A proposito del tema, già accennato nei documenti precedenti, del ruolo giocato dalle comunità di pratica nei processi di emergenza e gestione dell’innovazione, segnalo l’intervista a cura di Mara Benadusi, a me e Francesco Ronzon sul volume Pratiche e Cognizione. Note di Ecologia della cultura, pubblicata su “Formazione e Cambiamento“, il webmagazine sulla formazione a cura del FORMEZ, anno V numero 37, ottobre 2005.
Riporto di seguito alcuni brevi stralci.
(Cristina Grasseni e Mara Benadusi sono Ricercatrici in Antropologia Culturale presso l’Università degli Studi di Bergamo. Francesco Ronzon insegna Antropologia Culturale all’Accademia di Belle Arti di Verona).
«L”idea di intervistare Cristina Grasseni e Francesco Ronzon a proposito del libro Pratiche e Cognizione (Meltemi, Roma, 2004) che li ha visti coautori, nasce nell’ambito di una ricerca realizzata dal Formez sulle comunità di pratica come fenomeno organizzativo e come luogo di produzione e rielaborazione delle conoscenze. Il volume infatti offre al pubblico italiano una introduzione sistematica alle indagini ecologiche sul nesso tra pratiche e cognizione, sviluppata all’interno dell’antropologia culturale. Seguendo un’analisi tematica, la mente, le abilità, il linguaggio e i processi di apprendimento e organizzazione sono indagati come esito di una serie di relazioni con il proprio ambiente naturale e sociale, continuamente aperte e in evoluzione. Ne emerge un originale e innovativo dialogo interdisciplinare radicato nell’analisi di casi etnografici tratti dal mondo dell’arte, della scienza e della vita quotidiana.
I riferimenti teorici del libro coprono un’area di dibattito ancora poco presente all’interno dell’antropologia italiana. Come e perché avete iniziato a interessarvi a queste tematiche?
Cristina: Diciamo che ci siamo trovati entrambi interessati a cercare dei filoni teorici sufficientemente ricchi e fecondi da supportare un’analisi etnografica e una riflessione antropologica sui processi con cui costruiamo senso, aderiamo a un’identità e ci sottoponiamo a veri e propri apprendistati che ci plasmano come individui sociali e “intelligenti”. In questo sono stata influenzata dallo studio di Wittgenstein e della filosofia della scienza e dal dibattito, in filosofia come in storia e filosofia della scienza, sull’incommensurabilità tra forme di vita. Per quanto mi riguarda i primi tentativi di mettere in comune con altri antropologi queste perplessità ed esigenze, legate a una continua interrogazione sul metodo dell’investigazione antropologica, mi hanno portato a organizzare un primo incontro sul tema delle “Pratiche della Località” nell’aprile del 2000 presso l’Università di Milano-Bicocca, dove fruivo di un assegno di ricerca post-doc in epistemologia e antropologia visuale. La nostra impresa comincia da lì.
Francesco: Per quanto mi riguarda la questione si è posta in questi termini: ho iniziato con un interesse verso i temi del mentale e del cognitivo, abbinato però ad una marcata insoddisfazione verso la rigidità e astrattezza dei modelli offerti dal cognitivismo e dall’antropologia cognitiva “classica” (ad es. etnoscienza). In seguito a questi cul de sac teorici mi sono spostato dunque verso l’antropologia interpretativa (Geertz) e fenomenologica (Csordas) attratto dalla sua più ampia densità e profondità ermeneutica. Anche qui sono però rimasto deluso. La bassa analiticità e il permanere di una sensibilità fortemente idealistico-rappresentativa mi costringevano infatti a lasciar cadere ancora una volta ogni questione relativa a come gli individui operano nel mondo reale nel corso delle loro attività concrete. Alla fine, dopo varie ricerche e pellegrinaggi intellettuali, sono arrivato alla conclusione che le teorie esposte e presentate nel libro siano le più adatte a offrire una mediazione tra rigore analitico e densità interpretativa.
In quanto antropologi, quali potenzialità vedete nell’investigare attraverso metodologie di tipo etnografico contesti di “pratica esperta”, come li definite nel libro, non solo quelli scientifici?
