PROMETEO.
Fin dall’età della pietra gli uomini, figli di Prometeo oltre che di Adamo, si sono dati da fare per riuscire ad ottenere ciò che desiderano con il minimo sforzo. A partire dall’invenzione della leva e dalla ruota.
La logica conseguenza di questa inesausta attività è non soltanto che una persona acquisisce un moltiplicatore delle proprie forze (trasportare un quintale di roba su un carretto è molto meno faticoso che trascinarselo dietro), ma anche che ciò che richiedeva l’impiego di molte braccia, progressivamente ne ha richieste sempre meno (basterebbe guardare una sala telai di oggi, dove pochi tecnici governano decine di macchine, e ripensare a com’era cinquanta anni fa, popolata da centinaia di operai).
Contrariamente a ciò che ci si poteva aspettare, questo processo non ha costretto nessuno a restare con le mani in mano: c’è sempre stato qualcosa di nuovo da fare per tutti. Recentemente, la spesa di una famiglia media italiana per la comunicazione (TV, cellulari eccetera) ha superato quella dell’alimentazione. L’esperienza plurisecolare dimostra che i desideri degli uomini sono senza fine, passando dal recinto dei beni materiali al campo infinito degli intangibili, e rendendo inesauribili anche le attività necessarie per soddisfarli. E’ fatale che, con il progresso tecnico-scientifico, molte persone prima o poi non saranno più necessarie per svolgere un dato lavoro, e dovranno dedicarsi ad altro.
Appare quindi sorprendente che gli uomini siano sempre stati e siano tuttora presi sempre in contropiede dallo svolgersi di questo processo, e si comportino come se si trattasse di un fatto inaspettato e inaccettabile.
Il fatto è che i cambiamenti non avvengono in modo scorrevole, continuo, indolore. Avvengono per strappi, in modo discontinuo, e doloroso. L'”aggiustamento” alla nuova situazione incide sulla pelle di coloro che ne sono coinvolti. Ed è inutile dirgli che nel lungo termine la situazione si aggiusterà perché, come è stato notato molto tempo fa, nel lungo termine essi potrebbero essere morti.
Anche se è così da sempre, il fenomeno ha assunto negli ultimi tempi un ritmo incalzante, grazie all’accelerazione del cambiamento, drammatizzata da Zygmunt Bauman come “vita liquida” incontrollabile.
Comunque sia, l’esperienza avrebbe dovuto indurre gli uomini a capire la struttura del sistema, e ad adottare strategie capaci di dominarlo. Stranamente, non è stato così. Da una parte i battistrada, cioè gl’inventori, gl’innovatori hanno continuato ad operare senza curarsi molto delle conseguenze, dall’altra le persone investite dal cambiamento (e i loro rappresentanti) hanno continuato a comportarsi come se nulla mai dovesse cambiare. La maggioranza delle persone dava, e molti danno tuttora, per scontato di continuare a fare le stesse cose per tutta la vita. Salvo cercare poi di rimediare tardivamente e affannosamente agli sconvolgimenti causati dalla crisi .
La diffusione dei sistemi di welfare nel mondo occidentale, nella seconda metà del secolo scorso, ha sicuramente costituito un salto di qualità nella tutela delle “vittime” del cambiamento. Ma la concezione fondamentale su cui si sono basati questi sistemi, cioè la sicurezza “dalla culla alla bara” (già l’espressione ha qualcosa di angoscioso), presupponeva ancora una situazione caratterizzata da pochi e lenti cambiamenti.
Inevitabilmente questi sistemi sono entrati in crisi. Più recentemente si è parlato di workfare, oggi di flexsecurity, come superamento dei vecchi sistemi di protezione sociale. Il nuovo obiettivo è quello di assicurare alle persone una prospettiva stabile e sicura di vita, una “sicurezza” che consenta di metter su famiglia, di assumere un mutuo per l’acquisto di una casa, eccetera, pur nella prospettiva di dover cambiare spesso luogo e tipo di attività.
Ma anche questi nuovi sistemi puntano a rimediare ai momenti di crisi, e non ad affrontare strategicamente il problema.
LA SICUREZZA E’ IL MASSIMO?
