In una Rassegna Stampa dell’aprile 2002 mi sono soffermato sul come i problemi etici dell’innovazione tecnico-scientifica fossero recepiti in modo diverso a seconda del contesto socio-culturale (nel caso specifico la ricerca biogenetica in Cina): vedi I fantasmi di Frankenstein non appartengono all’immaginario cinese.
Su Avvenire dell’8 gennaio, nell’articolo “Giapponesi artificiali”, partendo dalla domanda “Come mai i giapponesi sembrano avere più familiarità di noi occidentali con i robot? Perché, in una parola, li accettano meglio” Daniele Lepido ha illustrato come il tema della differenza culturale di fronte all’innovazione tecnologica è stato discusso a Parigi, alla casa della Cultura del Giappone, all’interno della manifestazione “Uomini e robot, tra utopia e realtà”.
Frederic Kaplan ricercatore nei laboratori di computer science della Sony parigina ha sostenuto che:
‘Gli europei sono più imbarazzati di fronte a robot umanoidi degli abitanti del Sol Levante perché i due popoli hanno una concezione diversa di umanità, dell’essenza dell’uomo, che deriva anche dal loro diverso retaggio religioso’.
Per Kaplan, infatti:
‘la tradizione giudaico-cristiana, che porta con sè il concetto di uomo come creatura-creata dalla divinità, è il primo ostacolo all’accettazione e quindi alla produzione di androidi. Nello shintoismo, invece, la religione storica del Giappone, non esiste la creazione ex nihilo…. per i nipponici naturale e artificiale non sono in contrasto’.
Quest’ultima affermazione, distinzione fra naturale e artificiale, va, a mio parere, sottolineata.
Infatti al di là di quello che ci ha insegnato Leopardi (Dialogo fra la natura e un islandese), secondo una certa vulgata, a cui non sa sottrarsi nemmeno una mente raffinata come Habermas (si veda su questo sito Rassegna stampa su Habermas e “Il futuro della natura umana: i rischi di una genetica liberale”), il naturale, al contrario dell’artificiale, proprio perché determinato da processi casuali è intrinsecamente etico.
L’opinione di Kaplan non è però condivisa da Aaron Sloman, docente di intelligenza artificiale e scienze cognitive all’Università di Birmingham, che afferma:
‘Non sono per niente convinto che i popoli del Vecchio continente abbiano un disagio maggiore dei giapponesi verso i robot, o che siano meno interessati a questi progetti. Anzi, credo che si tratti di una generalizzazione un po’ grossolana. Personalmente sono più interessato al funzionamento di una cosa e non tanto alla sua origine e certo non ho paura dei robot. I veri mostri, in certi casi, sono proprio gli umani. Basta leggere i giornali e guardare la tv…’.
A sua volta Marco Gori, professore presso il dipartimento di Ingegneria dell’informazione dell’Università di Siena e presidente dell’Associazione italiana intelligenza artificiale:
‘La maggiore disponibilità della cultura giapponese rispetto alla nostra a “ospitare” androidi si manifesta soprattutto nella disponibilità di finanziamento verso questo tipo di ricerche. Non credo invece che nel ricercatore la fede e la cultura giudaico-cristiana possano imbrigliare il desiderio di esplorare, di porre domande per carpire i segreti della creazione e replicarli nelle macchine. Non credo, insomma, che la religione possa circoscrivere il dono della razionalità’.
Mi sembra opportuno notare che mentre Kaplan parla della cultura diffusa, Sloman e Gori si riferiscono alla loro sensibilità di ricercatori, tra l’altro specialisti del settore.