Se la tecnica si identifica nel fare e la scienza consiste nel conoscere, il confine fra le due tende sempre più a sfumare. Persino la matematica, almeno in alcune sue branche, si serve di grandi calcolatori. Se fino a non molto tempo fa, per lo meno sul piano metodologico, si poteva parlare si scienza pura e scienza applicata, intendendo questÂ’ultima come una derivazione della prima, oggi il rapporto fra il fare e il conoscere va riconsiderato nel senso che il fare sembra mettere in ombra il conoscere.
Su La Stampa del 15 marzo, Lelio Demichelis nellÂ’articolo “Scienza e tecnica, il mezzo è un fine” analizza due testi, rispettivamente di Bourdieu e di Emanuele Severino, che, pur in prospettiva, diversa portano a riflettere sulle conseguenze del mutato rapporto fra scienza e tecnica nel mondo contemporaneo.
“Il mestiere di scienziato” di Pierre Bourdieu (la cui nota introduttiva è stata pubblicata su Il Corriere della Sera del 6 febbraio “Ma la critica non deve inquinare la fiducia nel lavoro di laboratorio” è un saggio di sociologia della scienza in cui il sociologo francese osserva come lÂ’autonomia che la scienza aveva conquistato a poco a poco contro il potere religioso, politico, persino economico, si scontri oggi con la pervasività della tecnica anche nella sfera delle attività conoscitive:
- ‘Sono ancora le ideologie, le fedi, o che altro a definire regole e obiettivi delle nostre società? O non è piuttosto la tecnica a pre-dominare su tutto e su tutti, organizzando le società secondo la sua inesauribile e incontenibile “volontà di potenza”? Una volontà che però fatichiamo a comprendere e a riconoscere, educati come siamo a rimuoverla? Scienza, economia, religione, politica, servendosi della tecnica come di un “mezzo”, non si accorgono che essa è diventata ormai un “fine”, il “fine” di se stessa e di tutto ciò che crede di usarla come un semplice “mezzo”‘.
La posizione di Severino sulla tecnica è abbastanza nota e la si può riassumere nel suo “la tecnica come destino”. Il libro di cui parla Demichelis nel suo articolo è “Tecnica e architettura” (editore Cortina) che parte dal presupposto che se ‘la scienza era potenza, oggi lo è soprattutto la tecnica (di cui la scienza è divenuta la “guida” e la premessa), autentico pre-potere che usa e sub-ordina a sé ogni altro potere’:
- ‘la tecnica non è più un “mezzo” per fare – come erroneamente crede anche l’architettura – ma un “fine” uno “scopo”. Per cui, ad esempio, scrive Severino, non è più ‘la volontà capitalistica di incrementare il profitto a servirsi della tecnica, ma è la tecnica a servirsi di questa volontà per incrementare all’infinito la propria potenza’. E’ l’uomo, quindi, a farsi mezzo ‘con cui è fatta la volontà della tecnica’. Un rovesciamento tra mezzi e fini che contagia e corrompe ogni cosa, facendo trionfare il nichilismo di noi Occidente, rendendoci insensibili, ciechi di fronte alla logica di questa “volontà di potenza”. Come uscirne? Come riconoscere allora e combattere questa “volontà di potenza” della tecnica che ci svuota di ogni “senso”?’.
Il saggio di Severino, in una intervista a Guido Caserza, “Il filosofo e il grattacielo” (Il mattino, 21 gennaio) viene considerato sotto il profilo del nesso fra storia dellÂ’architettura e storia del pensiero occidentale, nesso che si manifesta ‘nella progressiva distruzione delle forme e delle strutture stabili, dei valori e delle verità assolute’. In altre parole, sempre la cultura del fare che tende a sostituirsi alla cultura del conoscere:
- ‘Il tempio greco rappresenta ad esempio quellÂ’ordinamento eterno del tutto che in campo architettonico vuole dire ordinamento definitivo, matematico, epistemico dello spazio, evocato dallÂ’anima della tradizione occidentale. Questa anima è però destinata a perire. Oggi tutti sappiamo distinguere la cosiddetta arte contemporanea, lÂ’arte astratta dallÂ’architettura tradizionale. Raramente, invece, riusciamo a capire lÂ’inevitabilità di questa astrazione, ovvero che in essa si rispecchia quella distruzione inevitabile dellÂ’anima della tradizione occidentale’.