(prosegue dal precedente post)
IL VALORE (DA COLTIVARE) DELL’INSICUREZZA.
Le cose dette ci portano a tre conclusioni:
1. Che occorre garantire che ogni persona, in conseguenza degli eventi della propria vita, scelti o subiti che siano, non vengadeprivata dei suoi diritti fondamentali (cibo, tetto, salute, cultura), e ridotta in condizioni di povertà da cui non possa risollevarsi.
2. Che le persone cercano non solo la sicurezza, ma una vita meritevole di essere vissuta, possibile solo in condizioni di relativa insicurezza.
3. Che il cambiamento non va subito, ma anticipato e valorizzato, non solo in generale ma proprio nella vita di ogni persona, con sistemi che non mirino solo a garantire i diritti umani e sociali fondamentali, ma anche a consentirgli di avvicinarsi il più possibile al tipo di vita e di attività a cui aspirano.
Non vi è dubbio che il primo obiettivo di un sistema sociale debba essere quello di evitare che chiunque, in conseguenza del cambiamento o di qualsiasi evenienza, cada in una condizione di perdita irreparabile dei diritti fondamentali.
Con la fine della economia delle ciminiere, il vecchio sistema concentrazionario basato su grandi insediamenti produttivi è stato fortemente ridimensionato: gli stabilimenti industriali si sono svuotati, il numero di lavoratori dipendenti è diminuito progressivamente mentre è aumentato lo stuolo dei lavoratori indipendenti. Questo ha portato alla presa di coscienza del fatto che “lavoratore” non è soltanto colui che opera come dipendente in una struttura produttiva più o meno grande, ma qualsiasi cittadino in condizioni di svolgere qualsiasi attività. In base a questa concezione onnicomprensiva si parla e si punta verso la garanzia di servizi sociali e di una retribuzione minima per tutti, “di cittadinanza”.
Le cose dette ci portano tuttavia verso una visione più ampia, che tocca la vita, oltre che il lavoro, delle persone.
Questa visione è basata su due rapporti strettamente connessi tra loro: il rapporto tra razionalità e irrazionalità, e quello tra sicurezza e insicurezza.
Per quanto riguarda il primo, è assodato che le aspirazioni degli uomini sono guidate solo in parte da scelte razionali, e in una parte forse predominante da pulsioni “irrazionali”, non per questo meno meritevoli di considerazione delle prime, dato che sia le une che le altre possono essere foriere di esiti positivi o negativi (6). Questa “verità” si riscontra persino nel mondo che una volta si supponeva guidato da considerazioni razionali di tipo esclusivamente utilitaristico: il mondo economico. Non a caso si è sviluppato negli ultimi tempi un nuovo campo di studi economici, quello della economia comportamentale, sulla scia degli studi di Daniel Kahneman, psicologo premio Nobel per l’economia (7).
Razionalità e irrazionalità guidano entrambe le scelte degli uomini. Quindi, chi ha come proprio compito o finalità quello di assicurare prospettive di vita migliori alle persone e più in generale alla società umana, ottenendone il consenso, e in particolare chi riveste funzioni di leader, deve parlare a tutti e due gli aspetti delle motivazioni umane. Deve proporre qualcosa che vada al di là del semplice benessere e di una sicurezza considerata in un’ottica puramente materiale. E non si tratta solo di una questione psicologica, secondo l’approccio dell’economia comportamentale, ma proprio di una questione di valori, alla fine etica. Una sorta di moderno richiamo al “fatti non foste a viver come bruti” dantesco. E l’esperienza storica, con i suoi grandi eventi, ci dice che non vi è nulla di utopico in questo appello ai valori che trascendono i valori economici.
Per quanto riguarda il secondo rapporto, è evidente che la maggioranza degli uomini si preoccupa molto di vivere in condizioni di sicurezza (8). Ma, così come è ormai provato che il quoziente d’intelligenza varia a seconda degli input che una persona riceve, anche il bisogno di sicurezza è relativo, e molti accetterebbero la proposta di un sacrificio o un rischio che fosse compensato da maggiori emozioni o soddisfazioni, senza per questo comportare conseguenze negative irreparabili.
Se la proposta di un giusto equilibrio tra sicurezza e insicurezza spetta in primo luogo a chi ha responsabilità pubbliche, altrettanto vale per chi ha responsabilità di impresa, o per qualsiasi altra struttura sociale, fino a quella famigliare.
Rispetto a questi obiettivi, mi sembra che anche i sistemi di flexsecurity su cui si punta attualmente richiederebbero un supplemento d’anima. Essi tendono infatti a fornire un paracadute a chi viene estromesso da un posto di lavoro (in particolare condizioni economiche essenziali, e servizi finalizzati al reinserimento nel lavoro), Essi intervengono tuttavia quando il cambiamento, con il suo carico di sofferenze, è già intervenuto, e non ad anticiparne gli effetti. In un certo senso, chiudono il cancello quando i buoi sono già scappati, ed è più difficile recuperarli. Vedo una analogia anche con la protezione civile che di questi tempi dimostra la sua efficienza dopo eventi come il terremoto in Abruzzo o la frana di Messina, ma che denuncia anche una grande incapacità di prevenzione.
