Uno dei bisogni più antichi dell’uomo – quello di conoscere se stessi – e una fra le tecnologie più moderne: l’esame del Dna del singolo individuo. Sono i due ingredienti del libro Go Ask Your Father: One Man’s Obsession with Finding His Origins Through DNA Testing (Bantam Books, 2009), scritto da Lennard Davis, professore di inglese all’Università dell’Illinois di Chicago e studioso eclettico, i cui interessi spaziano dalle biotecnologie alla medicina delle disabilità, dall’arte alle scienze sociali, economiche ed umane, nella convinzione che le tecnologie biomediche potranno avere un ruolo positivo per la società soltanto se sapranno cogliere le istanze espresse dagli altri campi del sapere.
Questa idea, che si concretizza nel progetto Biocultures, è fortemente legata alla vicenda personale di Davis, narrata nel libro con uno stile gradevole, più simile a quello di un romanzo giallo che di un saggio scientifico. Secondo figlio di una famiglia ebrea immigrata negli Usa dall’Inghilterra, l’autore scopre alla morte del padre che il suo genitore genetico è in realtà lo zio, che avrebbe accettato alla fine degli anni ’40 di donare il suo seme per una inseminazione artificiale. La rivelazione, fatta dallo stesso zio – personaggio che il protagonista e la sua famiglia hanno sempre considerato poco affidabile – necessita però di una verifica, che Davis cerca (e infine trova) attraverso il test del Dna.
Ai fini della discussione su responsabilità e innovazione, è significativo far notare che le situazioni paradossali in cui Davis si viene a trovare nel corso della sua ricerca sono tutte figlie dell’assoluta mancanza di regole in cui venivano eseguiti i primi tentativi di inseminazione artificiale, unita a una certa spregiudicatezza dei medici che la praticavano. Così, per esempio, nel susseguirsi di colpi di scena, Davis a un certo punto arriva persino a sospettare che il suo genitore genetico possa essere il ginecologo della madre, dato che alla fine degli anni ’40 non era infrequente per i pochi medici che eseguivano la tecnica utilizzare anche il proprio seme per aumentare le probabilità di successo. Oggi questa e altre procedure seguite dai medici di allora ci appaiono aberranti, ma c’è da chiedersi quale responsabilità possa essere attribuita a coloro che esercitavano la professione in un’epoca in cui il dibattito bioetico era ancora di là da venire. Il tema è emerso anche nel corso della tavola rotonda che si è svolta nella sede della Fondazione Bassetti. E se Davis tende ad assolvere i medici che misero a punto la procedura in assenza di regole, estendendo il concetto anche ad altre discipline, merita tuttavia ricordare come in circostanze diverse alcuni scienziati abbiano saputo riflettere sulle responsabilità a cui li avrebbe vincolati il loro lavoro. Esemplare è il caso del fisico Franco Rasetti che, invitato a partecipare alla progettazione della bomba atomica, rifiutò dopo un’attenta riflessione, dicendo che la scienza non può vendere l’anima al diavolo, sia pure per una giusta causa (e dopo Hiroshima e Nagasaki abbandonò la fisica per dedicarsi alla paleontologia e alla geologia).
Ma la vicenda di Davis apre la strada anche ad altre riflessioni, come per esempio quella dell’immagine che i non esperti hanno delle tecnologie più avanzate. L’autore, infatti, si avvicina alle biotecnologie da profano, riponendo in esse una fiducia quasi cieca (nel libro, il laboratorio dove sono eseguiti i primi test del Dna è chiamato «oracolo di Delfi»). E tuttavia, più si addentra nella conoscenza dei meccanismi della biologia molecolare e ne comprende i limiti, più la sua fiducia vacilla. Questo cambio di atteggiamento è piuttosto frequente nel settore biotecnologico e all’origine c’è anche l’atteggiamento che gli scienziati hanno avuto in passato. All’inizio degli anni ’90, infatti, il lancio del Progetto Genoma Umano richiedeva investimenti importanti, che i ricercatori riuscirono a ottenere anche affermando che il sequenziamento del Dna umano avrebbe generato enormi progressi in campo medico. Questa eccessiva enfasi ha generato aspettative forti e ancora diffuse nell’immaginario comune. Venti anni dopo, peraltro, i presupposti su cui quelle affermazioni si basavano non sono caduti, ma le applicazioni concrete del Progetto Genoma sono ancora molto poche rispetto a quanto anche i ricercatori più prudenti si aspettassero.
Nel percorso che Davis compie, tuttavia, avviene anche che i dubbi sulle potenzialità delle biotecnologie emergano in parallelo con la consapevolezza che una tecnologia, per quanto avanzata, non possa dare risposte alle domande esistenziali dell’uomo. Nel caso di Davis, queste vanno invece cercate nella storia della sua vita e nel rapporto con i genitori e con il padre: «all’inizio avevo effettivamente fiducia nel fatto che il Dna mi avrebbe detto chi era mio padre e chi sono io» ha affermato l’autore, «alla fine il risultato non è più interessante». Per contro, dalle biotecnologie Davis capisce di poter ottenere risposte che inizialmente non cercava, in particolare sulla sua predisposizione a determinate malattie e sull’origine più antica della sua famiglia. Anche questo punto merita una riflessione, perché la vicenda dell’autore rende chiaro come i risultati di una tecnica possano generare nuove domande aprendo al contempo fronti di sviluppo del tutto inattesi inizialmente. Davis si era avvicinato alle biotecnologie per sapere chi era il suo padre genetico, scopre poi che la risposta non gli consente di placare i fantasmi della sua memoria (che riguardano il problematico rapporto fra lui e il suo padre presunto) e “fa pace” infine con la tecnologia quando, una volta che ne ha realizzato i limiti, ne individua potenzialità non cercate ma interessanti per il suo percorso di vita. Non è un caso che Davis scelga di non utilizzarle tutte: conciliando le sue esigenze personali con le possibilità offerte dal sequenziamento del Dna, l’autore non si sottoporrà ai test per scoprire la sua predisposizione a determinate malattie, ma andrà invece a fondo sulla questione delle origini più antiche della sua famiglia.
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Qualche immagine dalla Tavola rotonda cui hanno partecipato: Cristina Grasseni, Piero Bassetti, Lennard Davis, Michele di Francesco, Jonathan Hankins, Margherita Fronte e Tommaso Correale Santacroce: