Ringraziando tutti coloro che hanno finora partecipato al call, approfitto della necessità di fare l’annuncio della sua prossima chiusura, prevista per il 1 aprile, per rilanciare alcuni aspetti della problematica sollevata.
Con questo call si vuole ragionare su cosa si intenda per responsabilità dell’innovazione rispetto allo scenario attuale della globalizzazione e rispetto a una sua lettura improntata all’epistemologia della complessità.
Si è lanciata la sfida di pensare un nuovo concetto di responsabilità e si è considerata l’opportunità, ma anche tutti i rischi relativi, di sostituire al valore la procedura, valutata per efficienza rispetto a certi parametri. La domanda si sposta quindi da: a quali valori debbo rispondere per essere un individuo responsabile a: quali parametri debbo misurare per valutare la responsabilità di un progetto o un processo? Varrebbe la pena considerare congiuntamente sia gli aspetti espitemologici che quelli politici di questa proposta.
L’innovazione per definizione esclude la possibilità di essere un puro frutto di calcolo razionale. Per essere tale l’innovazione contiene un elemento di rischio, di creatività e, a volte, di passione – questo è emerso con chiarezza in occasione del corso recentemente tenuto dalla Fondazione Bassetti all’Università Carlo Cattaneo – LIUC di Castellanza (di cui sono di prossima uscita i Quaderni).
Rimando per esempio all’interessante articolo di Michael Power, From Risk Society to Audit Society. L’articolo collega esplicitamente il concetto di risk society (Beck) e quello di audit culture (Strathern), per il fatto che in una società del rischio occorre inventare nuove strutture di informazione per ricongiungere i decision makers con il loro pubblico. Si può quindi pensare alla valutazione (audit) come uno stile distintivo di management del rischio, e legare il concetto stesso di rischio a una teoria della conoscenza. Infatti, i diversi modi del conoscere sono modi di essere ignoranti. Si può anzi considerare la nozione di società del rischio di Beck come una elaborazione in senso politico di una nozione epistemologica tipica della complessità, cioè quella di sistema complesso. Per quanto riguarda gli aspetti politici di questa epistemologia del rischio, il principale e più preoccupante sarebbe che discipline apparentemente neutre, come la ragioneria, stanno rimpiazzando l’autorità culturale della scienza, e della scienza politica.
Fa da sempre parte della filosofia della Fondazione la convinzione che l’innovazione non coincida con la creatività o con il pensiero creativo, che si possa cioè parlare di innovazione solo laddove si verifichi la realizzazione dell’improbabile: un oggetto, un corso di azione o un sistema di pratica che si stabilisce nella realtà e la influenza durevolmente. Siamo quindi nel campo dell’azione piuttosto che del pensiero. Ora, potrebbe essere interessante considerare la responsabilità dell’innovazione in termini di responsabilità nella produzione della conoscenza: la recente intervista a Ignacio Chapela condotta da Jeff Ubois per conto della Fondazione segue proprio questa falsariga. Chapela sostiene che la responsabilità dell’innovazione consisterebbe nel garantire la diversità del pensiero contro l’iper-specializzazione, allo stesso modo in cui occorre garantire la biodiversità. Ecco perché la sua critica dei circoli viziosi nel sistema di peer-review per la pubblicazione degli articoli scientifici merita attenzione, al di là della sua vicenda personale e intellettuale. A questo punto sarebbe conveniente per gli stessi scienziati affrontare direttamente la questione della loro responsabilità, per potersi meglio accreditare presso il pubblico.
Ma di quali strumenti avrebbe bisogno un osservatore esterno per misurare la presenza o meno della responsabilità? Per rispondere, occorrerebbe riuscire a definire di volta in volta il contesto adatto per immaginare l’effettiva sfera di influenza, e l’ordine di grandezza degli effetti, di ogni singola innovazione. Latour pone esattamente questo problema quando invoca un parlamento delle cose (nella sua Lecture Nessuna innovazione senza rappresentanza! organizzata dalla Fondazione Bassetti e di prossima pubblicazione nelle Lectures della Fondazione Giannino Bassetti, 2002-2005. Il Parlamento delle cose dovrebbe provocatoriamente tenere in considerazione i contesti sociali, umani, demografici, naturali etc. dell’azione innovativa.
L’innovazione, tuttavia, non è solo nelle mani degli scienziati. Anzi, la Fondazione da tempo sottolinea il ruolo storico e politico degli innovatori che cambiano lo stile di vita e la visione del mondo della gente introducendo oggetti e corsi d’azione nuovi o efficaci nelle loro routine quotidiane (pensiamo al personal computer, agli interfaccia e ai software, ma anche alla minigonna, ai piatti e bicchieri di plastica… Ci si potrebbe chiedere (e si dovrebbe chiedere loro) se questi innovatori influenti sono consci del loro ruolo nella storia, e se si pongono la questione della politicità del loro agire. In altri termini, si pongono il problema degli scopi e della direzione in cui si muovono le loro innovazioni?
Parrebbe di no, se, come nota Daniele Navarra riportando il suo colloquio con Nicholas Rose (Science, politics and responsibility: an agenda for the governance of innovation and technology), “ciò che la biotecnologia, la genetica e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno in comune è che sono state tutte introdotte senza poter prevedere quali ne sarebbero stati gli effetti sul lungo e medio periodo. Nessuno pensò che queste innovazioni avrebbero fatto progredire l’umanità e reso disponibili nuove risorse nel modo in cui fece per esempio Internet. Del resto, nessuno pensò che questa avrebbe ugualmente incentivato la pornografia come la pubblicizzazione della sequenza del genoma umano”.
Rimangono perciò aperte tutte quante le domande poste inizialmente, che riassumiamo e rilanciamo così:
1. Con quali politiche culturali si può accrescere la sensibilità verso responsabilità dell’innovazione?
2. Come si può misurare e/o implementare il grado di responsabilità di un innovatore?
3. In che misura la responsabilità dell’innovazione è definita dal contesto e in particolare dai vari attori che con essa interagiscono?
4. In che modo possiamo immaginare scenari responsabili dell’innovazione? Se ne può citare qualcuno di storicamente accaduto?