Andrea Gaggioli, professore ordinario di Psicologia Generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, è direttore del Centro Studi e Ricerche di Psicologia della Comunicazione dell’International Master in User Experience Psychology. I suoi principali filoni di indagine riguardano la psicologia dell’esperienza e le sue applicazioni (nell’analisi e nel design di artefatti digitali – User Experience) e lo studio della creatività individuale e di gruppo. Con lui, per i dialoghi di Fondazione Giannino Bassetti su Responsabilità e Intelligenza Artificiale, abbiamo parlato dell’interazione uomo-macchina, e delle implicazioni psicologiche sui processi mentali e sui comportamenti.
- Al centro di diversi suoi progetti di ricerca e sviluppo c’è l’interazione uomo-computer, interpretata alla luce di quella che lei definisce Positive Technology. In un momento in cui l’ambivalenza del rapporto con le nuove tecnologie sembra esasperato, oscillando tra determinismo tecnologico o facile ottimismo, cosa significa aspirare a un rapporto sereno con la tecnologia?
La Tecnologia Positiva è un dominio interdisciplinare che combina psicologia, tecnologia e design per promuovere esperienze, emozioni e comportamenti positivi negli individui. Ho scelto questo termine perché credo sia necessario legare l’impatto della tecnologia sulle nostre vite al benessere mentale e perché, considerato il rapporto ambivalente che viviamo, credo che la psicologia abbia risorse e strumenti utili per la società attuale. La cornice di riferimento è quella della psicologia positiva, che non si focalizza solo su patologie o disagi comportamentali, ma guarda alle risorse degli individui, come le emozioni positive, la forza del carattere, la creatività, la spiritualità, la capacità di costruire significato… Non si tratta di guardare il mondo attraverso lenti rosa, ma di equilibrare una visione catastrofica diventando consapevoli dei fattori che influenzano il benessere, sia in termini di prevenzione che di progettazione. Ciò significa utilizzare i risultati della psicologia positiva per migliorare lo sviluppo delle tecnologie e, naturalmente, l’interazione tra uomo e macchina. L’obiettivo è progettare strumenti che apportino un reale beneficio collettivo: si possono utilizzare captologia e tecnologia persuasiva non solo per spingere all’acquisto di prodotti, ma anche per sviluppare ambienti virtuali che promuovano la sostenibilità ambientale o altri valori positivi.
- Le dinamiche psicologiche, oltre che la dimensione tecnico e ingegneristica o l’avversione verso l’“artificiale”, influiscono sull’accettazione delle nuove tecnologie. Lo stesso Yoshua Bengio si interroga sulle Dimensioni personali e psicologiche dei ricercatori AI in rapporto ai rischi. Come considerare l’effetto di questi fattori psicologici, i processi mentali o le emozioni, elementi che possono includere pregiudizi o generare posizioni rigide, per essere invece incoraggiati verso un approccio più aperto, informato e anche giusto?
Quando noi parliamo di tecnologie parliamo di strumenti, ma per l’essere umano l’aspetto più significativo è l’esperienza che ne fa durante l’utilizzo. L’esperienza è il valore centrale per comprendere la relazione uomo-macchina, un’esperienza che può essere modellata sui bisogni e le aspettative dell’utente grazie alle conoscenze fornite dalla psicologia. Le dinamiche psicologiche che entrano in gioco in questa esperienza sono costituite da diverse dimensioni, sia positive che negative: la dimensione sensoriale, quella percettiva, cognitiva, e anche affettiva o emotiva e motivazionale… Ma quello che è forse più importante considerare è che anche queste dimensioni hanno un profilo evolutivo, e, storicamente, ogni tecnologia ha abilitato nuove dimensioni dell’esperienza. L’invenzione di lettura e scrittura, per esempio, ci ha fatto sperimentare l’immersione in un mondo narrativo, mentre oggi con il metaverso si fa esperienza della presenza in una realtà virtuale o sintetica, un’esperienza che prima non esisteva. Ecco, è indispensabile essere consapevoli che tutte le dimensioni dell’esperienza non sono fisse, ma evolvono insieme alla cultura degli artefatti: solo così potremmo comprenderle meglio e capire come possiamo migliorarle.
- La complessità della mente umana è alla base della configurazione dell’intelligenza artificiale. Si discute molto di reti neurali applicate all’AI, il cui nome è mutuato dal cervello umano, imitando il modo in cui i neuroni biologici si inviano i segnali. Nonostante siano “solo” sistemi di calcolo, questo apre a una certa affinità, affinità che, con tutte le incognite sulla comprensione del loro funzionamento, oggi apre a scenari spinosi. Si parla di messa in crisi della nostra stessa identità sociale e personale, di corruzione, attraverso l’appropriazione del linguaggio, del “sistema operativo della nostra civiltà” (per dirla con Harari), di un possibile radicale cambiamento nelle nostre le relazioni e visione del mondo. Quale ruolo può avere la psicologia per sciogliere, questi interrogativi? Per capire cosa significhi essere “umani”?
