da Politeia, XXIII, 87, 2007. pp. 207-212
Sui rapporti tra scienza e società: lezioni dal caso delle biotecnologie
Biotecnologie e decisioni pubbliche
di Roberta Sala
Il rapporto tra pubblico e biotecnologie è il tema che percorre trasversalmente i contributi di questo volume. Pubblico è termine che qui indica la collettività, la cittadinanza, ma anche la sfera pubblica, l’ambito delle decisioni collettive in riferimento allo sviluppo e all’impiego delle biotecnologie. In questo commento mi ripropongo di individuare una via, un filo con cui indicare – sulla scorta dei contributi dal mio punto di vista più interessanti e significativi – alcuni guadagni fondamentali in ordine all’analisi del su accennato rapporto tra pubblico e scienza, tra cittadini e biotecnologie. Mi lascio dunque sollecitare da alcuni concetti ricorrenti: ignoranza, rischio, incertezza, razionalità scientifica, pregiudizio moralistico, ideologia.
Il volume si apre con un interrogativo centrale: “gli italiani sono contrari alle biotecnologie?” (1) Dai dati raccolti si evince in primo luogo che la maggior parte degli italiani non esita a confidare nei benefici, presenti e futuri, ottenuti dall’avanzamento delle conoscenze scientifiche, sia per quanto riguarda la salute sia per quanto riguarda più in generale la vita quotidiana. Se dunque gli italiani fanno affermazioni improntate alla fiducia nei confronti della scienza, è pur vero che mostrano di nutrire profondo scetticismo verso alcune biotecnologie. A detta di Bucchi e Neresini, “il punto non è che il pubblico pretenda certezze che gli esperti non sono in grado di fornire: ognuno di noi è abituato a prendere decisioni in condizioni di incertezza nel corso della vita quotidiana […]. Il punto è gestire l’incertezza ‘tecnica’ congiuntamente all’incertezza che riguarda implicazioni e scopi dell’innovazione tecnoscientifica: solo di fronte a scopi condivisi e convincenti il pubblico è disposto a tollerare un certo grado di incertezza in termini di potenziali rischi e conseguenze inattese” (pp. 38-39). Il problema, sembra di capire, non sta tanto nella tollerabilità o meno dell’incertezza, quanto nell’assenza di uno scopo preciso per cui correre rischi. Si può cioè decidere di correre rischi a condizione che ne valga la pena. Non si intende invece correre alcun rischio se non c’è trasparenza, se prevale piuttosto la percezione di essere tenuti all’oscuro se non addirittura di essere considerati uno strumento per realizzare scopi altrui, per fini di ricchezza e potere che altri perseguono ai propri stessi danni. Le risposte degli intervistati rivelano la comune convinzione che, alla fine, a guadagnare dai rischi che tutti corriamo siano soltanto le multinazionali. “Il loro ‘no’ [il no degli intervistati] ad alcune biotecnologie deriva dalla percezione dell’ attuale assenza di procedure adeguate e socialmente accettabili – nel senso anche di comprensibili – per la governance dell’innovazione” (p. 41). E’ dunque il problema della partecipazione del pubblico alle decisioni collettive in ambito biotecnologico che occorre seriamente affrontare.
Ora, prima ancora di tentare una soluzione è necessario tenere conto del fatto
come suggerisce Bryan Wynne (2) – che “la cultura dominante ha imposto in modo dittatoriale una risposta preordinata a ciò che dovrebbe essere invece una negoziazione continua e collettiva sugli scopi della conoscenza”, e lo ha fatto “nel nome della ‘scienza’ rappresentata come rivelazione innocente; ma così sono state fraintese le preoccupazioni del pubblico sulla scienza come se fossero ‘non scientifiche’ e quindi al di là della responsabilità di scienza e scienziati” (pp. 51-52). E’ come se si dicesse che, a fronte di una scienza ‘innocente’, cioè priva di capacità di minaccia in quanto avente solo scopi positivi, qualsiasi perplessità da parte dei non scienziati sia irrazionale. Ancora, è come se si escludesse a priori un’eventuale responsabilità della scienza: la scienza – qui interpretata come priva di incertezze in ordine ai suoi stessi scopi oltre che in ordine ai mezzi per il loro raggiungimento – non può implicare alcuna forma di imprevedibilità. Non si può attribuire responsabilità per azioni o comportamenti o esiti imprevedibili.
