Lo scorso 21 febbraio si è svolta a Brescia la giornata di studi Innovazione, Internazionalizzazione, Sostenibilità. Dopo i saluti istituzionali e la presentazione del programma da parte di Ferdinando Cavalli, presidente del Wtc Brescia, che ha organizzato l’evento, il moderatore, Giovanni Caprara, ha dato la parola a Piero Bassetti, Presidente di Globus et Locus e Fondazione Giannino Bassetti. Nel suo intervento Bassetti ha parlato di sostenibilità e responsabilità dell’innovazione nel contesto glocale contemporaneo e del rapporto innovazione/Stato. All’incontro hanno partecipato rappresentanti del Montana World Trade Center e del Tri-Cities World Trade Center Kingsport-Tennessee, docenti dell’Università dell’Arkansas, oltre docenti delle Università di Bergamo e Brescia e al Presidente PDMA South Europe, Paolo Zanenga.
Promuovere la cultura innovativa
di Piero Bassetti
Il tema dell’innovazione sfida tutti e, proprio perché sfida tutti, sfida ciascuno a tenere il passo con l’andatura che viene imposta dal contesto. Stiamo vivendo, e questo è spesso dimenticato, una svolta epocale, che non è riducibile ai trends tradizionali: nella nostra epoca sta avvenendo un cambiamento – che qualcuno ritiene riconducibile, come precedenti, solo a quello che abbiamo vissuto ottomila anni fa con la scoperta dell’agricoltura – che è legato al fatto che la scienza e la tecnologia hanno cambiato il concetto di tempo e di spazio.
Vivere con lo spazio zero – lo spazio è quasi azzerato – e con il tempo zero vuol dire essere degli esseri umani diversi. Tutta la storia dalla quale deriviamo è stata vissuta da uomini che avevano una concezione dello spazio e del tempo radicalmente diversa da quella che oggi la scienza e la tecnologia ci propongono. Adattarsi a questa sfida, e coglierne le opportunità, è un compito difficile. L’associazione che io presiedo, Globus et Locus, si è posta questa esigenza: servire alla riflessione delle nostre classi dirigenti sui modi in cui si può far fronte a questa sfida epocale che ha visto la globalizzazione cambiare il mondo e con esso i contesti nei quali viviamo e dobbiamo operare.
Un altro elemento ha cambiato e sta cambiando la nostra vita, e quindi il mondo: è l’innovazione, frutto dello sviluppo del sapere scientifico e del progresso tecnologico. La Fondazione Bassetti che io presiedo ha dato una definizione dell’innovazione: ‘L’innovazione è realizzazione dell’improbabile’. L’innovazione è resa possibile dal più di sapere che la scienza ci ha messo a disposizione, unita al più di potere dato dal capitale accumulato.
E’ importante sottolineare che l’innovazione non è una scoperta, non si è innovato quando si è scoperto che si può fare in un modo nuovo qualcosa che prima era impossibile o improbabile. Si è fatta innovazione quando la possibilità si è implementata, quando una possibilità prima impossibile o improbabile diventa consumo normale. Noi dobbiamo trasformare una potenzialità in una attualità.
Oggi possiamo dire con sicurezza che si poteva inventare l’automobile, però bisognava costruirla e magari si poteva costruirla anche in modi diversi, poi però noi abbiamo cambiato tutto il nostro modo di vivere, perché abbiamo cambiato le regole della mobilità.
L’innovazione, quando è realizzata, va di gran lunga al di là del sapere di chi pensava di inventarla. Io sono sicuro che anche Ford non aveva chiaro che sarebbe potuto accadere qualcosa come il blocco delle automobili, perché oggi noi abbiamo messo in moto un processo di attacco al clima che era impensabile.
Non capire che cosa significa innovazione, con tutto ciò che comporta, compresa la globalizzazione, vuol dire ridurre la possibilità che i tentativi per svilupparla abbiano successo. Non è possibile pensare di spingere un’economia ad andare al di là di quello che ha sempre fatto se non si è in grado di avere un’idea di dove la si vuole accompagnare.
Da questo punto di vista non c’è dubbio che una delle ragioni per cui la situazione italiana è quella che conosciamo è che noi siamo una cultura e un popolo radicato nelle tradizioni culturali legate al passato. Noi siamo un popolo con una cultura sostanzialmente conservatrice per i valori ai quali ci affidiamo, mentre l’innovazione è, per definizione, sradicatrice. Vivere accostandoci tutti i giorni all’improbabile è proprio tutto il contrario di una tradizione contadina o di una tradizione classica o di una tradizione istituzionalizzata come la nostra.
