Lunedì 19 novembre 2007, nell’Aula Seminari del Dipartimento Studi Sociali e Politici dell’Università degli Studi di Milano, si è svolta la conversazione con Fabrizio Barca, Dirigente generale e Consigliere ministeriale presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. L’incontro fa parte del progetto LabInRes, il Laboratorio sull’Innovazione Responsabile nella Pubblica Amministrazione, organizzato dalla Fondazione Giannino Bassetti, dal Corso di Laurea Magistrale in Amministrazioni e Politiche Pubbliche dell’Università degli Studi di Milano e dal Centro Interdipartimentale Icona.
Indice degli interventi (clicca per raggiungerli velocemente):
Gloria Regonini
Fabrizio Barca
Massimo Florio
Alessia Damonte
Fabrizio Barca
Alessia Monica
Piero Bassetti
Fabrizio Barca
Marco Zamboni
Gloria Regonini
Fabrizio Barca
Piero Bassetti
Gloria Regonini
Presidente Corso di Laurea Magistrale APP (Università Statale di Milano)
Siamo molto contenti di avere oggi ospite Fabrizio Barca che riassume in sé alcune caratteristiche che ne fanno un ospite straordinario.
Per presentarlo voglio ricordare innanzitutto l’esperienza che ha acquisito in otto anni al Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e il suo ruolo di policy entrepreneur assolutamente centrale per quanto riguarda i fondi strutturali e le politiche di coesione. Un ruolo di cerniera, quello che ha svolto, – uso le sue parole – tra eurocrazia e burocrazie periferiche, con segni che starà a lui valutare e presentare. Ricordo poi il suo impegno nella valutazione dell’efficacia degli investimenti pubblici e le proposte per le politiche regionali e europee nella fase post allargamento. Richiamo anche il suo ruolo di ricercatore e di studioso con la pubblicazione di Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi (1997), Il capitalismo italiano. Storia di un compromesso senza riforme (1999), Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo (2006), i cui titoli sintetizzano bene la sua visione della situazione economica italiana.
Ha collaborato con il Consiglio italiano per le Scienze Sociali, con Stato e mercato con una serie di iniziative. Importante è anche il suo ruolo di imprenditore per le politiche di formazione nei Master del Formez (Progetto Nuval) per Esperti di programmazione e valutazione delle politiche di sviluppo, la collaborazione con i Master dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali. Ricordo inoltre il suo impegno per l’elaborazione del Quaderno bianco sulla scuola, realizzato con il Ministero della Pubblica istruzione.
Ho scoperto anche il suo ruolo di divulgatore, perché che è uno degli autori di Storie interrotte, un progetto teatrale per la presentazione di alcuni grandi policy entrepreneur italiani.
Questo per quanto riguarda alcune delle iniziative e dei ruoli che ha ricoperto.
Oggi ti chiederemmo un contributo sul tema centrale del nostro seminario: responsabilità, innovazione nel settore pubblico, valutazione, chiedendoti anche di fare qualche riferimento ai tempi e al contesto “dopo Grillo” a Bruxelles, per essere un po’ provocatori.
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Fabrizio Barca
Dirigente generale e Consigliere ministeriale presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze
La parola chiave del pomeriggio che mi date l’occasione di avere con voi è innovazione. Lasciatemi esplicitare il concetto di innovazione che ho in mente quando userò questo termine: l’innovazione di cui parlo è l’innovazione radicale, non quella incrementale, caratterizzata (con Lanes e Seravalli) da quattro requisiti: la discontinuità, l’intenzionalità, l’interazione fra più soggetti (l’innovazione non è un’operazione autoreferenziale, è cogenerazione), e quindi, come conseguenza di questi tre tratti, la dipendenza dal contesto. Per questi suoi requisiti l’innovazione è un problema sia di conoscenze sia di interessi.
è un problema di conoscenze perché, per definizione, le conoscenze necessarie all’innovazione non sono e non possono essere tutte disponibili all’inizio del processo innovativo, ergo devono essere acquisite da una pluralità di soggetti e ricombinate attraverso un processo che avviene in condizioni di incertezza radicale. Questa incertezza crea una tensione fra la necessità di fissare obiettivi al processo innovativo e l’impossibilità di definire compiutamente questi obiettivi, impossibilità contenuta nella natura radicale dell’incertezza. Sull’altro piano, l’innovazione incontra ostacoli negli interessi che sono beneficiati dall’opposto dell’innovazione, cioè dalla conservazione.
Ne consegue – e chiudo questo preambolo, rivelatore dei miei a priori – che l’innovazione richiede un disegno organizzativo che da un lato favorisca il processo di rivelazione delle conoscenze e di loro combinazione e risolva la tensione fra necessità di fissare obiettivi e impossibilità di definirli, e dall’altro raccolga consenso, perché altrimenti l’innovazione verrà fermata. Entrambi questi requisiti dell’organizzazione – rivelazione delle conoscenze e consenso – richiedono flessibilità.
Tutti questi tratti legati alla conoscenza e all’incertezza, sono in qualche modo presenti nell’esperienza della politica pubblica che discuto oggi.
Si tratta di un’operazione di innovazione nel governo della produzione di beni pubblici (istruzione, formazione, trasporti, acqua, rifiuti, accesso ai beni culturali e naturali) con particolare, ma non esclusivo, riferimento al Mezzogiorno. E si tratta di un’operazione inusuale, sia sul piano politico, sia su quello amministrativo per via della predefinizione esplicita degli obiettivi e della sua persistenza attraverso tre legislature e cinque governi, incluso il governo attuale, nonostante molti degli obiettivi non siano stati raggiunti. Si tratta quindi di un’esperienza particolarmente interessante per verificare la natura dell’intenzionalità – che cosa si intendeva fare -, per capire come è stato affrontato il problema degli obiettivi – la necessità di stabilirli, l’impossibilità di definirli in modo completo – e se e come è stato governato il consenso. Mi soffermerò su questi tre profili.
L’operazione nasce, come capita per molte innovazioni, grazie a due discontinuità esogene.
La prima è l’ammissione dell’Italia – non scontata e da molti non prevista – nell’Unione monetaria. Questa provoca due conseguenze (siamo a fine 1997-inizio 1998): la necessità politica di crescere (agli italiani erano stati chiesti sacrifici e ora essi pretendevano un ritorno e c’erano già segnali di erosione di consenso da parte dell’elettorato) e l’impossibilità, per via dell’Unione monetaria, di ottenere quel ritorno con la leva del cambio. C’era quindi da inventare una politica diversa per dare questo ritorno. Questa è la prima discontinuità. è sempre rischioso raccontare ex post un’esperienza. Preferisco, quindi, per correttezza, riportare le parole che scriveva allora il Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi nella Relazione previsionale e programmatica presentata in Parlamento il 1° ottobre 1998: “A una sfida coronata dal successo – il ricupero della stabilità monetaria, il riequilibrio dei conti pubblici, la riconquista della credibilità internazionale, la partecipazione alla creazione della moneta unica europea – segue ora una sfida, ancor più ambiziosa, ancor più vitale, ancor più difficile: tradurre in atto pienamente le potenzialità di sviluppo che il Paese possiede, far divenire effettivo per ogni cittadino l’esercizio del diritto al lavoro, ampliare la partecipazione dei più deboli alle condizioni socio-economiche generali, dare loro le opportunità per poter governare responsabilmente la propria vita, costruire il nuovo pensando al benessere delle generazioni future”.
La seconda discontinuità, anch’essa frutto dei rapporti dell’Italia con l’Unione europea, riguarda espressamente il Mezzogiorno ed è rappresentata dalla chiusura della Cassa (o meglio Agenzia, come era stata ridenominata) per il Mezzogiorno realizzata da Beniamino Andreatta già nel 1992 anche in connessione con necessità di finanza pubblica. A questa chiusura si associa l’interruzione delle coperture delle perdite dei grandi impianti degli enti pubblici, segnatamente dell’IRI, nel Mezzogiorno e l’arresto delle pratiche clientelari che avevano segnato la progressiva degenerazione della Cassa, a partire già dagli anni ’60, dopo i grandi successi del primo decennio.
A questa interruzione non aveva fatto seguito alcuna nuova politica, per cinque, sei anni. Nel vuoto di politica economica erano stati osservati dagli analisti segnali di ripresa, di vivacità sia del sistema delle imprese sia della società civile, sia delle amministrazioni locali, posti, tutti questi soggetti, dopo così lunghi anni di sussidi pubblici, di fronte alla necessità di provvedere con le proprie energie e i propri mezzi.
Da queste due discontinuità deriva nel 1998 la scelta strategica di realizzare una nuova politica di sviluppo mirata all’innalzamento della qualità dei beni pubblici, dei servizi pubblici, specie nel Sud, con l’obiettivo di elevare la produttività degli investimenti privati. S secondo uno schema classico. Migliorare la qualità dei servizi e quindi aumentare, a parità di tutto il resto, la redditività degli investimenti privati. Come farlo? Attraverso un rafforzamento della capacità della pubblica amministrazione, dello Stato, di realizzare e promuovere investimenti pubblici materiali e immateriali e di gestirli/o farli gestire assicurando, appunto, servizi di qualità: di istruzione, sanitari, di approvvigionamento idrico, di accessibilità ai luoghi, di tutela del territorio, di ordine pubblico e giustizia … insomma i servizi che i cittadini, ovunque, hanno ragione di aspettare dallo Stato.