Per farlo, è necessario andare al cuore del problema: quello del rapporto degli uomini con la sicurezza. Si suppone normalmente che la sicurezza sia la cosa che maggiormente sta a cuore agli umani. Ma è proprio vero?
Guardiamo ai giovani. Sicuramente, negli anni precedenti l’inizio dell’attività lavorativa e la costituzione di una famiglia, non cercano la sicurezza. Cercano piuttosto le emozioni, immaginano una vita avventurosa, spesso non accolgono gli inviti a comportarsi con prudenza (vedi la guida spericolata, o l’uso di alcolici). La ricerca della sicurezza viene dopo, quando si inizia l’attività lavorativa e si “mette su famiglia”, e si accompagna spesso a un senso di insoddisfazione, di rinuncia, di passività. Questo accade soprattutto in chi si inserisce in una struttura produttiva come dipendente. Proprio la posizione che viene vista come la più sicura.
Eppure vi sono molte persone che, per scelta o per tradizione famigliare, intraprendono attività indipendenti, come i piccoli imprenditori o gli artisti. Si tratta di attività sicuramente più rischiose delle prime, che possono in certi casi consentire a chi le pratica un grande benessere e grandi margini di sicurezza, ma che per lo più comportano una vita in cui la sopravvivenza e il benessere vanno conquistati giorno per giorno (non c’è nessuna busta paga garantita a fine mese, ma magari un banchetto in un mercato rionale dove a fine giornata si contano gli spiccioli). Il gusto della libertà di molti tra coloro che hanno intrapreso questo corso di vita non necessariamente coincide con il successo: può ritrovarsi anche in persone non baciate dalla fortuna (come molti commercianti o molti artisti, per non dire di alcuni che vivono lietamente in povertà) ma che, poste di fronte alla possibilità di un lavoro sicuro ma dipendente da altri, finiscono per rifiutarlo.
Moltissime persone, di qualsiasi categoria, indipendentemente da come si guadagnano da vivere, cercano poi di svolgere attività che contengono un elemento di rischio, sostanzialmente attività in cui si può vincere o perdere, soprattutto di tipo sportivo o economico. Si tratta di attività normalmente svolte entro limiti tali da non compromettere un contesto di sicurezza. Tuttavia in molti casi questi limiti vengono superati. Pensiamo agli spericolati dello sport, o al vizio del gioco.
Molte sono poi le persone affascinate da letture o rappresentazioni di storie avventurose, eventi bellici con tutto il contorno di armi sofisticate, distruzioni, morti e feriti, eventi e situazioni sublimi, vere o inventate. Si dirà che una cosa è viverle, queste narrazioni – con conseguenze anche letali -, una cosa è osservarle seduti in poltrona davanti alla TV. Ma questo affascinamento vorrà pur dire qualcosa sulla psicologia delle persone, soprattutto a chi vorrebbe agire perché le persone “vivano la vita che, ragionevolmente, desiderano vivere ” (Amartya Sen).
E’ strano: sembrerebbe che per assecondare i desideri della generalità delle persone, e ottenerne il consenso, si dovrebbe prospettargli due visioni contraddittorie: da una parte una condizione di grande sicurezza, ma poco entusiasmante; dall’altra una vita meno sicura, ma meritevole di essere vissuta.
L’insicurezza è per lo più legata a situazioni conflittuali. Ho già citato lo sport e l’economia: molti sport, così come il mercato, sono basati sulla competizione. Si tratta di attività soggette a regole che assicurano (o dovrebbero assicurare) la sopravvivenza dei perdenti, sia pure espulsi dal gioco, o addirittura che chi viene sconfitto possa rialzarsi e ricominciare a combattere. In un certo senso, sport e mercato sono forme omeopatiche della guerra, e il promuoverli potrebbe contribuire ad evitare conflitti distruttivi.
Del resto, non è forse vero che le famiglie dove si litiga quotidianamente, dove i problemi non vengono nascosti sotto il tappeto ma affrontati apertamente, sono quelle destinate a durare di più, rispetto a quelle apparentemente più quiete e “sicure”, ma che poi esplodono e finiscono in un divorzio, se non in vicende ancor più drammatiche?
