Quanto è importante, di fronte al presunto strapotere della tecnologia, tornare a porci le domande fondamentali sull’essere e il destino dell’Umano? Marta Bertolaso, docente di Filosofia della scienza e dello sviluppo umano all’università Campus Bio-Medico di Roma, insieme ad Alfredo Marcos, professore di Filosofia e storia della scienza all’università di Valladolid, ha appena pubblicato con Carocci editore Umanesimo tecnologico. Una riflessione filosofica sull’intelligenza artificiale. Con lei abbiamo scambiato alcune riflessioni per i nostri Dialoghi su responsabilità e intelligenza artificiale
- Per cominciare: cosa è l’intelligenza? Quali ipotesi filosofiche ci possono aiutare a definire meglio l’umana e l’artificiale? Nel libro per altro suggerisce di usare definizioni come intelligenza assistita, strumenti di supporto decisionali o sistemi di controllo delegato CoDe…
Da un punto di vista filosofico l’intelligenza umana è stata sempre oggetto di riflessione. Aristotele, per esempio, definisce l’Uomo come “desiderio intelligente”. I riferimenti alla sua capacità razionale, di astrazione e di modellizzazione del reale attraverso la tecnica, l’abilità di dare un nome alle cose, sono una costante nel Pensiero fin dall’antichità, il che ci dice anche che l’essere umano è naturalmente tecnico in quanto capace di dare forma a un pensiero astratto. Semplificando, possiamo dire che è con Cartesio che si compie una separazione di cui ancora soffriamo, rendendo plausibile la riduzione dell’intelligenza ad attività disincarnata, mera estensione, datizzabile. Ecco allora che nell’AI adottiamo una nozione ristretta di intelligenza che fa riferimento alle sole capacità di computazione tipiche della nostra razionalità, ma non le uniche. L’elemento nuovo consiste se mai nell’amplificazione, conseguenza della grande potenza nell’elaborazione e correlazione di dati, del nostro pensiero scientifico. Questo potenziamento ci dà accesso a nuove dimensioni di realtà impattando, causa anche la velocità e la pervasività che lo caratterizza, sulla percezione del reale e di noi stessi. Ciò significa che ogni questione sull’intelligenza artificiale ricade non tanto sulla tecnica, quanto sulla comprensione dell’Uomo. Le domande più pressanti diventano quindi di senso, antropologiche, sociali, e filosofiche.
La scoperta della penicillina non è stata il frutto di più dati, ma della capacità di una persona di guardare alle cose in modo diverso, di riformulare domande in virtù delle intuizioni, dei fattori emotivi e valoriali dello scienziato.
- Dai tempi di Copernico e Galilei è la scienza a mettere in discussione la struttura stessa dell’universo e dell’Uomo. O, come ricorda Carlo Rovelli: “La scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni. La scienza è attività innanzitutto visionaria”. Perché oggi diventa quasi una necessità filosofica formulare una nuova prospettiva scientifica che includa risposte non solo tecniche, ma anche di senso profondo?
Penso sia indispensabile uscire da paradigmi tecnocratici e riduzionisti che ci hanno fatto credere che la tecnologia sia capace da sola di dare risposte a ogni cosa. Il mondo è ancora da scoprire, e non lo si farà attraverso meri dati, ma con pensiero critico, capacità di astrazione e di intuizione. Dobbiamo tornare, anche a livello universitario, a formulare domande rilevanti, di senso. Solo così acquisiremo quello sguardo utile a intuire il “nuovo”. La scoperta della penicillina non è stata il frutto di più dati, ma della capacità di una persona di guardare alle cose in modo diverso, di riformulare domande in virtù delle intuizioni, dei fattori emotivi e valoriali dello scienziato. Scienziato che oggi sempre di più deve sentirsi parte di una comunità, capace di lavorare insieme… invece la scienza contemporanea è spesso ridotta a mera applicazione tecnologica e non affronta le questioni fondamentali che pure osserviamo. Si sofferma su come i processi si realizzato, ma a fatica si interroga sul perché questi fenomeni si diano. È evidente che alcune categorie classiche ereditate dai paradigmi tecnocratici e riduzionisti non ci consentono di andare oltre o di dare risposte veramente efficaci alla complessità del mondo reale.