Nella realizzazione di queste azioni la pubblica amministrazione va vista come un “mediatore tra soggetti privati”. Da un lato, compito dell’amministrazione è identificare i fabbisogni dei contesti locali, ovverosia estrarre conoscenza dai soggetti privati per realizzare quei servizi la cui realizzazione può consentire loro l’accesso e la valorizzazione delle risorse del territorio. La conoscenza è diffusa fra molteplici soggetti privati; la prima operazione dello Stato è creare condizioni di coordinamento che consentano di estrarre e “assemblare” questa conoscenza. Il secondo compito dello Stato consiste nel “restituire ai privati l’operazione”, individuando, attraverso bandi o altre modalità, i soggetti privati più adatti a realizzare gli interventi e a gestire i servizi.
Vista così, l’innovazione della politica di sviluppo si presenta come innovazione dei metodi e dell’organizzazione dello Stato, della pubblica amministrazione, della regolazione dei mercati (dei servizi). Scrivevamo allora: “Molti problemi ora richiamati traggono origine da una tradizione amministrativa obsoleta, inadeguata a un moderno sistema industriale, segnata dalla preferenza per moduli autoritari, inadatti a incorporare modelli istituzionalmente orientati al consenso e da una concezione organizzativa autocratica avversa tanto al ricorso che all’innesto al suo interno di ruoli tecnici e caratterizzata da un rapporto centro-periferia inadeguato a fornire spazio alla dimensione regionale e sub-regionale nella selezione delle priorità, nell’individuazione degli obiettivi, nel disegno degli interventi”.
Questi tratti vengono percepiti come tratti da modificare. L’innovazione si caratterizza così per un insieme di azioni che possiamo riassumere in sette indirizzi:
- allontanandosi da un sistema autoritario discendente, destinato a fallire per l’assenza di conoscenza, costruire un governo multilivello articolato nell’Unione europea, nello Stato centrale e nelle Regioni e nelle autonomie locali, dove la Regione e lo Stato centrale ricevono dall’Unione europea conditional grants, trasferimenti condizionati, che poi utilizzeranno per finanziare progetti alla cui costruzione concorrono le autonomie locali;
- rafforzare le capacità ordinarie dell’amministrazione, non costruendo strutture a latere, ma rafforzando la normale capacità di gestire, di programmare, di fare bandi;
- costruire nell’amministrazione centrale centri di eccellenza, pochi centri di eccellenza che diano un senso al ruolo del centro, e che – come si dice in linguaggio comunitario – diano un valore aggiunto ai livelli locali di governo;
- costruire un forte centro di coordinamento nazionale, che sarà poi il Dipartimento delle Politiche di sviluppo dentro un ministero rafforzato. In quello stesso momento, infatti, viene unificato il Ministero del tesoro con il Ministero del bilancio e l’Italia, per la prima volta, decide di dotarsi, come altri Paesi, di un forte, unico, centro che si occupi delle entrate, delle uscite, dei profili contabili, dei profili di privatizzazione, dei profili di sviluppo, dei profili di coordinamento della programmazione. In questo non vi è stata continuità, perché questo centro unico è stato decostruito all’inizio di questo ultimo governo;
- orientare l’azione pubblica al risultato – il più delicato degli indirizzi, su cui tornerò – con l’adozione di forme di incentivazione;
- diffondere una cultura della valutazione, che è alla base di un orientamento al risultato;
- e, infine, come complemento politico di tutto questo, estendere l’elezione diretta dai sindaci ai presidenti delle regioni, condizione necessaria e coerente con il ruolo centrale delle Regioni nel governo multilivello. Era necessario un giudizio diretto dei cittadini nei confronti delle Regioni, se le Regioni assumevano un ruolo centrale.
Ogni innovazione, soprattutto di questo tipo, tende a creare alleati e avversari. Alla capacità di percepire in anticipo e di affrontare gli effetti delle reazioni dei soggetti investiti dall’innovazione è legato il suo esito. Consideriamo alleati e avversari di questa svolta.
Il primo potenziale alleato di una politica di questo tipo è il beneficiario finale dei beni pubblici, ovvero sono i cittadini e le imprese. Ma gli effetti su di loro sono assai ritardati nel tempo; e ciò confligge con la necessità di mobilitarli nella fase di avvio del progetto. In altri Paesi il sostegno a una politica di questo tipo verrebbe dalle associazioni in cui questi soggetti sono organizzati, ma in Italia queste associazioni sono assai fragili. In altri Paesi il sostegno a una politica di questo tipo verrebbe dalla stampa, verrebbe dalla sua capacità di identificare gli obiettivi e di farne oggetto di verifica quotidiana; ma in Italia non è questo il modo di operare della stampa. Percependo questi limiti, si tentò allora una mobilitazione della stampa e del “terzo settore”. In particolare, il tentativo compiuto da Palazzo Chigi nel dicembre 1998, nel Patto di Natale, di affiancare alle parti economiche e sociali tradizionali le organizzazioni del terzo settore è un intervento interessante, ma poco studiato. Si organizzò un Forum, si cercò di dare voce a queste organizzazioni, di farle pesare. Si decise però di giocare anche la carta dei sindacati, delle confederazioni generali che in Italia svolgono un ruolo sostitutivo dell’associazionismo degli interessi orizzontali. Ma la mobilitazione del sindacato su tematiche territoriali non è cosa facile in un Paese dove sono state erose le strutture tipicamente territoriali come le Camere del lavoro.
Altri attori, altri alleati si mobilitarono spontaneamente:
- alcuni nuovi imprenditori e professionisti che videro nella nuova politica la chance di rompere le posizioni di rendita locali che li avevano tradizionalmente esclusi: ma questi soggetti non avevano una voce forte a livello nazionale, non trovavano rappresentanza significativa nelle loro associazioni nazionali;
- diversi singoli intellettuali lontani dalle maglie dei practitioners, dei “praticoni”, che avevano dato consulenza per anni alla gestione dei fondi comunitari, e convinti di un approccio allo sviluppo attento alla centralità della conoscenza locale e della possibilità che si stesse aprendo una stagione propizia a fare avanzare nuove idee;
- giovani e meno giovani dentro l’amministrazione pubblica che intravidero nel progetto di innovazione amministrativa l’opzione e la speranza di una stagione diversa di rilancio dell’azione pubblica. Alcune di queste figure provenivano, tra l’altro, – cosa assai interessante – dall’esperienza della Cassa, essendo state disperse dall’inevitabile bruschezza con cui la Cassa era stata chiusa e dalla successiva incapacità o non volontà di recuperarle;
- giovani, dottorati, ricercatori, impegnati nel privato o in istituzioni internazionali, animati da un senso di missione pubblica e attratti dal messaggio di rinnovamento e dalla credibilità del Ministro del tesoro.
Come capite, si tratta di sezioni della società e risorse umane assai importanti, ma deboli in termini di rapporti di forza. E appariranno ancora più deboli quando descriverò gli avversari. Ma c’è un ultimo soggetto, che si aggiunge a tutti questi e che si rivela decisivo per il decollo del progetto: si tratta dei vertici politici della coalizione di centro-sinistra al governo, che credevano, dovevano credere, che il progetto messo sul tavolo dal Ministro del Tesoro, che aveva creduto, perseguito e ottenuto l’entrata nell’Unione monetaria, potesse dare loro anche lo “sviluppo”. Questo appoggio all’inizio fu assai forte. Poiché il consenso elettorale si andava erodendo, era l’unica carta a disposizione. Questo fortissimo consenso sarà la forza, ma anche la fonte di precarietà dell’operazione.
E veniamo agli avversari. Prima vengono quelli toccati nei loro interessi:
- la moltitudine dei cosiddetti “imprenditori 488” del Sud, quelli che erano sopravvissuti e sopravvivevano con i sussidi e alcuni medi e grandi imprenditori del Centro-Nord che vuoi sulla 488, vuoi sul tentativo di pilotare i contratti di programma, o altre forme di incentivazione negoziata con lo Stato (prima di tutto i cosiddetti “contratti d’area”), costruivano o pensavano di poter costruire soluzioni di comodo ai loro problemi, alternative a investimenti esteri. Essi videro, in questa politica, che chiedeva di ridurre gli incentivi e che tornava, dopo tanti anni, a spostare l’enfasi sui servizi collettivi, il rischio gravissimo di perdere risorse;
- una rete di consulenti e mediatori, quella che era cresciuta in anni e anni di degenerazione della Cassa, che vide nel rafforzamento delle amministrazioni locali il rischio di perdere la capacità di catturarle a loro beneficio. Videro nel rafforzamento della capacità della pubblica amministrazione di fare bandi di amministrare la fine del potere sostitutivo esercitato a livello locale e regionale;
- una parte cospicua della dirigenza pubblica delle amministrazioni centrali delle Regioni e delle autonomie locali che traeva (e trae) dai processi decisionali gerarchici e dominati da un rispetto formalistico delle procedure e da una disattenzione ai risultati il proprio potere;
- una parte cospicua dei sindacati del pubblico impiego, convinti – faccio riferimento all’argomento più robusto e nobile della loro avversione – che essendo lo Stato per definizione catturato ogni aumento di discrezionalità della dirigenza pubblica non possa risolversi che nell’esercizio di nepotismo e quindi di angherie nei confronti della parte meno forte del personale pubblico.
