‘Provoca meno vittime di quelle causate dalla malaria, un milione quest’anno; dall’Aids, quasi tre milioni e quasi tutti poveri; dall’infarto o dalla febbre dengue. Tuttavia la polmonite atipica viene vissuta anche in Europa e in Sudamerica come un pericolo tangibile, imminente e personale: ora, oggi, qui.’
Così scrive Yurij Castelfranchi nell’articolo “Un epidemia da paura”, apparso su Il Manifesto del 3 maggio.
Al di là dei dati epidemiologici, il coronavirus è diventato il paradigma del rischio e dell’incertezza in una società che comincia a dubitare dell’onnipotenza del progresso tecnico-scientifico.
‘Ci sono due virus della Sars, non uno. Il primo è un coronavirus, costituito di un filamento singolo di Rna e appartenente alla famiglia virale che causa le nostre più banali influenze. […] Il secondo virus è immateriale: è fatto di idee, emozioni, parole. E’ un virus cognitivo, si è propagato molto più rapidamente del primo e ha colpito infinitamente più persone, di tutte le razze e culture, di ogni censo e nazione. Fa sì che le persone memorizzino la sigla Sars, abbiano una vaga idea di che malattia sia e quali siano i suoi sintomi. E collochino tale malattia, persino nei paesi in cui non è arrivata o non arriverà, nella propria ‘agenda’ di chiacchiere, pensieri, preoccupazioni’.
‘Il primo virus, biologico, ci mostra ancora una volta il meccanismo stupefacente della propagazione delle epidemie nel mondo globalizzato: anzichè a macchia d’olio, localmente, come nei secoli passati, e poi a ondate che seguivano le rotte commerciali e migratorie (coi ritmi dei mezzi di trasporto di un tempo), i contagi di oggi si propagano sul pianeta intero in tempi brevissimi, dell’ordine delle settimane o persino dei giorni’.
‘Il secondo virus è meno drammatico ma altrettanto notevole. Suoi veicoli non sono l’Rna e le goccioline d’acqua nebulizzate, ma la parola e l’emozione. […] Tale virus è dimostrazione di come la percezione del rischio sia una costruzione sociale e di quanto vedesse bene il sociologo Ulrick Beck [ndr: vedere in sito FGB], molti anni fa, nel preconizzare che la nostra era divenuta una “società del rischio”‘.
Se per il primo virus sono sufficienti, almeno ce lo auguriamo, i provvedimenti dell’OMS e delle varie autorità sanitarie, di fronte al secondo “virus” sarebbe riduttivo limitarsi a confrontare i dati della Sars rispetto ad altre patologie:
‘In un solo giorno, da anni e per i prossimi anni, si ammalano e si ammaleranno di tubercolosi 20mila persone: 8 milioni di nuovi malati ogni anno. (Molte di più, una ogni secondo, sono quelle contagiate dal bacillo ma che non mostrano i sintomi della Tbc). I morti per Sars sono stati, da novembre a oggi, poco meno di 400. Le altre malattie contagiose respiratorie che esistono oggi sul pianeta provocano 4 milioni di morti l’anno. In un solo giorno, solo in Africa, solo fra i bambini, ci sono tremila morti per malaria (ogni anno la malaria uccide fra 1 e 3 milioni di persone)’.
‘La realtà è che [….] la mente umana è fatta, evolutivamente, per costruire in maniera differente, e usando facoltà differenti, il calcolo probabilistico di un rischio (quando questo sia calcolabile), la percezione di tale rischio e, infine, la sua accettabilità. Il calcolo di un rischio è fatto di numeri. La percezione del rischio è una costruzione sociale (e mediatica) fatta di numeri, cultura, immaginario, emozioni’.
Sullo stesso argomento Ida Dominjanni su Il Manifesto del 29 aprile, nell’articolo “La sorpresa dei virus canaglia”, traccia un parallelo tra gli aerei bomba dell’11 settembre e il coronavirus. Entrambi visti come simbolo dell’insicurezza che l’uomo deve pagare al progresso tecnico-scientifico e alle prospettive della globalizzazione.
‘Sarebbe più onesto ammettere che l’insicurezza è il costo che paghiamo alla libertà di volare, viaggiare, spostarci, parlare tre lingue, andare a trovare gli amici di un altro continente, per non parlare di quella di comprare a caro prezzo le scarpe logate prodotte a basso prezzo nei villaggi cinesi. Non c’è libertà, dalla più nobile alla più mercantile, che non comporti un costo, quasi una tassa, di insicurezza. Così come non c’è forma di vita, dicono saggiamente i biologi, che non sia attaccabile da un’altra forma di vita, talvolta ignota e imprevedibile come un coronavirus dagli strani comportamenti. Prima impariamo a conviverci, prima appronteremo misure proporzionate per sapercene anche difendere’.