- È questo quello che intende quando scrive che: “La mancanza di una precedente riflessione sui presupposti ontologici ed epistemologici alla base dello sviluppo dell’intelligenza artificiale è un serio ostacolo alla formulazione di linee guida efficaci”. Quindi la filosofia dovrebbe servire anche per pensare a una regolamentazione efficace?
Senz’altro. È una riflessione portata avanti anche a livello globale. La domanda che ci si pone è se, con tale accelerazione tecnologica, si debba regolamentare ogni situazione possibile, dalla salute alla finanza, o se esista un altro modus operandi da sviluppare collettivamente. Moltiplicare a dismisura i diritti, per ogni ruolo che può assumere ogni individuo fino alle macchine, non è una linea perseguibile considerata la velocità dell’innovazione. Né possiamo normare tutto a priori senza aver sperimentato e osservato prima. Le ragioni filosofiche suggeriscono invece che sia più fecondo tornare a riflettere su diritti fondamentali, sui principi che ci contraddistinguono in quanto comunità umana. Allo stesso tempo, bisogna formare le nuove generazioni a un uso responsabile – prudente – delle nuove tecnologie. Tutto questo porta a riflettere più sull’“umano” e a lavorare affinché le soluzioni scelte e attuate siano davvero a misura d’Uomo e quindi sostenibili.
- Si torna alla domanda filosofica fondamentale. Chi è l’essere umano? Dove sta andando? Tanto più che le profonde trasformazioni che scorgiamo all’orizzonte indotte dall’intelligenza artificiale sembrano generare un disorientamento tale da minare identità e natura stessa della specificità umana, previsioni catastrofiste come la “fine dell’umanità” comprese…
Nel dibattito attuale sull’intelligenza artificiale tutti usano la parola “etica” senza considerare che si possono avere riferimenti antropologici diversi. In genere lo si fa invece adottando paradigmi individualistici e dove le regole, di fatto, sono determinate da mercato e profitto. In questo modo, gli scenari catastrofici sono solo un epilogo ineludibile. Perché la verità è che stiamo pressando l’umanità dentro un paradigma meramente funzionalista che non ci appartiene. Quindi, o prendiamo sul serio ciò che la Natura ci sta restituendo in termini di crisi ambientali e sociali, pandemie comprese, e ascoltiamo il desiderio del cuore umano nel profondo, o la strada è segnata. Da anni il magistero della Chiesa ci parla di Ecologia Umana, e del fatto che l’Uomo non può pensarsi in modo autoreferenziale. Altrettanto evidente è la sensibilità per visioni integrate e sistemiche che proviene da altre culture orientali. L’appartenenza al mondo, la nostra dipendenza da esso – sia nella sua dimensione ambientale che comunitaria – è nella natura dell’Uomo: una dipendenza che genera vulnerabilità, ma è proprio nella dimensione della vulnerabilità, nei vincoli identitari che ne conseguono, che possiamo riscoprire le radici della nostra identità. Abbiamo voluto, nella ricerca di un’assoluta autonomia, liberarci da essi, ma così facendo abbiamo perso quella relazione generativa e intelligente dentro la quale avremmo potuto trovare, e possiamo farlo, uno spazio per essere in relazione adeguata anche con le macchine. Una filosofia della vulnerabilità e della cura amplierebbe la nostra ragione, la nostra sensibilità e i nostri obiettivi sociali, e magari ci aiuterebbe a bypassare scenari postumani che prefigurano una Terra governata da robot intelligenti in cui l’uomo soccombe.
Se l’unico scopo è l’“oltre”, e in genere si tratta di un “oltre” definito secondo paradigmi prestazionali e funzionalistici, in base a cosa io giudicherò cosa è lecito e giusto e cosa no? Quale sarà il mio riferimento valoriale? C’è bisogno di presenza umana, la sapienza del cuore citata da papa Francesco, di un paradigma e antropologia relazionale e non tecnocratico per ricostruire i nostri vincoli sociali.
- Nella re-invenzione dell’essere umano rientra infatti la rinnovata attenzione per il transumanesimo, termine coniato nel 1957 da Julien Huxley, biologo, genetista e scrittore britannico. Nella Carta dei principi dei transumanisti italiani si legge che: “L’umanità sarà radicalmente trasformata dalla tecnologia del futuro. Prevediamo la possibilità di ri-progettare la condizione umana in modo di evitare l’inevitabilità del processo di invecchiamento, le limitazioni dell’intelletto umano (e artificiale), la nostra prigionia sul pianeta terra e la sofferenza in generale”. Quante volte l’essere umano si è trovato a credere in questa evoluzione superiore? E con quali conseguenze?