Seguono coloro che non hanno condiviso la politica per un disaccordo sull’analisi
Alcuni ristretti, ma forti, centri di intellighentjia, soprattutto del Nord: sono quelli che in altri miei lavori ho chiamato “giacobini”, che, ome una parte dei sindacati del pubblico impiego, giudicavano (e giudicano) non recuperabile lo “Stato del Mezzogiorno” dalla cattura da parte dei rent seekers e ritenevano (e ritengono) errata, quindi, ogni politica poggiata sul ruolo discrezionale dello Stato e che miri a rilegittimare lo Stato nella funzione di produttore di beni pubblici. Si vorrebbero piuttosto trasferimenti automatici, in base a uno schema logico secondo cui le imprese attratte dagli incentivi automatici o da bonus fiscali una volta insediate nel territorio pretenderebbero poi, e otterrebbero, che lo Stato si modernizzi (Come se la storia dell’azione pubblica nel Sud non mostri il contrario, ossia che le imprese attratte dagli aiuti chiedono allo Stato una sola cosa: più aiuti. Come se quei beni pubblici uno Stato, ogni Stato, possa non produrre. E tuttavia questa idea fu (è) raccolta e rilanciata da grandi quotidiani del Nord e del Centro).
A questi avversari si aggiunge all’inizio, negli ultimi mesi del 1998, con sobrietà, anche la Commissione europea, i suoi rappresentanti essendo convinti anch’essi della immodificabilità dello “Stato del Mezzogiorno” e che, quindi, date le debolezze congenite dell’amministrazione pubblica italiana fosse già molto quello che si era riusciti a fare fino a quel momento (nel 1996-97) creando le basi per assorbire i fondi e che quindi l’avventura di una radicale trasformazione potesse essere avventurismo. La Commissione muterà rapidamente opinione e diventerà un importante alleato del progetto.
Capirete bene che esisteva uno squilibrio significativo tra le forze a favore e le forze contrarie. La svolta di politica economica passa dunque, come ho detto, solo grazie a uno degli alleati: il vertice politico del centro-sinistra. Questo vertice si mobilita nell’occasione che costituisce il “fattore catalitico” di questo processo innovativo: le giornate di Catania che si svolgono nel dicembre 1998, due mesi dopo l’uscita della Relazione previsionale e programmatica che ha annunziato la strategia.
A Catania cinquecento persone – vecchio e nuovo, amministratori innovativi e conservatori, nuovi intellettuali e practitioners, imprenditori e sindacalisti – si incontrano secondo uno schema strutturato, con due agende: entrambe dichiarate, una eclatante, ripresa dalla stampa, l’altra sottotraccia. Quella eclatante è di lanciare 100 nuove idee per il Sud (pubblicate nel volume 100 idee per lo sviluppo): spunti sui progetti, sui beni pubblici che potrebbero fare ripartire il Sud. L’agenda sottotraccia è quello di discutere le regole del gioco del nuovo periodo di programmazione dei fondi comunitari (pure pubblicate nel volume) e di farle avanzare. Attraverso una uscita eclatante, utile in sé a rompere il cerchio dei practitioners con contributi di esperti e intellettuali di prestigio, si voleva anche discutere la governance, il disegno innovativo.
L’incontro funziona. Va talmente bene che il vertice della politica di quel momento, il Presidente del Consiglio dei Ministri, decide di essere presente, perché coglie in quel passo l’occasione di un rilancio del ruolo del Governo nel Sud. Va talmente bene – lasciatemelo dire perché i processi innovativi non sono prevedibili – che durante le giornate decidiamo una cosa che non avevamo deciso all’inizio, cioè di riassumere le nuove regole del gioco in due pagine e di farle “approvare dall’assemblea”. C’è chiaramente un elemento di forzatura, ma i rent seekers, i conservatori, sono bloccati, perché vengono presi in contropiede.
Il modo in cui si arriva all’accelerazione del processo innovativo spiega sia la rapidità del cambiamento, sia la rapidità della crisi.
La rapidità del cambiamento ha forme assai concrete:
- rinnovo repentino, del tutto inusuale per l’Amministrazione, di incarichi dirigenziali del Dipartimento delle politiche di sviluppo (senza alcuno strascico giudiziario);
- rapido cambiamento dei vertici amministrativi delle Regioni. Anche alcune Regioni che avevano già dirigenti validi scelgono di cambiare: c’è la sensazione che la partita sia salita di livello e che richieda un rinnovamento ulteriore;
- nuova impostazione dei patti territoriali, introducendo un meccanismo selettivo;
- avvio dell’operazione dei “completamenti” (la realizzazione di opere che rendevano utilizzabili infrastrutture incomplete, mai usate, selezionate in base a criteri semplici dalla nuova struttura tecnica del DPS);
- costruzione di un meccanismo premiale che individuava obiettivi di risultato e che legava a questi obiettivi sanzioni finanziarie di notevole entità (4 miliardi e mezzo di euro);
- avvio della scrittura del programma 2000-2006 che doveva essere presentato a Bruxelles.
D’altro canto, però, a Catania si era celebrato un equivoco, in merito alle “100 idee”. I vertici della politica lontani da via XX Settembre si erano andati convincendo (nonostante i documenti dicessero il contrario, rendendo evidente che le idee erano sassi nello stagno) che sarebbero partiti cento nuovi progetti. Quando nella primavera-estate del 1999, sotto l’incalzare delle previsioni che davano un centro-sinistra in erosione, ci si rende conto che i cento progetti non stanno partendo (perché si trattava di cento idee, non di cento progetti), il consenso politico si assottiglia rapidamente. Al tempo stesso, l’intellighencjia del Nord contraria alla politica prende vigore.
Ma, soprattutto, i vecchi practitioners, insomma, gli oppositori fanno quello che si fa in questi casi: imparano il nuovo linguaggio e adattano i loro modi e i loro “progettifici” al nuovo. Il linguaggio che era stato tipico della costruzione dell’impianto di programmazione viene fatto proprio da questi signori. Cosa si fa in questi casi? La sola risposta all’omologazione del linguaggio, alla “programmazione di carta”, sta nella fuga dalla proceduralizzazione, dalla verifica automatica. Bisogna esercitare discrezionalità. è necessario che gli organi preposti alla programmazione verifichino: se si dichiara di fare “progettazione integrata”, se di questo di tratta; se si parla di valutazione ex ante, se è davvero tale; se si dice che è stata avviata una valutazione di impatto, verificare se è vero. Questo, però, richiede risorse umane in quantità e qualità elevata, mentre nove-dodici mesi dopo l’inizio dell’operazione che si era avviata queste risorse erano ancora scarse.
La somma di questo problema e della venuta meno del consenso del vertice politico determina una crisi del programma di innovazione amministrativa. Si ha una situazione strana, dicotomica, che caratterizza la fine del 2000 e l’inizio del 2001: da un lato vengono approvati i programmi comunitari, perché la macchina della programmazione era robusta e nessuno riesce a costruire una soluzione alternativa, ma contemporaneamente avviene per scelta della politica (che era nel frattempo cambiata al vertice del Ministero del Tesoro) il più grosso spostamento di fondi a incentivi che sia mai avvenuto negli ultimi quindici anni, il contrario di quello che la nuova politica chiedeva. Nell’imminenza delle elezioni del 2001 vengono investiti fondi pubblici sulla 488, sugli incentivi automatici fiscali, e vengono approvati circa 200 nuovi patti territoriali e nuovi “patti agricoli”, abbandonando la pratica delle graduatorie con cui si era voluto porre un limite all’indiscriminato uso dello strumento. E’ un’azione assolutamente ortogonale rispetto a quella che si era deciso di realizzare, non solo per la cattiva allocazione delle risorse finanziarie, non solo per gli effetti negativi che ciò ha, in alcuni casi, su quei patti che erano stati approvati attraverso faticosi processi di selezione, ma anche perché il segnale che viene dato è di totale disorientamento strategico.
Chi aveva scommesso su questa politica “si accorge” di avere sbagliato. Pensate: avete spiegato a tutti che erano finiti i fondi a pioggia, che sarebbero stati finanziati solo i patti “capaci”, quel patto territoriale su dieci che avesse fatto bene il proprio lavoro, e invece ora vengono approvati tutti e dieci i patti. Il segnale è quindi molto negativo. Ovviamente, questa operazione non pagherà affatto sul piano elettorale perché notoriamente il Sud è abituato, quando ha incassato i soldi, a “cambiare cavallo”; così magari ottiene soldi anche dall’altro.
