Chi guarda allo sport nell’ottica di Olimpia, difficilmente riesce a cogliere lo spirito dell’innovazione nell’attività sportiva. Fra un Dorando Petri che cade sfiancato a pochi metri dal traguardo nell’Olimpiade di Londra del 1904 e un Abebe Bikila che vince la maratona ai giochi olimpici di Melbourne del 1956 correndo a piedi nudi, la differenza riguarda solo il costume.
Tralasciando, almeno per il momento, le ipotesi avveniristiche sull’uomo bionico, cioè integrazione del corpo umano con elementi artificiali, e guardando alla quotidianità degli sport che si avvalgono di strumenti e apparecchiature ad hoc, si osserva che sia la pratica sportiva che i risultati sono profondamente influenzati dall’innovazione tecnologica.
L’articolo di Paolo Conti Strumenti di gloria apparso su Nòva 24, supplemento de Il Sole 24 Ore dedicato a ricerca, innovazione e creatività, ha come argomento appunto il ruolo dell’innovazione tecnologica nelle varie discipline sportive.
‘Ci è bastato guardarci un po’ intorno per trovare un numero sorprendente di iniziative imprenditoriali nate grazie all’applicazione della tecnologia alle discipline sportive più diverse: dalla vela al calcio, dall’hockey al ciclismo.
Iniziative nate in piccolo, che senza la forza evocativa dello sport e le sue potenzialità economiche sarebbero probabilmente rimaste chiuse in un laboratorio.’
L’articolo di Conti, oltre che per il valore documentario ed esemplificativo, è interessante nel momento in cui coglie la relazione fra innovazione nello sport e la sua ricaduta in ambiti più vasti.
‘Come avviene a Maranello, dove c’è un ufficio chiamato Technology Transfert che si occupa proprio di trovare la strada per trasformare le innovazioni delle Ferrari da competizione in soluzioni adatte alle auto destinate al mercato. Cosa che è già avvenuta con l’innovativo cambio al volante FI, il differenziale elettronico e alcune soluzioni aerodinamiche particolari.’
L’altro aspetto da sottolineare è quello del rapporto non ideale fra mondo della ricerca (Università) e mondo imprenditoriale.
‘Il problema è che in Italia manca un collegamento effettivo fra le università e l’industria, che parlano lingue diverse e spesso non si capiscono’, aggiunge Visconti (direttore di Technology Transfert). ‘Gli industriali contattano le università sperando di ottenere idee già pronte, ma quando si rendono conto dei tempi di implementazione spesso rimangono delusi e si ritirano sull’Aventino. Lo stesso vale per gli accademici, che sono convinti (sbagliando) che una volta trovata l’idea il 90% del lavoro sia fatto. Nel caso del cambio F1 ci sono voluti vent’anni per passare dal tavolo da disegno alle concessionarie: non tutti sono disposti ad aspettare tanto’.
In conclusione:
‘Il fatto è – spiega Alfonso Fuggetta del Cefriel- che le tecnologie capaci di migliorare lo sport non mancano certo. Il problema di noi italiani è che sottovalutiamo l’information technology’.
‘La chiave per innovare sono le persone’, aggiunge Amedeo Visconti della Ferrari. ‘Di strutture che distribuiscono l’innovazione in Italia ne sono state create tante, ma non sempre con successo. Perché le idee possano trasformarsi in prodotti ci vuole soprattutto umiltà. Da entrambe le parti’.