quei mondi digitali in cui si muove un avatar di noi stessi, come si è detto un rappresentante a tutti gli effetti, sono qualcosa che da molti viene percepita come una forma transitoria, che promette tanto ma che ancora offre una piccola percentuale delle proprie potenzialità. Tra questi, chi desidera immergersi completamente, con tutti i propri sensi, e ricorda con nostalgia gli esperimenti dei caschi o delle tute in cui ci si infilava per provare a proiettarsi in un mondo alternativo, digitale in ogni caso, forse percepirà tutto ciò come un ennesimo tradimento delle aspettative, oppure non accetterà l’uso del termine “immersivo” per queste forme di realtà aumentata. Ma chi invece desidera una fusione maggiore tra quel che la digitalizzazione può permetterci e il mondo fisico, per avere una migliore continuità tra il flusso delle informazioni e l’ambiente in cui si muove, forse ora potrà trovare il vero sviluppo delle aspettative.
William Gibson in “Guerreros“, già nel 2007 prefigurava l'”arte locativa”: opere virtuali che si innestano nel panorama della città e che si possono osservare attraverso speciali visori. E’ anche vero che se si guarda il video (qui sotto) “Augmented City 3D”, una prefigurazione di cosa potrebbe succedere se si risolvessero alcuni cruciali difficoltà tecniche, dall’horror pleni citato in apertura forse non ci potremo salvare (chissà, forse avremo meno oggetti fisici e più immagini proiettate e il panorama urbano sarà una gigantesca lavagna bianca).
All’inizio del discorso, in Augmented reality, advertising, parlavo delle difficoltà di leggere simboli e segnali in un mondo in cui la sovrapproduzione di essi non ci permette di discernere ogni cosa, producendo l’effetto contrario: il rischio di una sorta di cecità.
Un cappello calzato in modo differente, un anello portato ad un preciso dito, la distanza fisica tra due persone, oggi non è più possibile leggerli come segnali di qualcosa, quel qualcosa non c’è più e il segnale non è più distinguibile. Non c’è più la tavolozza dipinta della realtà composta dai nostri gesti.
C’è un flusso continuo e variabile, in cui siamo immersi, in cui lo sforzo di estrapolare ed evitare informazioni ci obbliga a muoverci come dentro una foresta vergine.
E se veramente fossimo come dentro una foresta vergine che ha una sua vita noi nonostante?