Ciò che sta accadendo in alcune aule di tribunale, statunitensi e non, è un esempio dei problemi che possono sorgere quando una tecnologia ancora immatura è utilizzata prima che gli scienziati abbiamo avuto il tempo di metterla a punto e di verificarne l’effettiva validità. La tecnologia in questione è quella del brain imaging, che permette di visualizzare quali regioni del cervello si attivano in risposta a determinati stimoli, e in particolare la sua variante più sofisticata e recente: la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che esamina i flussi sanguigni per risalire al tipo di attività cerebrale in corso. Secondo i suoi sostenitori, questa tecnica – e altre simili – permetterebbero di capire se l’imputato sta mentendo, se le sue azioni sono state dettate da follia, se era presente o no al crimine di cui è accusato e così via. Tutti elementi preziosi per chi deve emettere un verdetto di innocenza o di colpevolezza, e anche per decidere l’entità della pena.
Il tema è stato affrontato di recente da Repubblica, che ha ripreso alcuni degli argomenti esposti in un ampio dossier pubblicato dalla rivista scientifica Nature.
Entrambi i giornali prendono in esame casi concreti che hanno suscitato discussioni accese dentro e fuori la comunità degli esperti. Il più significativo è quello di Brian Dugan, cittadino statunitense accusato di aver stuprato e ucciso due bambine e una donna fra il 1983 e il 1985, e di cui ha parlato anche Il Corriere della Sera. La difesa ha infatti utilizzato i dati derivati dalla sua fMRI con l’obiettivo di dimostrare la malattia mentale dell’imputato ed evitare così la sua condanna a morte. Ad appoggiare gli avvocati nella lotta legale è stato coinvolto Kent Kiehl, controverso neuroscienziato dell’Università del Nuovo Messico, che sostiene che il cervello degli psicopatici ha alcune anomalie che la fMRI mette bene in luce. Kiehl ha accettato di testimoniare in tribunale portando anche i risultati dei test che lui stesso aveva condotto su Dugan. Per confutare le sue tesi, la controparte ha chiamato lo psichiatra Jonathan Brodie, dell’Università di New York, che ha spiegato ai giurati perché molti scienziati ritengono che la risonanza magnetica funzionale sia inadatta a entrare nelle aule di tribunale. Senza dilungarsi nei tecnicismi, le obiezioni principali sono: che molti studi precedenti che hanno usato la fMRI non sono poi stati confermati; che i risultati delle indagini sono sempre il frutto di una media ottenuta scandagliando più persone (la tecnica sarebbe quindi troppo poco sensibile per dare risposte sui singoli casi); e che comunque una scansione eseguita oggi nulla può dire sullo stato mentale che un omicida può aver avuto molti anni prima. Dopo un primo verdetto che salvava Dugan dalla pena capitale, la giuria ha in seguito cambiato idea e ha condannato a morte l’uomo, che ora però si prepara a un processo d’appello nel quale presumibilmente porterà nuovamente a sua discolpa le risultanze dei test condotti sul suo cervello.
Indipendentemente da come si concluderà la vicenda, il nocciolo della questione è che i risultati di un esame controverso sono stati portati all’attenzione di una giuria composta da persone che non sono tenute ad avere le competenze tecniche per giudicare una materia in cui gli stessi ricercatori hanno opinioni discordanti (anzi, la maggior parte degli studiosi pensa che la fMRI sia inadeguata a essere utilizzata sui casi singoli, specie in un’aula di tribunale). Non solo: chi, come la stragrande maggioranza della popolazione, non ha conoscenze sufficienti a giudicare i complessi tecnicismi che stanno dietro a questi metodi può essere influenzato da un pregiudizio positivo, specie se – come è stato accaduto – chi presenta i dati è uno scienziato che mostra autorevolezza e che ha una lunga esperienza in materia: è quello che la rivista Nature ha chiamato “effetto CSI”, dalla popolare serie televisiva in cui la scienza forense porta prove inattaccabili dal punto di vista scientifico e risolutive dei casi più diversi. Persino i giudici, chiamati a decidere se e come le prove del brain imaging possano essere portate in tribunale, hanno espresso orientamenti opposti in processi diversi.
Come spesso accade, però, le perplessità di molti e i tempi che la scienza richiede per mettere a punto (o bocciare) la tecnica vengono scavalcati dagli eventi. Negli Usa, gli avvocati che si rivolgono a Kiehl sono ormai numerosi e anche i privati hanno intravisto il business: negli anni recenti sono infatti nate aziende che si offrono di sondare il cervello degli imputati per fornire le “prove” da portare al processo.
Altrove, e segnatamente in India, si sono verificate situazioni ancora più estreme. Come riporta l’edizione inglese di Wired, lo scorso giugno la ventitreenne Aditi Sharma è stata condannata all’ergastolo con l’accusa di aver avvelenato il suo ex fidanzato con l’arsenico, sulla base di un elettroencefalogramma. La tecnica usata, chiamata Brain electrical oscillations signature (Beos), è stata messa a punto nei laboratori del Direttorato per la scienza forense di Mumbai, ed è stata già eseguita su un centinaio di casi. Secondo il suo inventore permette di determinare se la persona sottoposta al test ha vissuto realmente l’esperienza che gli viene raccontata: se si tratta di un sospetto omicida, quindi, la tecnica dovrebbe consentire di capire se il racconto dell’assassinio è legato all’attivazione di aree cerebrali che indicano che quell’esperienza è stata davvero vissuta. Anche in questo caso, la tecnica è ben lontana dall’essere considerata valida dai ricercatori. Ma come ha confessato un tecnico del laboratorio di Mumbai al giornalista di Wired, «permette di accelerare i processi». Ed è forse questo il vero scopo con cui viene usata.
(fotografia: Reigh’s Brain rlwat di Reigh LeBlanc in Flickr)