Con il cambiamento di coalizione inizia una lunga stagione, assai peculiare dal punto di vista politico, e che è tuttora in corso. La strategia non viene modificata, non perché sia fortemente condivisa, ma per un misto di due componenti. Una parte della politica, assolutamente minoritaria, ritiene utile l’intervento nel Sud mirato al miglioramento dei servizi e ritiene che il solo modo per “reggere” un simile intervento, per impedire la “cattura” da parte dei “rent seekers” del territorio per dire no alle richieste sbagliate sia quello di usare, di “trincerarsi” dietro, le regole della “nuova programmazione” a cui il framework comunitario dà credibilità. Il resto della politica, maggioritaria, ritiene che ogni politica pubblica nel Sud sia fondamentalmente destinata all’insuccesso, ma che se proprio bisogna avere una politica per il Sud, meglio una politica presidiata da regole “di tipo comunitario”: dunque la strategia viene vista come il male minore. La strategia, insomma, non viene condivisa profondamente per i suoi obiettivi strategici, com’era stato nella prima fase, ma come il “meno peggio” che si possa fare.
E’ questa una situazione paradossale che, come ho scritto nel mio libretto “Italia frenata” del 2006, produce a un tempo il proseguimento della strategia e la mancanza di un “convincimento culturale e politico” che ne possa assicurare il successo.
E veniamo così ai risultati. Il primo dato è che – fatto inusuale per l’Italia – abbiamo potuto misurarli. Una politica che individua obiettivi ex ante ha la possibilità di essere valutata ex post; si può dire ciò che è stato fatto di quello che si era deciso di fare.
L’analisi realizzata nel 2005 (nel rapporto pubblico “Documento strategico preliminare nazionale” redatto per capire come impostare la nuova strategia per il periodo 2007-2013) dà la seguente fotografia sul piano finanziario, amministrativo e dei servizi.
- Sul piano finanziario: i risultati dicono che la nuova politica ha ottenuto un risultato pieno in termini di capacità di spendere: non sono stati dispersi i fondi comunitari. Un risultato decisamente positivo vi è stato anche in termini di monitoraggio, di disponibilità di dati, della possibilità di sapere quello che sta succedendo, di conoscere, Regione per Regione, Provincia per Provincia cosa si sta facendo. Tuttavia, sempre sul piano finanziario, questa politica, che era stata disegnata per essere aggiuntiva (i fondi che venivano utilizzati in questo programma dovevano aggiungersi ai fondi per colmare il divario di beni e servizi pubblici che divideva il Sud dal resto del Paese), non ha in realtà avuto alcuna addizionalità. L’obiettivo di addizionalità, ancorché soddisfatto sul piano formale (grazie alla forte revisione al ribasso compiuta a metà periodo con la motivazione della stretta di finanza pubblica) non è stato raggiunto sul piano sostanziale, e possiamo dirlo perché, a differenza degli altri paesi europei – dove la verifica è fittizia e non trasparente – in Italia è stato costruito un rigoroso e intelligibile sistema di verifica. La mancata addizionalità equivale a dire che sono stati realizzati investimenti con regole diverse e quindi, forse, di qualità diversa da ciò che sarebbe avvenuto senza la politica, ma che in termini finanziari sarebbe stato speso lo stesso importo. Se vi è stato un beneficio non è stato, dunque, nell’aggiuntività finanziaria, ma nel modo in cui si è speso.
- Sul piano della capacità amministrativa: i risultati appaiono più significativi, in termini di capacità delle amministrazioni, soprattutto regionali, di sollevarsi da situazioni di gravissima inefficienza e di forte catturabilità da parte degli interessi, che caratterizzavano molte situazioni nella seconda metà degli anni novanta, e di raggiungere livelli più elevati di efficienza. Si sono anche avuti risultati nella costruzione di una cultura della valutazione, fino ad allora inesistente, e di pratiche ordinarie di orientamento dell’azione pubblica al risultato. Anche se si osservano ora preoccupanti segni di regresso.
Particolarmente interessante è la vicenda della realizzazione, all’interno del programma 2000-2006, di un sistema di premialità per il conseguimento di obiettivi di tipo amministrativo (le modalità di conferimento di incarichi dirigenziali, la creazione di unità di valutazione o delle strutture delle ARPA, la maggiore concentrazione di risorse finanziarie, la soddisfazione di alcuni requisiti istituzionali per l’erogazione dei servizi idrici o dei rifiuti, cioè prerequisiti istituzionali vuoi di mercato pubblico, vuoi interni alla pubblica amministrazione che apparivano condizione per spronare il vertice politico e il vertice amministrativo a raggiungere i risultati). Mi ci soffermo perché tocca una questione centrale sul piano metodologico per tutti i processi di innovazione amministrativa: il problema di fissare obiettivi al processo innovativo in un contesto dove, ontologicamente, è impossibile definire quegli obiettivi in modo compiuto.
L’operazione fu realizzata utilizzando lo spazio offerto dalla Commissione europea, ma andando oltre e destinando non solo, come ci chiedeva l’Europa, il 4% di tutti i fondi comunitari (e di cofinanziamento nazionale) ma il 10% a meccanismi premiali: in totale, l’ho detto, 4 miliardi e mezzo di euro. Furono identificati obiettivi: se essi venivano raggiunti, la Regione portava a casa i fondi, se non venivano raggiunti, no. Di più: se una Regione era particolarmente brava poteva prendere i soldi dalle Regioni che erano state meno capaci. Un sistema competitivo molto duro. La cosa interessante sul piano metodologico è che si tratta di è un’innovazione radicale che andava incontro a un rischio molto forte: come è possibile definire in maniera puntuale l’obiettivo da raggiungere, legandovi addirittura un incentivo, se per definizione, nei processi innovativi non è possibile descrivere ex ante, in maniera compiuta e verificabile, quale sia l’obiettivo? Perché il modo in cui l’obiettivo si attua dipende dal contesto, e può essere compreso (e quindi descritto) solo “dopo”, quando si lavora, caso per caso, territorio per territorio, alla sua attuazione.
Il rischio lo conoscete: è quello che i soggetti siano incentivati a raggiungere ciò che è descritto dagli indicatori scelti per misurare l’obiettivo e il rispetto sia solo di tipo procedurale e formale. Uno degli obiettivi, ad esempio, era formare nuclei di valutazione: se crei nuclei di valutazione, ma ci metti dentro tuo nipote, oppure lo fai di ottimo livello, ma ci metti solo i dirigenti dell’amministrazione che non portano capacità tecniche esterne, oppure lo collochi in una “torre d’avorio” e non gli dai alcun ruolo nel processo decisionale, hai costruito l’unità di valutazione e prendi i soldi del premio… ma l’incentivazione ha fallito l’obiettivo. Come risolvere questo problema? Cosa vuol dire per un nucleo avere un ruolo nel processo decisionale? Non esistono regole precise da rispettare perché un nucleo abbia un ruolo nel processo decisionale. è una cosa che dipende dal contesto, dipende dal particolare assetto organizzativo che una Regione ha rispetto a un’altra.
Per affrontare questo problema costruimmo un sistema, prendendolo a prestito concettualmente dal sistema di governo societario americano. Cioè dicemmo: ci sono due rischi, uno lo corriamo se non fissiamo obiettivi. Se non fissiamo obiettivi, come facciamo a dare il segnale forte della direzione in cui andare? Che incentivo hanno le Regioni? Alternativamente, possiamo cadere in un errore di “iperilluminismo”, per cui ci convinciamo di potere descrivere con compiutezza gli obiettivi, ma se così sarà essi verranno rispettati proceduralmente e non in modo sostanziale. Allora decidemmo di definire “contratti aperti”, cioè di descrivere il target in una modalità non completamente predefinita, solo poche righe (per esempio: il nucleo di valutazione deve essere di elevato livello e capace e deve avere un ruolo nel processo decisionale) e costruire un meccanismo “affidabile”, “terzo”, per completare quel contratto, nel corso dell’attuazione. Si trattava, cioè di costruire un processo, un organo, un soggetto terzo che durante il processo attuativo analizzasse cosa volesse dire nella Regione Calabria, nella Regione Sicilia, nella Regione Sardegna realizzare quell’obiettivo. Attraverso le informazioni e le conoscenze che acquisisci, attraverso il processo di attuazione, impari cosa è bene fare.
E fu così costituita una struttura di cui facevano parte figure accademiche esterne, con alta reputazione (per la riserva 4%), componenti del nucleo di valutazione del Dipartimento con simile interesse reputazionale e rappresentanti di due Regioni, assicurandosi che una delle due fosse quella meglio posizionata ad avere buoni risultati in modo da avere un voluto non allineamento di interessi fra le due. E fu previsto che ogni sei mesi, durante i tre anni di attuazione, questa commissione producesse un Rapporto. Quel Rapporto, apparentemente, era solo informativo, in realtà serviva a “chiudere” il contratto aperto. è un ruolo non diverso da quello che svolge il tribunale in un sistema di governo societario dove il management ha, nei confronti degli azionisti, dei doveri fiduciari. Gli impegni fiduciari sono scritti in forma generica, sono doveri di “cura”, di “diligenza”. Cosa voglia dire avere cura o diligenza è cosa che si può specificare solo caso per caso. L’importante è costruire un processo e un organo che abbia un livello tale di terzietà, per reputazione, per presenza di interessi interni non allineati, da garantire che durante il processo attuativo si apprenda.
