Lunedì 10 giugno, presso la nostra sede, Stefano Boeri ha presentato il libro di Paolo Perulli Anime Creative. Da Prometeo a Steve Jobs edito da Società editrice il Mulino. Insieme all’urbanista e presidente della Triennale ne hanno parlato la senatrice Cristina Tajani e il nostro presidente Piero Bassetti.
«Di fronte alle traiettorie globali che interessano l’organizzazione sociale e l’organizzazione istituzionale, le nostre società stanno provando a darsi nuove organizzazioni. La “classe creativa” non ne è indifferente. In “2050 Passaggio al nuovo mondo” (2021, il Mulino ed) Perulli aveva già constatato il fatto che, con una classe media emergente o impoverita a seconda delle geografie di appartenenza, i creativi del mondo non fossero in grado di farsi classe generale, ovvero come, pur dotati di potenzialità, rimanessero sostanzialmente privi della politica e del potere utile ad affermarsi come tale. E oggi? In un mondo in cui non sappiamo ancora rispondere alla domanda “A quale sapere andrà il potere?”, quale ruolo ha e avrà la creatività?». Nell’introduzione di Francesco Samorè c’è il senso dal punto di vista della fondazione della discussione intorno al nuovo libro di Paolo Perulli. Perché, come dirà Piero Bassetti quasi a chiusura del dialogo: «I creativi non sono che creatori di potere, parola che però nel libro manca. Per la Fondazione, la domanda da porsi, considerando che il mondo in cui viviamo vive una palese assenza di guida, è chi addossa su di sé la responsabilità dell’atto creativo. La politica, intesa come luogo di produzione ed esercizio del potere, è o dovrebbe essere il momento di responsabilizzazione, ma al momento sembra incapace di operare una sintesi, di restituire il senso per un bene comune. Un senso un tempo garantito dalla religione, successivamente dallo Stato… Nella crisi del ruolo dei creativi si può leggere quindi anche la crisi della democrazia, la crisi di un principio ordinatore; come dunque costruire la statualità che la potenza creativa dell’Occidente comanda? Come si politicizzano le anime creative?».
In un mondo in cui non sappiamo ancora rispondere alla domanda “A quale sapere andrà il potere?”, quale ruolo ha e avrà la creatività?
Liberare la parola “creatività” da cliché e stereotipi appare una necessità richiamata più volte durante la discussione. Lo afferma Stefano Boeri citando il famoso libro di Richard Florida (La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, Mondadori, 2002) che l’aveva definita secondo la formula delle 3T: Talento, Tecnologia, Tolleranza. L’influenza di questa visione in campo urbanistico, socio urbanistico e di economia urbana, e sul modo con cui le città in competizione (e qui la citazione va a Le città nell’economia globale di Saskia Sassen, il Mulino, 2010) sanno attirare, ospitare e dare una prospettiva di vita a questa classe di creativi, è stata forte, mostrando nel tempo il suo limite. Dice Boeri: «Perulli fa un’operazione di sostanziale decostruzione del concetto di creatività, distinguendo il processo di creazione da quello della creatività e chiedendosi quale sia, oggi, un suo possibile canone, capace di superare le differenze dovute a geografia, storia e geopolitica. Si spiega così la sua ricerca a ritroso nel tempo, rintracciata nei così detti archetipi (Faust e Nietzsche), nella storia sociale degli intellettuali, nelle città che li hanno accolti (la Parigi della contaminazione delle arti, la New York dell’inizio XX secolo, e la San Francisco dei garage dove nasce la straordinaria accelerazione digitale), e nella biografia dei creativi (da Baudelaire a Saul Steinberg e Steve Jobs) che hanno popolato l’umanità».
Lo sguardo in avanti rispetto alla definizione di questa “nuova” classe creativa, lo propone invece la senatrice Cristina Tajani: «Il testo pare muoversi se su due letture; una orizzontale che è quella della geopolitica della creatività con una grande attenzione alla questione delle aree urbane, terreno privilegiato di creazione e di ospitalità dei creativi; e una verticale che si sofferma sull’origine dell’atto creativo. Ed è proprio il particolare impatto che le nuove tecnologie agiscono su di esso a richiedere una riflessione. Non è un tema nuovo, basti ricordare Walter Benjamin e L’opera d’arte. Nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), ma è un tema che ora evidenzia una svolta, un salto di scala. Oggi le neurotecnologie, cioè quelle tecnologie che si pongono come interfaccia tra la nostra attività cerebrale e i diversi strumenti e dispositivi di calcolo, non sono solo in grado di riprodurre la nostra capacità creativa, ma posso anche influenzarla. In altre parole, la tecnologia può interferire con i nostri processi cerebrali, talvolta anche potenziandoli, ma in ogni caso modificandoli. Si tratta di un orizzonte inesplorato che interviene alla radice dell’atto creativo e che, anche nella relazione tra potere e sapere, propone una dimensione tutta da esplorare».
Se ancora crediamo che ci possa essere una responsabilità nell’innovazione, forse la sfida è diventare creativi nel riprendere o nel reinventare quella funzione fondamentale che è la guida del potere
Una tecnica capace di interferire con la “capacità di pensare”, e che porta a chiedersi se il creativo potrà essere ancora il creatore di Nietzsche che “rompe le tavole della Legge”, che inventa un nuovo diritto, che fa emergere il “nuovo” trasgredendo i confini disciplinari, e creando scuole di pensiero, dall’economia all’architettura, perché la creatività si può insegnare, sostiene Perulli. «Il dono prometeico è la prima origine della creatività, come lo è il puro spirito di ricerca legato al Faust su cui si innesta la storia culturale dell’Occidente», dice il sociologo. Che per il futuro propone quattro scenari in cui cercare una possibile risposta sul “destino” della creatività: l’estremo occidente, ovvero il limite del pensiero occidentale e della sua modernità, della sua pretesa dominatoria su Natura e Pianeta; l’astro capitalismo, ovvero il continuum di una postura colonizzatrice esportata su nuovi pianeti; l’Oriente, una riserva di creatività che non contempla la contrapposizione tra Natura e Cultura, che però è diventata nei fatti una fabbrica di riproduzione in cui la creatività è fisicamente messa in prigione; e il Sud del mondo, la scommessa finale, dove vive ¾ della popolazione mondiale custode di un pensiero tutto da conoscere, il “mare aperto” evocato dallo scrittore, poeta e saggista, della Martinica, Édouard Glissant.
Oggi, che è quanto mai necessario liberarsi dall’aura di effimero che circonda la parola creatività, la risposta deve muoversi nel territorio, nello spazio concreto dove le cose ci sono e sono tangibili
Quale è dunque la sfida da lanciare alle anime creative, si interroga in chiusura Piero Bassetti: «Se ancora crediamo che ci possa essere una responsabilità nell’innovazione, forse la sfida è diventare creativi nel riprendere o nel reinventare quella funzione fondamentale che è la guida del potere». A cui controbatte Stefano Boeri: «C’è bisogno un pensiero creativo che ci faccia capire cosa sta succedendo nel corpo sociale dell’umanità, sul ruolo dell’intelligenza creativa rispetto alla grande sfida ambientale. Oggi che l’intelligenza artificiale arriva con sua potenza, che è quanto mai necessario liberarsi dall’aura di effimero che circonda la parola creatività, la risposta deve muoversi nel territorio, nello spazio concreto dove le cose ci sono e sono tangibili. È un invito a una forma di operatività, lontana sia dalla postura estrattiva della nostra cultura che dalle zone di confort dell’ecologia progressista, e che comprende anche la possibilità di fallimento, ché nell’innovazione c’è anche il fallimento».