Per meglio comprendere queste ultime considerazioni è necessario fare qualche precisazione ulteriore. Quando parliamo di responsabilità ci riferiamo al dovere da parte di chi agisce di rendere conto delle scelte, anzi delle azioni che decide di intraprendere in vista di determinati fini. Nella riflessione weberiana, per esempio, il politico è responsabile del suo agire come agire al servizio di una causa che gli è però data, che egli assume su di sé come fosse oggetto di fede. Al servizio della causa il politico si pone e non la discute. Dei mezzi si dovrà invece discutere, dovrà rendere conto del come vorrà perseguire quella causa, e delle conseguenze del suo agire, tenuto conto del fatto che egli potrà trovarsi nelle condizioni di usare la violenza, il potere, persino di stringere patti con “potenze diaboliche”; tenuto conto, in sostanza, dell’imprevedibilità del male (3).
Ora, un ragionamento non troppo dissimile può essere fatto anche in riferimento all’agire dello scienziato. Nella prospettiva della scienza ‘innocente’, si diceva, non c’è spazio per la responsabilità della scienza riguardo ai fini. La scienza è anzi neutrale nel senso che suo unico potere o scopo è quello di “dire i fatti”; al di fuori di essa si prenderanno le decisioni attorno a questi ‘nudi’ fatti. Possiamo dunque dire che la razionalità che guida lo scienziato è – in questa prospettiva – una sorta di ragione calcolante; quello dello scienziato è un agire strumentale su cui incombe soltanto un giudizio di efficacia, ovvero una valutazione della adeguatezza dei mezzi rispetto a determinati fini. Con le parole di Weber, possiamo dire che in questa prospettiva l’agire scientifico è un agire razionale rispetto ai mezzi. Se è così, la scienza non ha altra responsabilità oltre a quella della scelta dei mezzi (controversi) in funzione della realizzazione di determinati fini (buoni). Se i fini sono noti, se la scienza in questo ambito non patisce incertezza, la scelta dei mezzi è quasi un’ovvietà. Qualora si trattasse di una scelta contrastata, ciò sarebbe indice di scarsa conoscenza, di un deficit conoscitivo che attende solo di essere colmato. Wynne dissente da questa interpretazione della scienza e del suo compito di “dire i fatti”: “questa posizione vecchia e convenzionale – scrive – continua a negare da un lato la realtà dell’ignoranza scientifica e, dall’altro, la corrispondente e continua necessità di esprimere giudizi – che non possono mai essere esclusivamente scientifici, ma sono anche etici, sociali e politici – sulla sufficienza della nostra conoscenza scientifica, qualunque sia lo scopo in gioco” (p. 65).
Secondo Wynne si tratta di riconoscere l’ignoranza di cui soffre la scienza, il suo statuto di incertezza. E’ la scienza ad essere incerta, non già i mezzi di cui servirsi per un dato scopo; l’incertezza è anche imprevedibilità. Se è pur vero che non c’è in genere responsabilità per effetti che non siamo in grado di prevedere, è altresì vero che, dato lo statuto incerto della scienza, c’è responsabilità per non volere prevedere l’eventuale imprevedibilità. Sembra un gioco di parole, ma l’idea, molto più concreta, è che possiamo prevedere l’impossibilità di prevedere effetti disastrosi. A fronte della possibilità di rischi imprevedibili la scienza è oggi chiamata ad assumersi comunque una responsabilità sulla base del principio di precauzione.
Il principio di precauzione – precisa Tallacchini (4) – prevede che il diritto intervenga anche prima che si sia accertato un nesso causale tra rischio e danno, nella consapevolezza che la dimostrazione di tale nesso possa essere troppo tardiva rispetto a un danno temuto. Nelle procedure di valutazione del rischio, invece, l’incertezza è sempre ridotta a rischio calcolabile, per cui il diritto rimane in una posizione di neutralità rispetto alla scelta da compiere. Si capisce dunque perché il principio di precauzione non sia preso sul serio da coloro che considerano le evidenze empiriche l’unica base per discutere di scelte pubbliche. Tornando al ragionamento di Wynne, diciamo che una cultura scientista basata sul rischio rende superfluo qualsiasi discorso democratico sulle politiche riguardanti fini umani, non essendo in grado di concepirli come oggetto di dibattito. In conclusione: la questione della partecipazione del pubblico nei processi decisionali che riguardano le innovazioni scientifiche è sostanzialmente inficiata dalla cultura dominante secondo la quale la scienza – basandosi su una razionalità strumentale – è neutrale, per cui non vi sarebbe spazio per giudizi di tipo etico e politico. Negare l’ignoranza scientifica significa infatti fare la seguente affermazione: “prima i fatti, poi il giudizio sul loro utilizzo”. Alla luce di questa interpretazione della scienza come scienza certa, non c’è altra incertezza oltre a quella relativa alla valutazione del rischio, un’incertezza cui si pone rimedio con un nuovo più accurato calcolo.
