Iolanda Romano, architetta con un dottorato di ricerca in politiche pubbliche per il territorio, esperta in metodi di progettazione partecipata e gestione dei conflitti, e fondatrice nel 1992 di Avventura Urbana, società impegnata nella conduzione di processi di democrazia deliberativa per le politiche pubbliche, in vent’anni ha progettato e condotto più di 250 processi partecipativi in scala locale e nazionale. Insieme a lei, Fondazione Bassetti ha affrontato il tema di come si possano innovare responsabilmente istituzioni di governance e strutture rappresentative.
- “No innovation, without representation” è un assunto condiviso da politologi, sociologi e filosofi della tecnologia (alcune riflessioni si possono scovare anche navigando nell’archivio di Fondazione Bassetti), che rivendica la necessità del coinvolgimento di tutti i soggetti nei processi di decisione sui temi di innovazione, sia tecnologica, che sociale o politica. Può dirci brevemente perché, tanto più in questo momento storico, la partecipazione di cittadini e cittadine è ormai indispensabile?
Banalmente, perché ce lo chiede l’Europa. Il Piano d’azione per la democrazia adottato dalla Commissione europea nel 2020 esprime una forte richiesta di rafforzamento della nostra democrazia in rapporto a quella di altri Paesi, e a dicembre 2023 è stato redatto un documento che comprende una raccomandazione della Commissione Europea per incardinare i processi deliberativi, quindi la partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni della società civile, nell’elaborazione delle politiche pubbliche. È la prima volta che c’è una richiesta esplicita, non solo un’incentivazione, agli Stati membri, e che l’approccio deliberativo e trasformativo diventa una reale opportunità per migliorare la democrazia rappresentativa. In Italia, per esempio, abbiamo da poco indetto un primo confronto partecipativo e un percorso di co-creazione sulle Linee Guida nazionali per la partecipazione, un’iniziativa che fa parte del Piano d’azione del Governo aperto dell’Italia, a dimostrazione che il nostro Paese, almeno nei progetti di Open Government, non è il fanalino di coda. L’Italia è uno dei Paesi con più una delle più ampie gamme di esperienza, 30 anni di progetti a livello locale e regionale: la Toscana ha dal 2006 una legge sulla partecipazione all’elaborazione delle politiche, così la Puglia e l’Emilia Romagna. Quello che manca è un quadro di riferimento, mentre la politica e le organizzazioni spesso fanno resistenza. Eppure, oltre il contesto internazionale a spingerci in questa direzione, c’è anche una forte spinta dal basso: i cittadini vogliono partecipare e le amministrazioni sanno che le decisioni non condivise rischiano di non vedere la loro realizzazione, tanto più che le compensazioni economiche degli anni Settanta non ci sono più.
L’Italia è uno dei Paesi con più una delle più ampie gamme di esperienza, 30 anni di progetti a livello locale e regionale
- Oggi il fascino della democrazia diretta, che pure ha una sua storia, ha riacquistato forze nelle nostra società , così come il mito della disintermediazione che, grazie alla tecnologia, pare a portata di mano. Carl Schmitt già a fine degli anni Venti, osservava: “Potrebbe immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la propria abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura”. Siamo a questo punto? Oppure è utile restituire il senso compiuto, la complessità, di un concetto esposto a semplificazioni e fraintendimenti?