TEMPRATI DALL’INSICUREZZA
L’esercizio continuato di un’attività rende sempre più abili nello svolgerla. Questa ovvia constatazione vale anche per la capacità di far fronte all’insicurezza.
Oggi ci si preoccupa delle condizioni di incertezza in cui i giovani, a differenza dei loro padri, si troverebbero a vivere. Eppure, se ben guardiamo, proprio grazie a questa nuova situazione essi hanno acquisito, quasi nel DNA, una capacità di adattamento al cambiamento di gran lunga superiore a quella degli anziani.
C’è un aspetto esemplare che li differenzia rispetto alle precedenti generazioni: il dare per scontato che le regole del gioco cambiano continuamente Una volta le regole erano poche e relativamente semplici. Ad esempio, nei giochi praticati da secoli (scacchi, dama, giochi di carte), le regole erano sempre le stesse e quando si imparavano, lo si faceva una volta per tutta la vita.
Oggi i giochi si moltiplicano, e con loro le rispettive regole, sempre in movimento (1). E non si tratta solo di videogame. Ogni volta che si deve usare un nuovo strumento, o adottare un nuovo software, occorre studiare a lungo i manuali relativi (di cui peraltro non si dirà mai male abbastanza, perché affidati a tecnici privi di entusiasmo) (2), e non una volta per tutte. Ebbene, questa attività ormai diventata continuativa, sconvolge spesso le persone anziane (anche di poco sopra gli “anta”!). Invece per i giovani è cosa ovvia. E ciò che più sorprende, è che si notano differenze, in questa capacità di apprendimento, anche tra i più e meno giovani, a volte solo di pochi anni.
Ho già parlato dei lavoratori autonomi e degli imprenditori. Sicuramente questi sono più temprati rispetto ai lavoratori dipendenti nel fronteggiare il cambiamento. Ma anche tra questi ultimi ci sono differenze notevoli. I lavoratori che dipendono da grandi aziende sono in genere meno “temprati” nell’affrontare l’insicurezza rispetto a quelli che operano nelle piccole imprese. I primi sono soggetti spesso a un processo di parcellizzazione mentale, qualcuno ha detto di istupidimento (3), che li rende progressivamente meno capaci, nel momento del cambiamento e in particolare del licenziamento, di immaginarsi e inserirsi in una nuova attività. Al contrario, i dipendenti di piccole imprese sono consapevoli di essere più esposti al cambiamento, “vedono” direttamente l’andamento buono o cattivo dell’impresa in cui lavorano, è come se fossero dotati di antenne che gli consentono di capire quando è il caso di abbandonare la nave per salire a bordo di un’altra (4).
Mi sembra interessante un’altra osservazione: sono stato personalmente coinvolto nei processi di ristrutturazione verificatisi negli anni ottanta, quando numerosi dirigenti si ritrovarono “a spasso” da una giorno all’altro, perché licenziati dalle grandi imprese alla ricerca di strutture più snelle e più piatte. Come il sottoscritto la maggior parte di questi dirigenti, dotati di un bagaglio culturale e professionale di buon livello, dopo un doloroso ma ricco processo di riflessione e di autocoscienza, sono in un certo senso rinati a nuova vita intraprendendo spesso attività più soddisfacenti delle precedenti.
Del resto e più in generale, è nota la capacità di adattamento degli uomini, che tuttavia si manifesta soprattutto con l’accadere di eventi disastrosi, e in particolare di guerre. Sono situazioni in cui gli uomini non sceglierebbero mai di trovarsi, ma che, quando si verificano, suscitano nelle persone e nei gruppi quella che banalmente è chiamata l’arte di arrangiarsi, ma che in realtà è capacità di far fronte al cambiamento, di reinventarsi e inventare nuovi modi di vita.
Non mi sembra irrilevante, a questo punto, riflettere sulle conseguenze da una parte di una vita tranquilla, condotta all’insegna della sicurezza, e dall’altra di una vita avventurosa, all’insegna dell’incertezza, estremizzandole.
L’ipotesi di una vita tranquilla, senza rischi, senza grandi problemi, oltre ad essere irrealistica, non è scevra di controindicazioni.