C’è un altro aspetto connesso a questo e che è opportuno – sulla scorta della riflessione di Tallacchini – sottolineare: misconoscere l’incertezza della scienza, mettendola al riparo da valutazioni critiche intorno ai suoi stessi fini, significa assumere un atteggiamento ideologico e moralistico. Negare l’ignoranza scientifica apre il varco per l’introduzione surrettizia di giudizi morali; l’idea è che la scienza rappresenti comunque la strada per il progresso dell’umanità. La scienza è il baluardo della certezza per gli umani, che va a poco a poco scoperta. L’idea è – ancora – che solo gli scienziati “sappiano”, che a valere all’interno del processo decisionale sia solo la loro razionalità. Si tratta ancora di un pregiudizio morale, ossia della convinzione preconcetta e non dimostrata che gli ideali che hanno dato vita all’impresa scientifica abbiano un significato normativo, che vadano sempre perseguiti. Nello specifico, rinunciare alle biotecnologie significherebbe rinunciare al progredire della scienza ma, più in generale, al progresso dell’umanità. Ora, si potrebbe forse qualificare tale atteggiamento a insindacabile favore della scienza come una forma di paternalismo scientifico: una visione di questo tipo non tarda certo a indicare cittadini come incapaci di affrontare l’incertezza, e ancor prima, come incapaci di costruire significati autonomi per la loro esistenza.
Se quanto fin qui detto ha un senso, si capisce allora perché il pubblico reagisca con scetticismo non tanto nei confronti della scienza – per la quale nutre invece generico ottimismo, riponendovi le speranze per il miglioramento dell’esistenza quotidiana, e della salute in primo luogo – bensì contro la cultura della scienza in politica, che ha trasformato le conoscenze scientifiche in forma di arrogante scientismo. Prova concreta di tale arroganza è l’istituzione di commissioni scientifiche ad hoc, commissioni di esperti il cui scopo è fornire al legislatore materia su cui legiferare. Si veda come la mentalità sottesa alle commissioni sia proprio quella di chi affida ai pochi le decisioni riguardanti i molti, se non l’intera cittadinanza. E’ la mentalità promossa dalla cultura della scienza in politica, dunque, che – qualificando il pubblico come irrazionale, incapace di giudizio, ignorante – gli toglie il ruolo di interlocutore. Se perciò spetta alla scienza l’unica forma accettabile di razionalità, se di essa è misconosciuta qualsiasi incertezza o ignoranza, non c’è spazio per il dialogo democratico sulle politiche riguardanti i fini della scienza; questi non sono in discussione, non sono oggetti di dibattito.
Torniamo così al discorso precedente attorno alla responsabilità: se i fini sono dati, se si assume un’ attitudine reverenziale nei loro confronti al punto da considerarli imponderabili, se i fini della scienza sono sottratti a qualsiasi valutazione extrascientifica da parte dei destinatari di politiche esterni alla scienza stessa, tutto ciò di cui questi ultimi possono chiedere conto è solo la razionalità dei mezzi impiegati, la loro efficacia nel perseguimento dei fini già dati.
E’ evidente che – come scrive Tallacchini -la scelta di regolamentare le questioni etiche relative alla scienza attraverso comitati di esperti si rivela contraddittoria rispetto all’intento partecipativo nei confronti della cittadinanza: i comitati di esperti, infatti, rispecchiano la logica tecnocratica della consulenza specialistica più che il senso dell’inclusione democratica. Esclusi i destinatari della scienza dal processo decisionale circa i fini della scienza stessa, la funzione delle commissioni assume un significato retorico, quello di persuadere i cittadini che a decidere – tramite gli esperti che li rappresentano – siano loro stessi. Al contrario, l’istituzione di commissioni di esperti corrisponde – secondo Lorenzet (5) – a una forma di sacralizzazione della scienza, resa ancor più inaccessibile al pubblico profano: “è possibile quindi definire la razionalità scientifica degli attori coinvolti nel dibattito pubblico sui media come una razionalità retorica, orientata a guadagnare stima e fiducia da parte del pubblico attraverso il riferimento a frames interpretativi connessi a rappresentazioni sociali condivise” (p. 119).