Un vero processo deliberativo richiede che i partecipanti, anche non esperti, siano informati e che ci sia un processo critico di discussione facilitato da moderatori professionisti: si può discutere su temi su cui ci si è preparati in anticipo, pur con cittadini estratti a sorte. Attraverso questi due ingredienti le persone apprendono, capiscono, e di solito riescono a trovare un terreno in comune: la così detta terza opzione. Al contrario del pensiero comune, la democrazia deliberativa non è aggregativa ma trasformativa, la condivisione che anima la partecipazione non significa ricerca di consenso, ma aver fatto uno sforzo, di ascolto e conoscenza, per progettare meglio un intervento risolvendone le conflittualità. Tutti i processi partecipativi sono esplorativi e non hanno niente a che fare con il conteggio della preferenza, non affermano le singole posizioni ma mettono le persone in condizioni di dare il meglio. Detto questo, diverso è il concetto di democrazia e di dibattito che passa dai social media o nei dibattitti televisivi, evidentemente concepiti da chi non sa che esistono queste pratiche deliberative o che persegue un fine diverso, quello di spettacolarizzare lo scontro. Qui prevalgono modalità e conversazioni basate sulla contrapposizione, in cui si cerca la polarizzazione delle posizioni. Questo approccio può avere senso in alcuni casi in cui si propone un’alternativa netta, è il caso di temi come l’aborto o il nucleare, ma non è applicabile per le politiche pubbliche, che affrontano temi complessi come la mobilità, la sanità o la scuola. Il problema vero però è che, mancando la conoscenza e consapevolezza degli strumenti che consentano una vera partecipazione democratica, anche noi, come cittadini e cittadine, non siamo in grado di decidere che tipo di democrazia vogliamo.
- Helene Landermore, autrice di Open Democracy, è tra i fondatori di DemocracyNext, una fondazione che lavora per accelerare la diffusione di assemblee di cittadini permanenti, o di altre pratiche che consentano dal basso di risolvere la crisi dei sistemi di governance che non riescono più ad affrontare questioni difficili e complesse. La diffusione di queste pratiche passa dunque da organizzazioni della società civile; quali sono i luoghi del sapere di questa innovazione?
I luoghi del sapere sono ancora poco attrezzati, le esperienze accademiche poche e divise, almeno in Italia, ma ci sono come abbiamo visto Regioni e leggi nazionali che possono avere una funzione di leva. Noi conosciamo le pratiche, ma facciamo fatica a innovare le istituzioni, e quando le pratiche non si radicano nelle istituzioni è difficile che si produca un impatto reale, una vera innovazione. In Francia, per esempio, esiste una Commissione nazionale dibattito pubblico che è un’autorità indipendente in grado di gestire tutti i processi deliberativi a livello nazionale, e il CESE, Conseil économique, social et environnemental, che è una sorta di terza camera del parlamento che rappresentata le organizzazioni della società civile, realizza pratiche, e produce raccomandazioni a beneficio dello stesso parlamento. Noi abbiamo avuto una Commissione nazionale sul dibattito pubblico per le grandi opere istituita presso il Ministero delle infrastrutture che è stata chiusa dopo due anni. Il che ci dice che manca un vero investimento a livello nazionale.
Non sono i metodi o gli strumenti in sé a funzionare, ma i processi. Quindi è importante prima disegnare il processo e poi usare lo strumento migliore per la politica in oggetto.
- Eppure a novembre 2021, l’OCSE ha contato quasi 600 assemblee dei cittadini per il processo decisionale pubblico in tutto il mondo, assemblee che affrontano questioni politiche, ambientali e climatici, di pianificazione urbana, di investimenti nelle infrastrutture… Sembrerebbe una sorta di innovazione silenziosa nelle istituzioni di governance e nelle strutture rappresentative…
Non condivido totalmente le considerazioni sull’”onda deliberativa” di Ocse. Le assemblee dei cittadini con partecipanti tirati a sorte piacciono ai ricercatori, ma non è detto che si adattino a tutti i contesti, più o meno complessi, e soprattutto non sono l’unica pratica per assicurare la partecipazione dei cittadini. Strumenti come il consensus building ritengo siamo più interessanti, anche perché il campione estratto a sorte è utile in alcuni casi ma non in altri. Per alcune politiche è necessario, infatti, che siano coinvolti stakeholder che non possono essere esclusi in nome di una presunta neutralità. Alcune forzature, infatti, danno risultati di processi deliberativi “in vitro” che non corrispondono ai conflitti, spesso molto alti, agiti nella realtà. In definitiva, non sono i metodi o gli strumenti in sé a funzionare, ma i processi. Quindi è importante prima disegnare il processo e poi usare lo strumento migliore per la politica in oggetto. Nel caso della Assemblea di cittadini, formata interamente da sorteggiati, che nel 2016 elaborò un testo sull’eliminazione dalla Costituzione irlandese del divieto di aborto, la proposta emersa fu sottoposta a un normale referendum, che la confermò.