La cosa più interessante di questo processo è stato l’esito. Infatti, la fissazione degli obiettivi ha certamente determinato un forte miglioramento nel conseguimento degli stessi obiettivi, ma, a dimostrazione che si trattava di obiettivi non facili, la varianza dei risultati fra le Regioni si rivela altissima. La regione migliore che raggiunge tutti gli obiettivi (la Basilicata) porta a casa il 135% delle risorse originariamente previste se tutti avessero raggiunto lo stesso risultato, mentre le regioni che vanno male (Calabria e Sardegna) portano a casa il 40% (il che vuol dire perdere, davanti ai propri cittadini, il 60% delle risorse “in gara”).
Le regioni con risultati peggiori erano rette da una coalizione simile a quello che governava il paese; la migliore (e la seconda migliore, la Campania) da una coalizione opposta a quello di governo. Potete quindi essere certi che la tenuta dei risultati fu sottoposta a tutte le prove possibili, a pressioni fortissime volte a “rinegoziare” l’esito del sistema sanzionatorio. Ma resse, non perché era un sistema perfetto, tutt’altro (in alcuni, pochi, casi c’era stato un rispetto solo procedurale, in altri, pochi, casi si era punito chi forse non doveva esserlo), ma il consenso che si era creato attorno al processo durante tre anni di lavoro rendeva forte il meccanismo e permetteva alla politica nazionale di rinegoziare, anzi le dava un ritorno nel non rinegoziare. Il processo aveva avuto un forte consenso, aveva avuto natura pubblica, era finito sui giornali, sui giornali si era discusso del fatto che la regione stava perdendo i fondi. Questo ebbe poi peso sul mercato politico. Ebbe anche peso sull’esito delle successive elezioni regionali! Ho voluto segnalarvi questa vicenda perché è un caso in cui il mercato politico è stato scosso da un procedimento tecnico. Nell’anno finale del processo, i vertici politici delle regioni si angustiavano per i mancati risultati e premevano sull’amministrazione perché sapevano che dovevano darne conto agli elettori.
E veniamo alla qualità dei servizi che era l’obiettivo ultimo della politica. La strategia ha accresciuto la qualità dei servizi nel Mezzogiorno? La risposta è: talora i servizi sono migliorati ma spesso no e comunque in misura assai più limitata degli obiettivi; e, ancora, non sappiamo, quando i risultati sono stati conseguiti, se essi siano dovuti alla strategia adottata o si sarebbero avuti comunque. Addizionalità mancata e qualità dei servizi non accresciuta spiegano, oltre alla generale situazione di declino dell’Italia, perché siano mancati i risultati in termini di crescita. L’idea era di migliorare la qualità dei servizi per rendere più conveniente investire per crescere: questi investimenti e questa crescita aggiuntiva non ci sono stati.
Se questo è il quadro, la domanda è: perché? Perché la strategia ha avuto successo solo in parte decisamente ridotta, non visibile a livello macro? Qui apro alcune ipotesi e per ognuna sollevo domande.
La prima ipotesi deve riguardare i tempi. è possibile che sia stato commesso un serio errore di previsione dei tempi? Che si siano sbagliati radicalmente i tempi di efficacia? Che servisse, che serva, assai più tempo?
Un’operazione di questo tipo non ha effetti diretti a tre-quattro anni. La ricostruzione di capacità amministrativa, di una cultura della valutazione, di pratiche fiduciarie fra i soggetti privati e fra questi e quelli pubblici richiedono molti anni; specie quando si parte da una situazione come quella del Mezzogiorno. Noi lo capimmo, ma ci convincemmo e convincemmo altri che, con una forte condivisione culturale e politica – come fu nei primi mesi – si sarebbe potuto affermare un meccanismo virtuoso, anticipatorio, fondato sul cambiamento delle aspettative: ‘tutti capiranno che il mondo sta cambiando e quindi cercheranno di posizionarsi’ e quindi il cambiamento avrà luogo più rapidamente. Ma l’azzardo che ci prendemmo in questa ipotesi fu molto forte. E i fatti non l’hanno confermata.
D’altro canto, però, quando i tempi dell’efficacia sono così lunghi, come si fa se la politica non è – come non fu, dopo i primi convinti mesi, – fortemente convinta? E’ questa non convinzione che erode le aspettative. Eppure, la strategia ha poi retto per tre legislature, nonostante non avesse consenso. Perché? Ha retto forse perché nessuno è stato capace di elaborare una strategia alternativa, neppure di accennarla? Perché si è subita, in uno Stato debole, la qualità di un gruppo dirigente, amministrativo e tecnico di livello adeguato – non ne faccio più parte da oltre un anno e la qualità è immutata, quindi posso parlarne con serenità – che non si è ritenuto né di potere sostituire, né di potere indirizzare su una strada diversa rivendicando (non solo nelle parole ma con la necessaria capacità) la primazia della politica?
Una seconda strada e un’altra serie di domande riguardano i centri nazionali di competenza. Tra i requisiti per il successo della strategia che ho prima richiamato, uno era che “Roma” dovesse sempre meno gestire e sempre di più governare. Questo, però, voleva dire che ogni Ministero centrale avesse forti capacità, agisse come un centro nazionale di competenza. In pochi casi, pochissimi anzi (certo nel caso dell’Istruzione) ciò è avvenuto. Ma il più delle volte non è stato così. Questi centri di competenza non si sono affermati, anzi, in alcuni casi si è assistito, per motivi che esulano dalla strategia, a un impoverimento della capacità tecnica delle Amministrazioni centrali. Che fare, quindi, in condizioni di questo tipo, in un’operazione che richiede un forte governo centrale e in cui i centri di competenza nazionale non ce la fanno a partire?
Terza ipotesi e linea di riflessione in merito ai mancati risultati: la mobilitazione sui servizi è stata assai scarsa. All’inizio ho detto che i clienti più importanti in potenza erano i consumatori di servizi. Che ne è stato di quell’operazione? Quella sul terzo settore è stata un insuccesso assoluto, sin dal 1999; il terzo settore non si è mobilitato, non ha mai ritenuto che quella fosse una partita da giocare, non ha mai giocato a “Roma”, non ha mai mandato a “Roma” i migliori, che sono rimasti a lavorare sul territorio. La stampa, se non quella locale, non ha mai giocato sulla questione degli obiettivi di premialità, non ha mai incalzato, non si è accorta dei dati di autovalutazione pubblicati nel sito del Cipe, non ha fatto inchieste – come sarebbe avvenuto, in altri paesi – per valorizzare i casi di successo segnalati da quei documenti pubblici, e per denunziare i casi di insuccesso. Viceversa, ha sempre discusso dei massimi sistemi, di princìpi, non è mai entrata nella complessità della politica, non sono mai nati quei quaranta giornalisti che stessero dietro ai progetti e che quindi incalzassero sulle cose. Il sindacato in alcuni casi nel Mezzogiorno si è sentito, ha salvato anche da atti di illegalità, perché ha funzionato come elemento di denuncia, ma non sono cresciuti decine e decine di quadri, non è nata una rete del sindacato locale che diventasse sostitutiva della rappresentanza dei clientes. Per il prossimo ciclo è stata tentata una nuova partita che si chiama “Obiettivi di servizio”, dove la “gara” per le risorse viene estesa a obiettivi in termini di quantità e qualità dei servizi, Regione del Sud per Regione del Sud per tentare di scuotere il territorio. Questa è forse la partita metodologicamente più interessante del prossimo ciclo. Ma ne scrive la stampa? Ne discute la politica?
E quindi si torna al problema dei problemi: l’inadeguato convincimento culturale e politico. Nell’attuare la strategia della “nuova programmazione” sono certamente stati fatti errori, anche tecnici e amministrativi, ma se a un certo punto non si realizza una mobilitazione che concepisca una strategia politica non come la meno peggio che si possa realizzare, ma come una strategia di effettivo cambiamento, difficile ma possibile, il processo di innovazione non ha possibilità di realizzarsi.
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Massimo Florio
Professore Jean Monnet in Economia europea APP
Io credo che questo contributo di Fabrizio Barca alla nostra riflessione possa essere commentato da due punti di vista: uno è quello di lasciarsi attirare dal commento del case study, perché quello che ci è stato presentato è una case history di tentativo di innovazione proposta non da uno studioso asettico che la guarda da fuori, ma da uno studioso – perché Fabrizio Barca è uno studioso – che l’ha vissuta dall’interno. La tentazione immediata sarebbe quella di entrare in questa case history (di cui io conosco più in dettaglio alcuni piccoli segmenti perché sono in qualche modo entrato, o chiamato a svolgere un qualche ruolo all’interno del progetto per i nuclei di valutazione o come esperto indipendente nominato dalla Commissione europea, quindi in due vesti diverse). Dato che la tentazione è fortissima – perché ci sono tanti passaggi in cui mi piacerebbe aggiungere – proprio per questo vorrei resistere. Per lavorare su questa faccenda come case history molti di questi passaggi dovrebbero essere filtrati da tutta una serie di elementi che Fabrizio Barca ha dato per scontati, ma su cui ci sarebbe moltissimo da dire. La sua tassonomia dei nemici e degli alleati, che ho trovato decisamente efficace, richiederebbe per ognuno di questi un bel ragionamento da fare (il ruolo del sindacato, il ruolo della Commissione europea, il ruolo dell’intellettualità meridionalista, la discussione di cui hai accennato tra giacobini neoliberali a volte di sinistra che sono cose italiane curiose, per cui lo Stato è perso, allora tentiamo di andare dal lato dell’impresa).