Possiamo immaginarla come una vita in cui una persona e la sua famiglia abbiano più dello stretto necessario per vivere una vita dignitosa: un reddito almeno medio, una bella abitazione, la possibilità di nutrirsi, di curarsi, di studiare, di partecipare a eventi culturali o sportivi, di viaggiare, eccetera. E una prospettiva che tutto ciò sia destinato a durare per tutta la vita.
E’ una vita attenta al proprio particulare, scarsamente interessata a ciò che avviene al di sopra della propria testa, magari rifiutato come “politica” ovviamente “sporca”, su cui non conviene o non è possibile agire. A questo atteggiamento corrisponde spesso la fiducia cieca in qualcosa o qualcuno che ci assicura la tranquillità.
Il risvolto negativo del benessere materiale è la monotonia, l’insoddisfazione, la noia, per lo più latenti. Se poi lo si suppone come duraturo, è facile che si atrofizzi la capacità inventiva, di far fronte al cambiamento. E il cambiamento è dietro l’angolo, può giungere nel momento più inaspettato. Tutta la costruzione basata sulla sicurezza è destinata a crollare catastroficamente (5). Si potrebbe addirittura affermare che la responsabilità del cambiamento, che può presentarsi in forme distruttive come lo sfascio di una famiglia, il fallimento di una azienda, un cataclisma naturale prevedibile ma non previsto, o addirittura un evento bellico, ricada anche su chi ha voltato gli occhi dall’altra parte quando i segnali di esso erano già evidenti.
L’ipotesi contrapposta, di una vita esposta a grandi rischi senza alcuna protezione, mette a repentaglio quelli che ormai sono riconosciuti come diritti fondamentali dell’uomo: la disponibilità di cibo e di acqua, di una abitazione, di istruzione, di sanità. Per quanto una persona sia temprata ad affrontare le difficoltà, gli eventi estremi possono travolgerla e comprometterne la possibilità di sopravvivere dignitosamente o addirittura fisicamente.
(continua)
note:
1. Lewis Carroll aveva anticipato Bauman di circa un secolo e mezzo, descrivendo in “Alice nel Paese delle meraviglie” una partita di croquet su un campo pieno di buche e solchi, con le mazze costituite da fenicotteri dal collo flessibile, le palle da porcospini che si srotolavano e fuggivano, gli archetti fatti di carte da gioco abbinate facili a disfarsi, e i giocatori tutti contemporaneamente in gioco. E con un gatto incombente che, come certe immagini dal web, si mostrava o spariva pezzo dopo pezzo, in tutto o in parte, a suo piacere. (torna al testo)
2. In proposito, riflessioni acute e sempre attuali si trovano in alcune pagine di “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert M. Pirzig. (torna al testo)
3. In un best seller degli anni ’80, “Alla ricerca dell’eccellenza” di T.J. Paters e R.H. Waterman Jr., questo processo era descritto in forma poetica (p.212): “… Che succede al momento dell’entrata…? Un’aura o un etere che ti lava il cervello, l’anima, e ti impone: “Per otto ore sarai diverso”. Cos’è che in un istante fa di un uomo un fanciullo? Eppure era un uomo prima che salisse i gradini, appendesse la giacca e prendesse il suo posto di lavoro…”(torna al testo)
4. Già prima delle leggi che hanno introdotto in Italia il lavoro flessibile, uno studio della Banca d’Italia mostrava una insospettata mobilità dei lavoratori italiani, con cinque anni di permanenza media nello stesso posto di lavoro. Data la rigidità del mercato del lavoro di allora, questo dato non poteva che risultare da una altissima mobilità del lavoro nelle piccole imprese, dato che quelle con meno di dieci dipendenti sono il 95% delle imprese italiane.(torna al testo)
5. Come non ricordare l’episodio dello scrittore Steiner, ne “La dolce vita” di Fellini, che il protagonista Marcello ammira e vorrebbe imitare, ma la cui apparente serenità si conclude con una tragedia famigliare? (torna al testo)
(fotografia: Falling Down (particolare) di niko si da Flickr)