Se questa è la situazione del rapporto tra pubblico e scienza, quale via di uscita rimane? Quale soluzione si può prospettare?
All’idea dell’expertise va sostituita l’idea della governance: l’idea cioè di una reale partecipazione dei cittadini nelle decisioni della scienza. Esperti sono in quest’ottica i cittadini, in quanto destinatari della scienza, fruitori primi dei suoi risultati. Le scelte in quanto pubbliche richiedono l’estensione al pubblico della figura di esperto nonché l’apertura ai cittadini dei percorsi deliberativi. La politica della scienza – sottolinea Pellegrini (6) – va pensata come sfera della partecipazione. Requisito irrinunciabile è la trasparenza, anzi irrinunciabili sono trasparenza e responsabilità (nell’accezione di accountability, dovere di rendere conto). L’idea è quella per cui i cittadini possano revocare il mandato di potere specie quando la mancanza di riflessione pubblica adeguata su questi temi, è – per citare ancora Tallacchini – “all’origine di situazioni di confusione e di esercizio arbitrario di poteri” (p. 163). Occorre superare qualsiasi tentazione o logica tecnocratica per una vera e propria democrazia della scienza. Occorre – ancora – concepire vere e proprie arene deliberative, ovvero spazi dedicati all’interazione tra decisori pubblici, esperti tradizionali e pubblico con ricadute sui processi decisionali.
Pensare per la scienza una forma di democrazia deliberativa significa assumere come centrale una logica argomentativa più che una logica della negoziazione. Si tratta in altre parole, non già di ritagliare uno spazio di accordo su fini condivisi (che ci si ritrova cioè a condividere a partire ciascuno dal proprio particolare punto di vista); bensì di intraprendere un percorso comune di costruzione di un terreno su cui realizzare gradualmente l’accordo. In altre parole, l’idea è quella di concepire la scelta collettiva come esito di un discorso: non si arriva al dibattito pubblico forti delle proprie ragioni con l’unico intento di difenderle, ma si accede al dibattito per individuare collettivamente ragioni valide a sostegno di decisioni rilevanti per tutti. Così inteso, il processo deliberativo non è dunque un confronto ‘estrinseco’ tra posizioni già definite, ma è un vero e proprio processo dinamico in cui è sempre tenuta aperta la possibilità di rivedere le rispettive posizioni. La democrazia è detta deliberativa proprio in quanto le parti giungono a un consenso moralmente motivato sulla base di ragioni che convincono tutte allo stesso modo, in quanto ragioni costruite in un processo che non esclude pregiudizi al mente alcuno (7).
Note
1. Vd. M. Bucchi, F. Neresini, “Gli italiani sono contrari alle biotecnologie? Alcuni stereotipi su opinione pubblica e biotecnologie in Italia”, pp. 17-46.
2. Vd. B. Wynne, “Illusioni rischiose: scienza incompresa e pubblici immaginari nel dibattito sulle
coltivazioni GM”, pp. 47-79.
3. M. Weber, La politica come professione (1919), in La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi, Torino, 2004, pp. 47-121.
4. M. Tallacchini, “Breve storia giuridica delle biotecnologie, tra incertezza e brevettabilità”, pp.
163-189.
5. A. Lorenzet, “Razionalità e retorica: il dibattito sugli OGM nei quotidiani italiani”, pp. 103-122.
6. G. Pellegrini, “Decidere sulle biotecnologie: le sfide per la democrazia”, pp. 191-210.
7. Sulla discussione attorno alla democrazia deliberativa si vedano per esempio: S. Benhabib, Toward a Deliberative Model of Democratic Legitimacy”, in S. Benhabib (ed.), Democracy and Difference. Contesting the BOllndaries of the Political, Princeton University Press, Princeton, 1996; J. Bohman, Pliblic Deliberation. Pluralism, Complexity and Democracy, MIT Press, Cambridge (Mass.), 1996; A. Gutmann, D. Thompson, Why Deliberative Democracy?, Princeton University Press, Princeton, 2004.