La ricchezza di questo contributo è che si presterebbe ad essere scomposta e analizzata; ognuno di questi pezzi può diventare un saggio. Resisto dunque alla tentazione e prendo un’altra prospettiva che è quella di provare a ragionare in termini molto più generali, in termini di lezioni che si possono apprendere, di domande che si possono formulare.
A me sembra che questa storia, come ci è stata proposta e raccontata, che io fondamentalmente condivido come linea interpretativa, ha al centro due idee del problema dell’innovazione nella pubblica amministrazione. La prima idea è che quando c’è una situazione di blocco della capacità della pubblica amministrazione e della politica – che non sono ovviamente la stessa cosa – di ragionare in termini di sviluppo un’operazione che si può tentare di fare è quella di costruire uno schema intellettuale di programmazione mirata sullo sviluppo e proporla come un menu e vedere se qualcuno ci casca.
La storia che ci è stata raccontata è sostanzialmente che è stato costruito un menu molto appetibile, in un momento in cui palesemente lo sviluppo era bloccato, e il cliente c’è cascato. In qualche modo il sistema politico e il sistema amministrativo hanno detto – e mi sembra che questo Fabrizio Barca l’abbia detto in maniera molto trasparente – ‘Vuoi vedere che questa cosa magari va? Come è successo per la grande operazione macroeconomica dell’Unione monetaria europea vuoi vedere che magari, provando a fare questa cosa, funziona?’.
Questo sembra voler dire che una strada per l’innovazione è quella di proporre menu intellettualmente stimolanti e vedere se qualcuno di casca. è quindi, fondamentalmente, un’operazione di tipo intellettuale professionale. Possiamo provare a ragionare insieme per capire se questa è una strada che ci convince oppure no.
Il secondo punto è quello dei meccanismi di incentivo: una volta identificati degli obiettivi di sviluppo, anche in maniera grossolana e approssimativa, e sapendo che il modo di disegnare questi obiettivi non può essere preciso ex ante e forse nemmeno ex post, vengono proposti dei meccanismi di incentivo. L’idea è: introduco dei meccanismi di incentivo che apparentemente sono marginali, non riguardano il 100%, riguardano solo una parte, ma funzionano come segnali e questo mette in moto alcune cose. Questo poi è stato declinato in vari modi che Fabrizio Barca ha raccontato. Possiamo concludere, dalla lettura di questo case history, che per fare innovazione nella pubblica amministrazione due condizioni necessarie, ma non sufficienti sono idee e incentivi per realizzarle? Semplifico al massimo. Se la mettiamo così, questo non è molto diverso da come il capitalismo ha imparato a funzionare. Il capitalismo vero, che è alla base dei processi di sviluppo e non dei meccanismi di speculazione puramente finanziaria, come motore dello sviluppo – quello di Marx e di Schumpeter – è un meccanismo che funziona esattamente così: con delle idee (c’è un signore che inventa la Cola Cola, c’è un signore che inventa l’I-Pod) e con degli incentivi. Nel caso del capitalismo, l’incentivo è internalizzato dall’organizzazione attraverso il meccanismo del profitto, che è un meccanismo, in realtà, al margine perché non riguarda al 100% ciò che faccio, è l’ultimo pezzo. Io faccio un sacco di cose in vista di quel margine che ottengo alla fine. Quindi, mi chiedo se nello schema che Fabrizio Barca ci ha proposto, in fondo non si rifletta un tentativo di portare all’interno della pubblica amministrazione una lezione che viene dalla modalità con cui si organizzano i sistemi di impresa e di mercato.
La differenza fondamentale su cui mi interrogo è la democrazia. La differenza fondamentale è che nel caso del mercato non c’è bisogno del consenso, si deve soltanto stare attenti a non generare troppo dissenso. Se l’innovazione è tale che disturba troppo crea reazioni sociali per cui l’innovatore e l’impresa si trovano nei guai. Ma fondamentalmente, in situazione fisiologica, non richiede che nessuno voti, non richiede consenso. Le operazioni che riguardano la pubblica amministrazione, invece, hanno a che fare con il problema della democrazia su cui come economista non ho niente da dire, però la domanda centrale che si poneva Fabrizio Barca prima: ‘Ma io come faccio con l’orizzonte necessariamente lungo di queste operazioni ad avere a che fare, in termini di accountability, con gli orizzonti necessariamente corti dei politici eletti o dell’alta amministrazione che lavora con i politici eletti?’. Non c’è un mis-match di orizzonti temporali inguaribili? Tanto più se l’operazione dal lato delle idee e dell’innovazione ha, come nella storia che ci è stata raccontata, inevitabilmente alcuni elementi di marketing che in parte sono autoconvinzione, in parte sono retoriche. Quando il Dipartimento per le politiche dello sviluppo fa una simulazione con un modello macroeconomico in cui dice: ‘Se noi cambiamo alcuni fatti strutturali nel giro di cinque anni il tasso di crescita del Mezzogiorno supererà il tasso di crescita del Nord’, gli addetti ai lavori sanno che queste cose sono un modo per darsi coraggio. Non è il modello che ce lo sta dicendo, siamo noi che stiamo facendo dire al modello quello che vogliamo sentirci dire. Questo, nell’orizzonte di lungo periodo, è utilissimo perché anche l’impresa vive di quella cosa che Albert Hirschman chiamava ‘la mano che nasconde’, una sorta di mano che ottunde momentaneamente la capacità preveggente dell’imprenditore in modo da non fargli vedere tutte le difficoltà, perché se vedesse tutte le difficoltà non farebbe niente. C’è un momento in cui ci si deve buttare e allora ci si autoconvince che il Mezzogiorno crescerà più del Nord, che il sistema delle infrastrutture modificherà la funzione di crescita delle imprese, etc.
In realtà, il vero risultato di un’impresa di questo genere è il cambiamento di cultura, di mentalità, la rottura di certi schemi, tutta una serie di beni intangibili che si misurano in dieci, vent’anni. Certamente non si misurano da un anno a cinque, che sono l’orizzonte medio del sistema politico italiano degli ultimi anni.
Come si fa a fare questo? Io non lo so. Non credo che ci sia una risposta tecnica. L’unica cosa che so è come negli altri Paesi succede la cosa. Negli altri Paesi l’orizzonte un po’ più lungo è dato dal fatto che le culture politiche hanno dei centri di stabilità e delle traiettorie. Se però la democrazia tendesse a non essere questo, cioè tendesse a essere semplicemente un meccanismo attraverso cui si eleggono delle persone a delle cariche, quindi non c’è più la continuità per cui si passano dei testimoni, riuscire a internalizzare nell’amministrazione il meccanismo innovativo a incentivi che è stato descritto da Fabrizio Barca diventa molto difficile. Quello che è prevedibile è una degenerazione della capacità dell’amministrazione, non perché questo meccanismo sia disegnato in modo sbagliato, ma perché c’è qualcosa – temo – di più profondamente problematico nel funzionamento del sistema politico. Quando Fabrizio dice che i giornali di questa cosa non si sono accorti, non è un problema di comunicazione: il problema è che il meccanismo per fare opinione è un altro. Questo però non è un problema di tipo economico, amministrativo e di governo, ma è un problema che ha a che fare con la malattia del sistema democratico. Su questo come economista non ho niente da dire, ma qui ci sono degli scienziati politici che magari ci aiutano.
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Alessia Damonte
Dipartimento di Studi Sociali e Politici – UNIMI
Un chiarimento. Mezzi e obiettivi: noi abbiamo sentito parlare di un metodo per promuovere lo sviluppo. Poi è uscita la questione dei contenuti, delle idee o della visione. Quando si parla di politica dello sviluppo per il Mezzogiorno spero ci sia per qualcuno l’idea di che cosa il Mezzogiorno dovrebbe diventare, di uno sbilanciamento di un settore industriale, un contenuto a questa politica. La domanda è, per tornare al rapporto fra il Dipartimento e i politici, quale è stata la distribuzione dei compiti o delle responsabilità nell’individuare i mezzi e nell’individuare – non gli obiettivi, cioè l’operazionalizzazione dei fini ultimi – ma i fini ultimi stessi?