Francesco: In quanto apprese e praticate a livello sociale tutte le attività umane sono passibili di indagine ecologica: una bottega d’arte, una setta religiosa, un laboratorio scientifico, un ufficio di impiegati comunali… In modo analogo, anche l’uso di un approccio etnografico risulta un passaggio direttamente conseguente alle premesse teoriche. Se la relazione individuo-ambiente non solo è necessaria ma anche inevitabile è ovvio che la sua analisi non possa prescindere dall’analizzare le modalità con cui questa interazione ha luogo in concreto: in un certo luogo ed in un certo tempo. Ciò a sua volta comporta essere sul posto mentre tutto questo avviene. Non trattandosi di un processo rigido e meccanico solo essendo presenti al suo svolgimento si possono cogliere e rilevare i fattori pertinenti alla comprensione del processo e dei suoi risultati finali.
Cristina: Questo significa, per gli antropologi, affinare la sensibilità al modo in cui si organizza l’azione nell’ambiente, cioè quali qualità relazionali, ma anche ideologiche ed egemoniche, emergono e si sviluppano proprio grazie a determinate gestioni locali delle pratiche – che siano pratiche professionali o ludiche, informali o formalizzate, conoscitive o quotidiane. Tra l’altro ciò getta una luce molto diversa sul concetto di sapere esperto, di cultura materiale e di tecnologia. Queste non costituiscono saperi di nicchia, patrimonio di folkloristi col pallino per il tecnico, ma costituiscono l’ordito su cui si intessono i discorsi identitari, di senso, dominanti o sub-culturali, di cui si occupano gli antropologi nelle loro analisi della complessità e della contemporaneità.
Il concetto di “comunità di pratica” ha avuto negli ultimi anni un periodo di intensa fioritura; anche voi dedicate ad esso uno spazio di riflessione nel libro. Come le comunità di pratica contribuiscono alla costruzione di identità individuali e collettive? E in che modo incidono sui processi di apprendimento?
Cristina: Il concetto, anche se evocativo di per sé, consente in realtà un ventaglio di approcci analitici proprio alla costruzione di identità individuali e collettive e ai processi di apprendimento. Un sotto-concetto chiave è quello di partecipazione periferica legittimata, che l’antropologa Jean Lave ha messo a punto con Etienne Wenger per analizzare i processi di apprendimento in termini di socializzazione progressiva. Si impara, cioè, per progressiva ammissione in ruoli determinati all’interno di comunità di pratica, assumendo successivamente posizioni da periferiche a sempre più organicamente integrate. L’apprendimento si configura quindi come un apprendistato che prevede l’apprendimento continuo e il coinvolgimento di tutta la persona, con le sue qualità relazionali, la sua storia precedente, le proprie abilità pratiche, e il posizionamento all’interno di reti di relazioni e di gerarchie di potere interne ed esterne.
Francesco: La nozione di comunità di pratiche è un termine oggi molto usato ma anche molto abusato. Molto spesso si limita ad essere uno slogan astratto per meeting aziendali o per dibattiti teoretico-filosofici. I livelli di analisi toccati dagli autori presentati nel corso del libro (da micro a macro), invece, vogliono proprio offrire una “cassetta di strumenti” intellettuali per sviluppare delle reali ricerche empiriche. In questo senso, per quanto concerne sia i temi dell’identità e sia quelli dell’apprendimento, il libro non offre dunque un unico modello interpretativo buono per tutte le stagioni, ma un repertorio di risorse teoriche per anatomizzare in modo dettagliato i vari contesti e le varie situazioni socio-culturali dell’agire nella loro specificità locale. Analizzare l’educazione di un bimbo in Italia o in Siberia vuol dire prestare attenzione non solo ai valori e ai significati in generale, ma anche e soprattutto ai tipi specifici di training al quale viene sottoposto: insegnamento scolastico formale, tutoraggio informale di villaggio, e così via. In egual modo l’identità collettiva di una tribù indiana, degli operai della Fiat e degli integralisti cattolici U.S.A. differiscono tra loro non solo per i contenuti ma anche per le modalità pratiche che le generano: i riti e le cerimonie a sfondo cosmologico, il gossip sulla figura di Gianni Agnelli o le letture sulla storia delle lotte operaie nel ‘900, il rigido controllo delle piccole comunità rurali e le prediche catodiche dei tele-evangelisti.»
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