La gestione dei conflitti pubblici e la pianificazione partecipata è una grande innovazione anche nella gestione delle risorse, e in termini più generali, un beneficio per la vita democratica
- Una delle ricerche di Landermore riguarda l’uso di alcuni modelli di intelligenza artificiale per facilitare la consultazione dei cittadini, cosa ne pensa?
Io stessa ho sperimentato l’intelligenza artificiale per la sintesi di 22 mila contributi da analizzare in un recente processo che ho coordinato. Il problema è che uno degli aspetti fondamentali della restituzione del processo a chi ha partecipato sta nella sua tracciabilità, ovvero nello spiegare come si è arrivati a quel risultato, cosa che per ora con questi modelli non è possibile. Inoltre, avendo affiancato a questa sperimentazione un team di cinque persone, ho potuto verificare che, se il risultato poteva essere simile, mancava del tutto il senso del processo di sintesi. Landermore si riferisce ad alcuni nuovi software che possono favorire il confronto tra molteplici voci diverse e lontane, ma nella mia esperienza, mentre tutto è sostituibile, la capacità trasformativa di una conversazione con degli esseri umani guidati da un facilitatore è unica. Inoltre, i grossi bias in termine di genere e intersezionalità permangono, mentre da esperta ho scovato non pochi elementi che risultavano presi fuori dal contesto, quasi “inventati”… Ciò detto, il potenziale è enorme.
Disperdere questo tipo di esperienze non significa solo sprecare capitale umano, ma non rispondere a una domanda di 'nuova' democrazia che si sta levando non solo nel nostro Paese.
- Quanto tutto questo ha a che fare con un cambiamento della gestione, o a uno slittamento del potere?
Il potere, inteso come autorità decisionale, non è direttamente correlato con queste pratiche, la democrazia deliberativa non è questione di cessione di potere. Chi decide di intraprendere questo processo ha la possibilità di assumere un ruolo temporaneamente diverso, come quello di un arbitro, e non un giocatore in campo: si mette in ascolto e solo al termine, dopo aver compreso meglio le soluzioni possibili al problema, riprende le redini. Intorno alla democrazia deliberativa continuano a formarsi falsi miti, uno dei quali è proprio che porti a una “cessione del potere”. L’altro, è che i cittadini non siano in grado di capire i problemi complessi, mentre, se ben informati, i cittadini sono in grado di discutere di ogni cosa.
- Le sue esperienze con Avventura Urbana, o come Commissario straordinario del governo per la linea ad alta velocità Terzo Valico dei Giovi, lo confermano?
Nel caso del Terzo Valico, ho dedicato tre anni all’intero processo. Credo che parte del successo di quell’esperienza sia attribuibile all’autorità smisurata che mi era stata concessa, autorità che ho deciso di non utilizzare, facendo scrivere in modo esplicito sul decreto di nomina che avrei agito in piena autonomia, anche dal Governo, e in nome dell’interesse pubblico, come una terza parte. Così ho potuto decidere le priorità dei temi su cui discutere, gli strumenti per affrontarle – ci sono stati tavoli di confronto, momenti pubblici di partecipazione, ciclo-camminate -, e come giocare il ruolo di mediatrice nei conflitti tra le diverse parti in gioco senza sposarne una in particolare. Trattandosi di grande opera, il buon risultato è facilmente verificabile e coincide con la sua realizzazione. In caso contrario, basti pensare alla Torino-Lione, si hanno cantieri militarizzati, lavori che rallentano e costi che lievitano. La gestione dei conflitti pubblici e la pianificazione partecipata è una grande innovazione anche nella gestione delle risorse, e in termini più generali, un beneficio per la vita democratica garantendo cittadini meglio informati e meno inclini all’astensionismo, ma devo dire che, nonostante la ricchezza di figure professionali presenti nel nostro Paese, questo non è diventato un modello da adottare. Disperdere questo tipo di esperienze non significa solo sprecare capitale umano, ma non rispondere a una domanda di “nuova” democrazia che si sta levando non solo nel nostro Paese.