Se noi vogliamo avere delle imprese che affrontino il problema dell’innovazione con convinzione, che lo inseriscano nel contesto della globalizzazione – e non più solo nel contesto dell’internazionalizzazione -, che puntino ad un’innovazione sostenibile per non trovarsi tra qualche anno a constatare di avere sbagliato indirizzo, noi abbiamo bisogno che questo processo di diffusione del concetto di innovazione sia visto su un orizzonte adeguato alla natura del processo.
A questo problema ci sono due risposte: una è quella, secondo me sbagliata, secondo la quale si ritiene che un’autorità superiore possa incanalare l’innovazione. In questo caso c’è una contraddizione in termini fra pianificare e pianificare l’innovazione: pianificare l’innovazione vorrebbe dire pianificare quello che non c’è. Ed è per questo che i concetti della pianificazione organica sono caduti e la guerra fredda è stata vinta dall’innovazione di un sistema, quello occidentale, che aveva scelto l’altra strada, quella della libertà di introdurre l’innovazione premiandola – e in genere la si premia con il profitto. Il Nobel non è un premio all’innovazione, ma alla scoperta. L’innovazione non ha premi, se non quello del successo e del profitto.
Noi stiamo arrivando a una fase in cui ci si comincia a rendere conto di quello che succederà in un mondo di forte innovazione. Faccio un esempio. Sul tema della nanotecnologia, la Fondazione Bassetti ha messo on line sul proprio sito, tre anni fa, un rapporto della Swiss Re – quindi fonte garantita nella sua prudenza e serietà – che diceva di non assicurare le imprese che facevano nanotecnologia, perché è una tecnologia estremamente pericolosa, che richiede attenzione poiché le innovazioni nella nanotecnologia possono andare a sbattere contro problemi come quello che hanno dovuto affrontare alcune case farmaceutiche con il talidomide e le imprese americane con gli OGM. Ad un certo momento un’innovazione apparentemente interessante si è urtata contro la non recepibilità di un contesto più generale.
Questo che cosa porta a dire? Che l’innovatore va aiutato nella sua capacità di esserlo, quindi nell’innovare, ma va anche in qualche modo assistito e tranquillizzato sugli sbocchi che queste sue innovazioni possono avere nel lungo periodo.
La sostenibilità dell’innovazione
Il tema della sostenibilità è questo: noi dobbiamo creare un mondo di innovazioni sostenibili. Per sostenibilità si intende che le innovazioni possono svilupparsi secondo una tendenza compatibile con i diversi contesti. Le combustioni devono essere compatibili con la capacità delle nostre foreste di ricreare la quantità di ossigeno che abbiamo consumato. Questo è l’esempio classico di sostenibilità. La sostenibilità non è il limite assoluto: bisogna equilibrare i tassi di sviluppo della novità con i tassi di sviluppo di recupero della sostenibilità.
Innovazione e Stato
Per la struttura pubblica, il problema di una politica dell’innovazione si presenta quanto mai complesso perché l’innovazione va favorita, va incentivata, perché una nazione che rifiutasse l’innovazione potrebbe rischiare di essere esclusa e rimanere sottosviluppata. L’innovazione quindi va sviluppata secondo i ritmi in cui cresce in tutto il mondo e noi in Italia dobbiamo ‘darci una mossa’ perché, malgrado le doti di creatività e di intelligenza e malgrado la nostra presenza innovatrice in molte parti del mondo, anche nei punti più avanzati (per esempio, a Silicon Valley la presenza di informatici italiani è fortissima), rischiamo che le nostre élites innovatrici siano impegnate in imprese non nostre e accrescano il differenziale tra lo sviluppo economico del nostro Paese e quello di altri Paesi. L’innovazione va sostenuta per evitare il rischio di regredire in una posizione arretrata. Essa però va aiutata perché il suo sviluppo abbia due dimensioni importanti: deve possedere l’apertura al globale, cioè non deve essere provinciale, ma deve anche essere capace di mettere in connessione il globale con il locale; deve, cioè, essere consapevole dal punto di vista della localizzazione. Questa è la vera sfida della globalizzazione. Inoltre, e questo è altrettanto importante, deve avvicinarsi a condizioni di sostenibilità. Questo è l’aspetto più delicato. E questo lo vediamo, per esempio, nel caso dello sviluppo dell’industria automobilistica oggi: è chiaro che innovazioni, magari molto interessanti dal punto di vista dell’economia dei costi, ma che non lo sono dal punto di vista dell’economia dell’ecosistema e del clima, sono in contraddizione con loro stesse.