Nella realtà, abbiamo tutti a che fare con situazioni in cui le persone, forse la maggioranza, hanno con la loro attività un rapporto non di gradimento, ma di necessità: la classica alienazione, mercificazione della propria attività in cambio di una retribuzione necessaria per vivere. Sono le persone che, nel momento della crisi, soffriranno di più, perché burocratizzate e alienate, rese incapaci di un ruolo attivo e creativo.
Bisognerebbe studiare come sia possibile una azione continuativa, che aiuti le persone a cambiare prima di essere obbligate a farlo. Come diceva il filosofo Kirkegaard, chi non sceglie è destinato a subire le scelte di qualcosa o di qualcun altro al di fuori di lui.
Ho spesso descritto questa realtà, verificata nella mia ormai lunga esperienza, dovuta alla tarda età, dicendo che la vita di ciascuno di noi è composta di numerose vite, che durano in genere tre-cinque anni, scelte o imposte dagli eventi. E ho concluso che al termine di ognuno di questi periodi bisognerebbe darsi un voto, come avviene nelle istituzioni democratiche, e decidere se “rieleggersi” o cambiare attività, sapendo che in mancanza di questa scelta saranno gli eventi esterni a costringerci a farlo.
Qualcosa del genere, nel campo lavorativo, avviene a livello di “head hunting”, di quel servizio svolto dai “cacciatori di teste” per le grandi aziende e per i dirigenti di alto livello. Occorrerebbe offrire a tutti i cittadini un servizio di questo genere.
Sarebbe un compito che dovrebbe coinvolgere non solo le istituzioni, ma anche le strutture produttive e le stesse famiglie. Un lavoro svolto malvolentieri in azienda dovrebbe essere considerato un problema sia per l’azienda che per chi lo svolge, e sarebbe utile che qualcuno si preoccupasse permanentemente e rispettando la privacy delle persone, di favorire le vocazioni e le motivazioni, anche a costo di cambiamenti apparentemente laceranti ma alla fine di comune soddisfazione. In una impresa famigliare, ma in realtà in qualsiasi famiglia, un padre che si preoccupasse di far nuotare per tempo i figli in mare aperto, secondo le loro vocazioni e capacità, farebbe sicuramente meglio di chi continuasse a proteggerli e a costringerli a dedicarsi ad attività per le quali non hanno alcuna vocazione.
Alla fine, la mia idea è semplicemente la solita: che occorrerebbe affrontare i problemi in modo strategico, nel senso proprio del termine “strategia”: di immaginare gli eventi futuri e cercare di anticiparli. La chiamerei provocatoriamente una “strategia dell’insicurezza”. Questo eviterebbe di dover prendere tardivamente provvedimenti impropriamente detti “strategici”, in realtà resi necessari dalla assenza di una strategia.
Anche se la realtà è drammaticamente liquida, come ce la descrive Bauman, non possiamo evitare di nuotarci dentro, con il fermo obiettivo di sopravvivere, anzi di vivere con allegria.
note:
6. Il rapporto tra razionalità e irrazionalità nelle vicende politiche è analizzato magistralmente da Isaiah Berlin nel suo “Il legno storto dell’umanità”, Ed. Adelphi, 1994. Se è vero il concetto gramsciano secondo cui il sonno della ragione genera mostri, si potrebbe dimostrare che anche l’insonnia della ragione, e le paranoie che ne conseguono, possono generare tragedie altrettanto mostruose.
(torna al testo)
7. Da notare che due sono stati i premi Nobel per l’economia attribuiti a studiosi provenienti dall’area psicologica. Il primo è stato Herbert Simon, che teorizzò la “razionalità limitata”. (torna al testo)
8. Sarebbe interessante una ricerca che confrontasse il bisogno di sicurezza presente in diverse società, paesi, regioni. Forse emergerebbe che l’Italia è un paese dove l’aspirazione alla sicurezza è più forte che altrove: il paese della “maglietta di lana”, del familismo amorale, dei figli che restano a lungo in casa dei genitori o che cercano un lavoro solo se non dista più di duecento metri dalla casa paterna, delle corporazioni come strutture protettive di chi vi appartiene, eccetera. Cose che sicuramente distinguono il nostro paese rispetto ad altri, dove i figli si rendono autonomi molto presto, dove non esistono corporazioni, dove la competitività è più aperta. D’altra parte emergerebbe anche un mondo italiano, tutt’altro che minoritario, di “esclusi dalla sicurezza”, di amanti della o condannati all’insicurezza, rappresentato soprattutto dalla miriade di piccole imprese e di lavoratori autonomi, nonché di artisti, con le loro famiglie e comunità ancora allargate a formare quel paracadute che non è assicurato dalle istituzioni. (torna al testo)
(questo articolo è apparso su PERSONE&CONOSCENZE N.53 – novembre 2009)
(fotografia: Way Of Life (particolare) di niko si da Flickr)