Il 10 febbraio, il presidente Piero Bassetti ha ricevuto il ventiduesimo Premio Internazionale Vittorino Colombo, assegnato dall’omonima fondazione in memoria dello scomparso Presidente del Senato e storico promotore dei rapporti tra Italia e Cina.
Consegnato in passato a personalità come Romano Prodi, Emilio Colombo, Boutros Boutros-Ghali, Andrea Riccardi, Lucio Magri, il primo Presidente di Regione Lombardia, studioso dei processi di innovazione e globalizzazione, è stato scelto per il suo contribuito alla diffusione dei valori autentici della politica diretta alla solidarietà ed alla collaborazione fra i popoli, da una giuria presieduta dal Cavaliere del Lavoro Mario Boselli e di cui fanno parte Salvatore Carrubba, Antonio Calabrò, Angelino Alfano, Antonella Sciarrone Alibrandi, Padre Antonio Spadaro e Ferruccio De Bortoli.
Il Presidente della Fondazione Corriere della Sera ha poi rivolto due domande a Piero Bassetti in conclusione di serata. Di seguito una sintesi dell’intervista.
Un suo ricordo di Vittorino Colombo…
Io e Vittorino eravamo molto diversi: lui era di estrazione operaia, popolare mentre io venivo dalla borghesia imprenditoriale, ma ci siamo trovati quasi sempre d’accordo. C’era un plafond di valori comuni nella Democrazia Cristiana che ci teneva alla fine tutti insieme. Di Vittorino ho sempre ammirato la lealtà e il disinteresse, una sorta di santo laico.
È preoccupato guardando a ciò che accade oggi nel mondo?
Sono preoccupato che l’Europa non riesca a svolgere il suo ruolo storico di civilizzazione e di moderazione tra i due grandi player mondiali (Usa e Cina). E non riesce a farlo perché l’architettura istituzionale basata sui ventisette Stati è sbagliata. Non saremo mai uniti sommando ventisette statualità nazionali, dobbiamo partire dai popoli, dalle regioni, dai territori.
Su cosa si gioca oggi la sfida dell’innovazione?
Sulla rivoluzione del bit, quella che ho chiamato Gutenberg 2. Come la stampa a caratteri mobili ha cambiato il mondo nel XV secolo democratizzando la cultura e anche la religione, così l’intelligenza artificiale provocherà, anzi sta già provocando un cambiamento d’epoca che bisogna affrontare con coraggio e senza nostalgie per il passato.
La democrazia è in pericolo?
Si, perché è in crisi il voto. Quello che era il suo punto di forza sta diventando la sua debolezza più macroscopica. In un mondo così complesso votare in modo consapevole e informato è sempre più difficile e infatti la gente non va più a votare. L’altro problema che ha oggi la democrazia è la qualità della classe dirigente politica che è sempre più scarsa proprio quando avremmo bisogno di maggiori competenze. Senza la politica il potere della finanza e dei centri di diffusione delle informazioni è senza freni: lo vediamo già oggi con Musk che si muove come fosse il vero presidente degli Stati Uniti, e per molti aspetti lo è.
Dove devono stare i cattolici in politica?
In un mondo che cambia anche la chiesa cambia e il suo ruolo nella società. Oggi i cattolici non esprimono più un’egemonia culturale, non sono in grado di innervare la società con i propri valori. Il problema non è dove collocarsi ma che ruolo giocare in una società che non è più quella di cinquant’anni fa ma neppure di dieci o quindici. Bisognerebbe prendere spunto dalla civilizzazione cinese che è di carattere sapienziale più che confessionale. In questa prospettiva il problema di “dove stare” si relativizza molto.
Che giudizio dà di Giorgia Meloni?
Ottimo come politica. È riuscita a tenere insieme il centrodestra mentre il fronte opposto è diviso e quindi perde. Pessimo come valori e retroterra culturale da cui sono lontanissimo. In particolare, trovo immorale l’approccio viscerale, emotivo, populista alla soluzione dei problemi. Così si estremizzano le divisioni nella società ma non si amministra. Per governare ci vuole il consenso più ampio possibile. Ringrazio il Presidente Sergio Mattarella perché fa quasi da solo quel lavoro indispensabile di cucitura tra istituzioni e opinione pubblica senza il quale il Paese va in pezzi.
Le piace ancora Milano?
Si, a condizione di aver presente che è un’altra cosa dalla città che abbiamo conosciuto e in parte costruito noi. Quella straordinaria alleanza tra ceti popolari e borghesia imprenditoriale nel nome dell’innovazione e della ricerca del benessere, quel patto sociale che ha fatto grande Milano e così diversa, ad esempio, da Torino,non lo vedo più o quasi più. La città dell’Area C che vota a sinistra e guarda ai diritti dall’alto di un benessere spesso ereditato non riesce più a dialogare, a entrare in sinergia con la Milano delle periferie, dei ceti popolari e dei milanesi di nuova acquisizione. Chi amministrerà dovrà ridare un compito, una missione a questa città: una nuova stagione del regionalismo che tenga insieme il Paese e lo porti (o lo riporti) in Europa. Questa cosa la può fare solo Milano.
A un giovane che oggi voglia fare politica che consiglio può dare?
Di impadronirsi degli strumenti di comunicazione moderni. Per acquisire una leadership oggi bisogna padroneggiare i social, internet, l’intelligenza artificiale. E bisogna aiutare la gente a distinguere tra vero e falso, tra propaganda e verità. La competenza oggi si gioca innanzitutto sul versante della comunicazione.