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Fabrizio Barca
Il livello centrale di governo, quindi il Dipartimento, elaborò una valutazione di tipo generale sulla situazione economica del Mezzogiorno. La valutazione fu che l’area era in una trappola di sottoutilizzazione delle risorse, non solo delle risorse umane (quindi il basso tasso di occupazione), ma anche delle risorse immobili, come le chiamammo allora, le risorse naturali, il patrimonio culturale. E che quindi quello che andava fatto in ogni territorio era di identificare quale fosse la vocazione, l’opzione di sviluppo, il vantaggio comparato che quell’area aveva rispetto ad altre e che avrebbe potuto cogliere sfruttando le proprie risorse inutilizzate. Si ritenne di non potere decidere “a Roma” quali fossero queste vocazioni, tipo: ‘il Mezzogiorno ha una vocazione turistica’ o altro. Si identificarono piuttosto alcune vocazioni possibili e si disse ai territori di lavorare su quella griglia aperta, identificando i servizi (di trasporto, di istruzione, di formazione, idrici, etc.) necessari a creare le opportunità per coglierle. Mantenendo un coordinamento, per evitare, ovviamente, che tutte le aree del territorio scoprissero la stessa vocazione e che in questa gara a rendere accessibili le risorse locali tutti giocassero la stessa partita.
Con il senno di poi, è possibile che siamo stati troppo “leggeri” nell’identificazione delle priorità. Forse avremmo dovuto indirizzare con più forza le elaborazioni programmatiche locali. Tanto è vero che nel programma attualmente in corso, 2007-2013, l’identificazione delle priorità di contenuto è stata più circostanziata, più precisa.
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Alessia Monica
Studente
Lei ha individuato come cause del fallimento di questa politica di sviluppo la mancanza di un consenso. Poi si è parlato di un sistema politico che probabilmente non ha dato le risposte dovute. Io mi chiedo: e se fosse anche il sistema economico, italiano soprattutto, che non ha contribuito a creare un clima e un terreno per poter attuare questo sviluppo? Lei nell’Italia frenata parla sempre di un sistema industriale molto spesso inadeguato, parla del problema delle banche, dell’imprenditore, del controllore. Il sistema economico può frenare anche le risposte politiche e l’innovazione politica? La politica è sottomessa, attualmente, al contesto economico italiano?
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Piero Bassetti
Presidente Fondazione Giannino Bassetti
Io sono stato molto stimolato dall’esposizione di Fabrizio Barca. L’ho trovata molto interessante e soprattutto mi è sembrato che valesse la pena di fare uno sforzo per riportare lo shock dell’ascolto dell’esposizione al tema del laboratorio che è: l’innovazione nella pubblica amministrazione vista, però, alla luce della dimensione costituzionale e istituzionale. A me sembra, infatti, che al termine della relazione restino divisi due circuiti ai quali Barca ha fatto implicito riferimento per tutto il corso della sua esposizione: uno è quello propriamente politico, cioè come, ad un certo momento, un’azione, in questo caso politica, realizza o no un obiettivo politico che è quello di raggiungere un determinato fine, una volta che sia stato chiaramente stabilito. L’altro è quello più propriamente tecnico, manageriale o istituzionale, proprio della pubblica amministrazione. Nel gioco di questi due circuiti, come si risolve il tema del loro rapporto quando un’iniziativa procedurale, innovando nei modi di funzionamento della pubblica amministrazione e quindi attivando in modi nuovi il circuito amministrativo o istituzionale, si inserisce nel funzionamento del circuito politico e lo surroga?
Si direbbe che l’approccio adottato sia stato questo: un obiettivo politico non viene raggiunto con atti di tipo politico tradizione, allora facciamo sì che la pubblica amministrazione introducendo delle metodologie diverse surroghi il circuito politico canonico per avvicinarsi così, per via diversa, al raggiungimento di tali obiettivi.
Certo, se ad avallare una simile procedura troviamo un personaggio politico di tipo particolare – come poteva essere, per esempio, Ciampi – si poteva dire che si trattava pur sempre di due modi diversi di fare politica: uno prevalentemente affidato al gioco delle forze politiche, l’altro, più tecnocratico che affida uno spazio più ampio alla macchina manageriale e istituzionale consentendole di inserirsi nello stesso discorso politico. Del resto, a questo l’esperienza italiana è stata da tempo abituata: un’istituzione come la Banca d’Italia, per esempio, si è sempre inserita con un ruolo misto tecnocratico/politico. Ma in realtà, quanto è emerso nell’esposizione di Barca sembra evocare qualcosa di più complesso, perché tira in ballo la questione della responsabilità.
Un tema che interessa non soltanto al Laboratorio della Pubblica Amministrazione, ma anche alla Fondazione Bassetti: in fondo, il case study che abbiamo sentito illustrare è pieno di passaggi eterodossi rispetto ad alcuni principi sacrosanti della democrazia o del diritto. Lei ha esplicitamente ha parlato della discrezionalità che confligge con il culto dello stato di diritto. Quando vi ci si imbatte, è chiaro che si fa politica e che si innova nel modo di fare politica. Ma chi se ne assume la responsabilità?
Fa un certo effetto sentir dire che all’amministrazione serviva un Presidente della Regione eletto direttamente: senza dubbio questa richiesta di mutamento istituzionale coinvolge un’innovazione fortemente politica in materia di democrazia. Ma chi se ne è assunta la responsabilità?
Qui entra in scena un altro tema che a noi sta molto a cuore: noi diciamo che l’innovazione è la realizzazione dell’improbabile. In ciò implichiamo il fatto che c’è un tasso di inconoscibilità nella sfida che l’innovatore affronta. Un conto, però, è quando questa assunzione di responsabilità la fa il mercato (che attraverso il meccanismo, seppure marginale del profitto e del consenso schumpeteriano si sottopone alla critica del mercato: se l’innovazione agguanta è premiata dal profitto, se no è punita); in politica il problema di una democrazia costruita sull’inconoscibile è effettivamente sfidante. Perché coinvolge il problema di chi si assume la responsabilità di proporre un obiettivo che ritiene di dover conseguire indipendentemente dall’aver conseguito il consenso politico su di esso?
Questo tema io lo giro alla professoressa Regonini, perché mi sembra centrale rispetto al problema dello stato di diritto e dell’idea di burocrazia democratica che siamo andati maturando per secoli.
Sul tema della durata: è chiaro che le cose sono molto più complesse. Per esempio, io sono assolutamente convinto che la possibilità di perseguire fini da parte della pubblica amministrazione che trascendevano la durata del mandato politico era affidato alla militanza di classe: la borghesia si saldava con la direzione dell’amministrazione e la classe politica; lo stesso discorso faceva secondo un’organizzazione di tipo socialista. Dopo il ’68 i tempi di legittimazione del consenso si sono abbreviati enormemente. Non riteniamo legittimato un giudizio differito, non legittimiamo l’arrogarsi di deroghe al mandato politico, cioè la delega. è chiaro che voi, con l’elezione diretta del governatore, introducete un elemento di delega e considerate del tutto logico forzare la mano ai politici affidando questa forzatura a delle élites innovative all’interno di meccanismi che invece tutto lo schema istituzionale classico tende a rendere il meno innovative possibili.
Noi della Fondazione Giannino Bassetti non cerchiamo mai, su un tema come questo – delle responsabilità dell’innovazione – delle facili soluzioni, semmai sensibilizzazione, presa di coscienza, riconoscimento della loro intrinseca delicatezza. Però mi domando qual è il pensiero degli intellettuali democratici di fronte a come superare questa impasse? Un’impasse che coinvolge in pieno il senso dello stato di diritto. Noi in proposito restiamo convinti che stato di diritto e stato dell’innovazione sono fatalmente destinati a confliggere e che su questo conflitto si dovrebbe maggiormente portare la riflessione non solo politologica, ma anche amministrativa dei democratici. Ma forse non è questa la sede per approfondire il tema.
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Fabrizio Barca
Nella vicenda di cui parliamo i due circuiti – quello politico e quello tecnico-amministrativo – sono stati sovrapposti in alcuni momenti, mentre in altri non lo sono più stati. Quando i due circuiti sono sovrapposti, il tema della responsabilità non si pone. L’impulso alle decisioni viene, è venuto, dal vertice politico, allora dal Ministro del Tesoro. Negli altri casi la questione si pone. E diventa allora, è divenuta, importante la previsione dei poteri assegnati nel nostro ordinamento ai “Capo Dipartimento”.
L’assetto scaturito dalle leggi Bassanini prevede la compresenza nella figura del Capo Dipartimento di funzioni amministrative e politiche. E’ figura che congiunge le due sfere. Per un verso, ha poteri deboli tanto sul piano amministrativo che politico: amministrativamente non gestisce risorse, politicamente non ha voce. Per altro verso può riassumere le due funzioni. Non a caso risponde di entrambe: la sua retribuzione essendo in parte legata a risultati amministrativi, la sua nomina decadendo quando decade il governo. Purtroppo, come per molta parte delle riforme dell’amministrazione, si tratta di una previsione assai poco dibattuta e compresa. Io la trovo appropriata. E l’ho interpretata. è certamente vero, però, che se per un periodo troppo lungo si determina una scollatura tra i due circuiti, il Capo Dipartimento si trova a non avere più la legittimità necessaria.