Abbiamo già visto l’epilogo di questa ricerca di un super Uomo. Bisognerebbe riflettere sul perché continuiamo a farlo. Il teologo Paolo Benanti risponderebbe che in fondo si tratta della naturale aspirazione dell’essere umano alla salvezza. Una necessità di redenzione indirizzata però in modo sbagliato: pensiamo di affidarla allo sviluppo tecnologico, invece di cercarla dando una risposta alla domanda più profonda del nostro cuore. Rischiamo così di delegare a questi enti “stupidi” questioni fondamentali dell’esistenza. Ecco perché definirle non come “intelligenti”, ma Sistemi di Controllo Delegato (DeCo) ci aiuterebbe ad assumerci la giusta responsabilità nelle decisioni che dovremo prendere. Solo l’essere umano può percepire il limite, capire il silenzio che spesso mediano le decisioni più importanti e la condivisione delle stesse. Limite e silenzio per noi sono semanticamente rilevanti, per la macchina, solo assenza di dati. Quindi, e qui ci viene in aiuto il filosofo tedesco Hans Jonas, non si tratta di aspirare al superamento di noi stessi, ad andare “oltre” perdendo il riferimento assiologico, ma di chiedersi per quale vita e per quale Uomo noi stiamo lavorando. Se l’unico scopo è l’“oltre”, e in genere si tratta di un “oltre” definito secondo paradigmi prestazionali e funzionalistici, in base a cosa io giudicherò cosa è lecito e giusto e cosa no? Quale sarà il mio riferimento valoriale? C’è bisogno di presenza umana, la sapienza del cuore citata da papa Francesco, di un paradigma e antropologia relazionale e non tecnocratico per ricostruire i nostri vincoli sociali.
- Prudenza e responsabilità, due principi richiamati nella Dichiarazione di Barcellona per il corretto sviluppo e uso dell’intelligenza artificiale, ma anche da Gianfranco Ravasi nella sua riflessione del rapporto tra umanesimo e tecnologia* (Digito, chatto, ergo sum, da Il sole 24Ore), possono quindi essere assunti come principi cardine per le decisioni sul futuro dell’Uomo? Strumenti utili a fare le giuste scelte?
Il tema della responsabilità è di grande attualità scientifica. Ora più che mai dobbiamo decidere in che modo le conseguenze delle nostre azioni, dalla possibilità di aumentare la durata della vita a esplorare l’universo, possono contribuire veramente al bene comune. Torniamo ancora a Hans Jonas e al suo criterio di giudizio sull’agire tecnico umano basato proprio sulla prudenza (Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi). La responsabilità è uno spazio umano di libertà, il luogo in cui siamo chiamati a formulare il concetto di umanità da salvaguardare. Così prudenza non significa stare fermi, ma costruire obiettivi condivisi e perseguirli in modo informato, senza dimenticarsi che l’essere umano non può mai essere considerato una “cosa”. Simone Weil diceva che prima ancora del diritto, bisogna riflettere sull’assunzione dei doveri che appartengono in primo luogo alla nostra coscienza, un dovere verso sé stessi, gli altri e il mondo (Il radicamento. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, ndr). In un mondo in cui si fa innovazione spesso solo perché è possibile, dovremmo chiederci in quale misura questo processo sia sostenibile per le persone e la società nel suo insieme. La nostra più grande sfida è far diventare cultura e nuova soluzione, anche economica e di innovazione, ogni riferimento valoriale ed etico che vogliamo rappresentare e difendere. È un momento prezioso per lavorare a un rinnovato concetto di ‘impresa umana’.
* “Le riflessioni su un nuovo umanesimo digitale sono molto suggestive e costituiscono il nerbo dell’intera ricerca che si affida al discernimento posto all’insegna di due stelle di riferimento, la prudenza e la responsabilità. Quest’ultimo termine è particolarmente significativo perché implica un “rispondere all’altro” e non solo a sé stessi, provocando così il superamento di un’antropologia individualista. Si configura in tal modo la necessità della relazione nella sua triplice ramificazione: verso l’altro/diverso, verso il creato e, in sede religiosa (ma non solo), verso il trascendente, l’oltre”.