Con l’IA l’interazione uomo-macchina, quella che noi chiamiamo user experience, diventa più complessa, ma nella mia interpretazione anche questa nuova interazione rientra nella condizione umana: l’essere umano infatti è un soggetto bio-psico-culturale. Possiamo oggi separare lettura e scrittura dalla condizione umana? Domani sarà la stessa cosa con intelligenze artificiali o metaverso. Non è facile escludere gli artefatti dalla nostra esperienza. Lo spiega Andy Clark nel libro Natural-Born Cyborgs, secondo cui gli esseri umani sarebbero “cyborg per natura”, ovvero: “sistemi le cui menti e identità sono distribuite tra cervello biologico e circuiteria non biologica”. Con l’IA questa estensione dei processi cognitivi, che può generare una diversa rappresentazione del nostro “io” e la dissolvenza dei confini tra ciò che è biologico e non umano, si sta accelerando, ma il fatto è che l’evoluzione delle tecnologie è in continuità con l’evoluzione bio-culturale dell’essere umano. La progressiva confluenza tra uomo e macchina è quindi inevitabile poiché noi costruiamo artefatti proprio per integrarli alla nostra esperienza. Ed è l’esperienza, mi ripeto, che resta l’unità di analisi, il termine pivot. La vera domanda riguarda quindi il modo in cui cambia l’esperienza e la direzione che vogliamo dare a questa trasformazione. Il mio è un invito a ragionare in termini di potenzialità. Conosciamo gli aspetti negativi della tecnologia, soprattutto quando, invece di estendere le nostre possibilità esperienziali le riduce standardizzandole e piegandole a una dimensione di bisogni e consumi; personalmente guardo invece alla teoria dell’“adiacente possibile” di Stuart Kauffman, e quindi agli infiniti spazi di possibilità offerti, le tante porte che posso aprire, che possono aumentare le possibilità rispetto al nostro assetto biologico e moltiplicare la mia libertà futura. Come per altro storicamente è sempre avvenuto con la tecnologia.
- E questa interazione/esperienza con l’intelligenza artificiale può, proprio come l’interazione con altri individui, cambiare comportamenti e comprensione del mondo? Modificare la comunicazione e quindi l’interazione sociale?
Farei attenzione a considerare l’intelligenza artificiale come un territorio da mappare paragonabile alla mente umana. L’IA non è una sua replica e non funziona nello stesso modo. L’ambiguità deriva anche dal fatto che condivide la terminologia con neuroscienze e biologia, ma il neurone umano è fisiologicamente diverso, mentre quello artificiale è semplicemente un’astrazione matematica. Certe assimilazioni o equivalenze, quindi, non hanno fondamento scientifico, con il rischio di commettere un errore simile a quello di identificare la mappa della cartina di Milano con la città di Milano… Anche il confronto tra l’intelligenza umana e quella “sintetica” non è sostenibile, e lo stesso vale per la comunicazione. In che misura, infatti, nel dialogo con un’intelligenza artificiale entra in gioco la dimensione intersoggettiva? La comunicazione umana è costruzione di un terreno di comprensione reciproca, di connessione con il contesto, intersecazione di diversi mondi. Nel dialogo reciproco mettiamo in gioco l’identità, l’aspetto emotivo, non ci scambiamo messaggi ma universi di significato. Sulla possibilità dell’AI di attivare un processo di intersoggettività dialogica c’è ancora molto dibattito, ma molto dipende dal fatto che noi attribuiamo soggettività a un oggetto, individuiamo nell’intelligenza artificiale eventuali stati mentali o emotivi, con complicazioni in termini di trasformazione per la nostra stessa identità.
- La psicologia è uno dei settori in cui più sta crescendo l’utilizzo dell’intelligenza artificiale anche con applicazioni di supporto alla diagnosi dei disturbi psicologici. Questo presupporrebbe che la tecnologia sia di per sé neutra, cosa che sappiamo non essere vera. Quali rischi in un ambito come quello della salute mentale?
È d’obbligo una premessa drammatica: siamo di fronte a una vera pandemia per la salute mentale, un’emergenza internazionale. In Italia, abbiamo le neuropsichiatrie piene, mancano supporto e servizi di base per la fascia giovanile. Quindi, da un lato sono convinto che bisogna usare ogni cautela nel configurare strumenti di IA per gli interventi psicologici, dall’altro, penso che questi strumenti possano dare un aiuto per rendere pervasivo l’aiuto mentale in fasce di popolazione che altrimenti non sarebbe raggiunta. Ciò che intendo è che credo sia necessario attivare una sperimentazione con strumenti ancorati all’evidenza scientifica: adottiamo le dovute cautele, ma non perdiamo l’occasione dell’impatto rivoluzionario che queste tecnologie potrebbero avere per la salute mentale. Il vero problema è se mai la mancanza di competenze. Psichiatria e psicologia sono discipline da sempre distanti dai mondi tecnologici e forse non sono ancora completamente preparate, dal punto di vista ideologico, per sviluppare competenze specifiche in questo settore. Dall’altro lato ci sono alcune iniziative a livello accademico, ad esempio presso l’Università Cattolica stiamo attivando corsi di studio in questa direzione. Dato che il comportamento umano è in gran parte influenzato dalla tecnologia, diventa essenziale costruire ponti con altre discipline e sfruttare appieno le loro potenzialità.