E’ chiaro dunque che il singolo innovatore può prendere meglio queste decisioni se c’è qualcuno in grado di accompagnarlo. Pensando alla pubblica amministrazione italiana, al nostro Stato, ci si può rendere conto facilmente di quanto questa prospettiva sia agghiacciante. Noi italiani rendiamo quando ci danno le briglie sul collo e quando ci invitano a exploit un po’ anarcoidi, ma appena si delinea la necessità di conciliare la nostra capacità anarcoide di inventarsi il futuro con l’esigenza di organizzarlo e di assegnargli un’accettabilità – che è il tema della sostenibilità – le cose diventano difficili.
La responsabilità
La mia convinzione, ed è il filone di pensiero che portiamo avanti con la Fondazione Bassetti, è che ci sia un solo rimedio a questo: la responsabilità.
Noi abbiamo bisogno di innovatori che siano innovatori, che siano coraggiosi, ma che, in qualche modo, siano responsabili. Una persona che voglia esercitare la responsabilità in questa materia chiede riferimenti, istruzioni, direttive: pensate se la nostra pubblica amministrazione si mettesse a dare direttive in questa direzione: vengono i brividi!
La dimensione del public – che potremmo tradurre con civile – qui a Brescia si affaccia sul tema dell’innovazione. Qui non ci sono rappresentanti del potere statale, ci sono rappresentanti di pubbliche istituzioni e ci sono rappresentanti di quella fascia che qualcuno chiama del ‘terzo settore’ che è fondamentale perché ci possa essere innovazione: servizi avanzati, università, strutture di formazione e ricerca dei processi di innovazione che non hanno nulla a che fare con la scuola di Stato. Hanno a che fare con una capacità di adeguamento delle istituzioni civili che forniscono servizi all’impresa che si accinge a fare innovazione, adeguate a non arrestare il processo, anzi a svilupparlo e a precisarlo.
Global e local
Dato che tutto questo si svolge in un mondo che è già global, non può essere fatto con un approccio provinciale; può essere fatto solo con un approccio cosmopolita, ma un vero approccio cosmopolita non fa più riferimento alla dimensione nazionale, fa riferimento alla dimensione del locus, dove il locale è variamente definito. La gara oggi non è a livello internazionale, fra nazioni, anche se la nostra cultura continua a coltivare questa idea, il problema è quello di sapersi inserire nel contesto creato anche dalla globalizzazione a svolgere una funzione innovatrice.
Una parola di ottimismo: noi stiamo dimostrando, per esempio con il settore del Made in Italy, che abbiamo capito il discorso dell’innovazione e della globalizzazione meglio di chiunque altro al mondo: abbiamo capito che si poteva usare la Cina – e quindi viverla non come una minaccia ma come un’opportunità, e ci accingiamo a fare altrettanto con l’India -, abbiamo capito che si poteva utilizzare la differenza dei costi comparati soprattutto nel lavoro, ma non solo, alzando il tasso di innovazione, tenendo presente che l’innovazione, per fortuna, non è solo quella portata dalla scienza, ma spesso è quella portata dalla creatività, quella che noi chiamiamo la poiesis, cioè la capacità di riferirsi all’essenza della creatività artistica: poiesis, da poieo, fare. Un golf di Missoni – e noi ne abbiamo discusso durante un corso alla Liuc – contiene un tasso di innovazione che può essere comparabile con gli esperimenti della biotecnologia.
La sostenibilità culturale
Noi italiani stiamo, per ora, giocando su quel punto di vantaggio e sembra, dai dati, che ci stiamo anche riuscendo. Però non basta. Dobbiamo renderci conto che tra cinque o sei anni quel tipo di innovazione sarà livellata. Resta vero che noi dobbiamo percorrere la strada dell’innovazione sofisticata, abituandoci anche a esercitare in modo adeguato la gestione politica. Mettere a disposizione l’ovulo, che ci piaccia o no, è eugenetica. Quindi non ci sono dubbi che se si è in grado di fare un simile processo di innovazione, ma non si è in grado di accettarlo in termini di cultura e civiltà, si viene sfidati in Parlamento. Questo è un problema di sostenibilità culturale: si può diventare arretrati o avanzati anche per ragioni valoriali; ciò implica molte riflessioni sull’assetto del nostro quadro culturale.