Due battute sulla questione del potere economico e del suo contributo o veto sulle strategie. Un soggetto che non ha mai creduto, nemmeno per un momento, in quell'”operazione Sud” sono state le banche. Questo lo abbiamo anche scritto, in documenti ufficiali. Nessuna banca gioca nel Sud le proprie risorse umane migliori. Le banche si privano quindi della possibilità di capire se c’è qualcosa per cui vale la pena investire. Il sistema imprenditoriale, invece, per un po’ ci crede. Ma quello che conta, l’ho già detto, è il convincimento della politica. E’ la politica che può, deve, dare a una scelta strategica la natura di “traiettoria” che convinca le forze economiche a rischiare.
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Marco Zamboni
Studente
Vorrei introdurre nel dibattito un altro tema, quello del capitale sociale, un tema che ha fatto il suo ingresso anche all’interno della letteratura economica. In particolare, una parte degli autori si è soffermata a discutere sull’opportunità di patti territoriali per il Sud con la conclusione che, nella gran parte dei casi, finiscono in accordi spartitori in cui si dividono le risorse tra di loro in maniera opportunistica. Lei che cosa ne pensa? è possibile immaginare una “ricetta”, con tutti i limiti del caso? Sono politiche molto lunghe, si tratta di cambiare proprio la cultura e la mentalità di certi luoghi, non si riesce a farlo nel giro di pochi anni. Io pensavo a un forte controllo sui risultati da parte del Ministero, ma un’autonomia gestionale dei progetti e delle risorse: può essere una strada utile?
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Gloria Regonini
A proposito del tendenziale conflitto tra stato di diritto e stato dell’innovazione, non è che la totale assenza di istituzioni per l’accountability rende veramente un paradosso senza via di uscita il corno del dilemma? Un comico, un magistrato e un giornalista non fanno un’istituzione di accountability.
Una seconda questione aveva a che fare con l’osservazione di Massimo Florio quando parlava di idee, incentivi, e che in fondo anche l’imprenditore schumpeteriano per certi versi si muove in questa direzione: c’è però il problema del marketing e del confine tra il ruolo del tecnico e del politico nel campo del marketing. Se tu, Fabrizio, dovessi farti un rimprovero: hai fatto troppo o troppo poco marketing in questa vicenda?
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Fabrizio Barca
Parto dall’ultima domanda. Troppo poco, perché non sono capace e perché ero consapevole che questo mi avrebbe sbilanciato ancora di più sul terreno della visibilità politica. La soluzione è stata quello di tenere un profilo basso sul piano comunicativo e di parlare solo attraverso i documenti, i Rapporti. Ma rifugiarsi nella tecnica ci ha anche tolto capacità di dialogo.
Sulla questione dell’accountability, invece, non sono d’accordo. Proprio la vicenda del Dipartimento racconta alcune storie che mostrano, ancora una volta, la responsabilità della politica. Si pensi all’operazione “completamenti”. Fu la prima operazione che avviammo, già nel 1998, con l’obiettivo di completare opere pubbliche rimaste incompiute che potessero ancora dare servizi di pubblica utilità. Fu effettuata una “chiamata” di tutte le incompiute e furono selezionate, ricorrendo a una procedura formale che assegnava punteggi tanto più alti quanto maggiore fosse la spesa irreversibile, già compiuta, che si rendeva utilizzabile e, ovviamente verificando la validità del servizio che l’intervento si prefiggeva. Nel 2006, a opere realizzate, si è andati a vedere non solo se erano state fatte le opere, ma se il servizio erogato dall’opera completata corrispondesse a quello sulla base del quale essa era sta finanziata. I risultati sono stati quelli che un amministratore pubblico e un politico possono sognare: nel complesso l’operazione è stata un successo (i servizi previsti risultavano effettivamente erogati), ma un gruppo di interventi, limitato, aveva mancato l’obiettivo: l’opera esisteva ma non dava il servizio previsto. E’ quello che ci si aspetta nel “mondo reale” se le procedure fissano obiettivi non banali. Queste opere sono finite sul “banco degli imputati” e, come previsto, la Regione responsabile è stata sanzionata finanziariamente a valere sui nuovi trasferimenti. Tutto è stato approvato in Cipe, messo sul sito, diffuso alla stampa. Ma non c’è stato nulla da fare! Il “mercato politico”, la stampa non se ne sono voluti accorgere. Qui l’accountability è stata assoluta sui risultati, ma non ha avuto effetti. Perché? Ditemelo voi. Qui non è l’assenza dello Stato, qui esiste un’unità di verifica del Ministero dello sviluppo che fa questo mestiere. E come questa potrei raccontare altre storie simili. Abbiamo scritto ad esempio osservazioni in un documento pubblico molto critiche su Programma sicurezza, che pure ha avuto pregi: voi pensate che qualcuno abbia criticato il Ministero degli interni per questo? No. E non parlo dei casi positivi!
Ultima battuta sui patti territoriali. Non ci sono ricette. Ma alcune lezioni ci sono. La principale è quella che ricavammo subito dal governo del sistema che trovammo nel 1998 e che prevedeva finanziamenti al territorio di ampie proporzioni e sbilanciati a favore degli incentivi anziché della produzione di beni pubblici. Le lezioni che applicammo negli anni successivi furono quella di rendere gli incentivi assai meno cospicui e complementari alla produzione di servizi e, soprattutto, di dare all’inizio pochi fondi a molti territori per avviare la valutazione delle possibili strategie, e di decidere poi i nuovi più ampi finanziamenti sulla base della valutazione dei progetti che durante questa prima fase essi avevano costruito. Ma, come le vicende successive hanno mostrato, si tratta solo di un requisito necessario, non certo sufficiente.
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Piero Bassetti
Io volevo esprimere, credo a nome di tutti, l’apprezzamento per l’impegno personale di Fabrizio Barca e per la franchezza dell’esposizione che ci ha molto lusingato, come manifestazione di interesse per l’attività del Laboratorio. Io credo che in una sede del genere valga la pena di tirare qualche conclusione, spero non moralistica, ma moral-politica. A me pare che di fronte a una testimonianza, a un caso come quello che abbiamo sentito raccontare qui, di grandissimo interesse, anche umano, oltre che istituzionale, manageriale e politico, viene per tutti un senso di responsabilità rispetto al lavoro che a mio avviso istituzioni come l’università, ma anche istituzioni di impegno civile come la fondazione, dovrebbero fare sul piano della maturazione del contesto nel quale si può inserire una proposta innovativa. Senza la crescita del contesto, secondo me, il rischio di sacrifici di avanguardie è tale da fare intuire che queste avanguardie si sposteranno fatalmente verso campi di maggiore soddisfazione ed è quello sul quale gioca l’impresa che avendo uno schema organizzativo molto più facile (perché gioca su un circuito solo) è in grado di dare al manager soddisfazioni, accountability, efficacia che invece l’impegno nell’istituzione politica, nelle attuali condizioni di mancanza del contesto giudicante, ma anche gratificante, diventano assenti e impossibili. Per cui scatta l’accusa di illuminismo, ma che in realtà è bilanciata dall’accusa reciproca di arretratezza. Questa mi sembra una riflessione che per un contesto come quello dell’università è fondamentale: oggi si è visto che non tutta la responsabilità della crisi della politica è scaricabile sulle istituzioni. Io, per esempio, sono sempre severissimo sui nostri media. Una democrazia non può funzionare con dei media che non sono un luogo di giudizio della classe politica. La classe politica rappresentativa deve essere esposta a un giudizio motivato su quello che è il risultato del suo impegno, ma anche del suo azzardo e magari anche della sua efficacia differita. Noi, per esempio, come Fondazione ci siamo impegnati sul tema della democrazia deliberativa. Secondo me è un tema sul quale bisognerebbe pensare a qualche riflessione ulteriore, cioè sul modo di migliorare la capacità di deliberare degli organi di rappresentanza democratica, perché deliberare sugli OGM, sulla bioingegneria per alzata di mano è un problema difficile. Lo Statuto della Lombardia, in questo momento, si sta cimentando su quello che noi abbiamo proposto in sede di Commissione di Statuto, cioè su come affrontare le decisioni difficili, con quale procedura decisionale democratica. Temi, questi, su cui la Svizzera o i Paesi scandinavi sono molto più avanti di noi. La tecnologia sta introducendo problematiche decisionali completamente diverse da quelle tradizionali.
Sul fatto che nel dibattito istituzionale non ci si renda conto che è arrivato il momento di rivedere i regolamenti delle due Camere dal punto di vista della capacità di colloquiare con dei ruoli del dirigente pubblico ho trovato molto interessante la risposta all’obiezione: effettivamente nella Bassanini si era configurato un ruolo diverso del responsabile amministrativo, cosa che, per altro, il sindacato non ha colto.
Quindi grazie a Fabrizio Barca e l’augurio che si possano, di comune accordo, riproporre delle occasioni di dibattito e rimanendo aperti a eventuali segnalazioni di temi, perché in fondo le strutture capitalistiche chiedono con una scioltezza maggiore, quelle politiche lo fanno spesso annaspando. Quello che si direbbe mancare è la domanda di riflessione, anche negli ambienti elitari, di persone che hanno scelto di attraversare un’esperienza come la sua.
Per poter vedere le riprese registrate dell’intero incontro, visitate le pagine degli eventi video del CTU – Università degli studi di Milano.