La policy analysis ha per statuto un’ambizione esplicita: quella di produrre conoscenza per decisioni politiche qualitativamente migliori. Per sostenere questa ambizione il fondatore, Harold Lasswell, negli anni ’50 ha legato la “scienza delle politiche” al più rigoroso oggettivismo scientifico. I problemi che l’intervento pubblico avrebbe dovuto e potuto affrontare erano là fuori e potevano essere misurati; la soluzione migliore poteva essere razionalmente identificata dagli esperti e tradotta in un programma d’azione puntuale. Gli analisti erano “the guys with the method“, e i dati da loro prodotti “parlavano da soli”.
Alla base di questa scelta non c’era semplicemente l’intento di legittimare una nuova disciplina mutuando la razionalità di scienze più consolidate, o quello di fornire al governo argomenti per giustificare interventi pubblici in un contesto, come quello americano, tradizionalmente ostile alla spesa e alla regolazione federale. Lo scientismo era anche, nelle intenzioni, una strategia per mettere concretamente la libertà di pensiero alla base di una democrazia robusta, un invito pragmatico a non abbracciare assunti ideologici senza averli prima sottoposti alla prova dei fatti.
E proprio la prova dei fatti avrebbe portato alla crisi di quella prima generazione di analisti.
La matrice scientista, le ambizioni e l’etica valsero infatti agli esperti lasswelliani l’ingresso nel gruppo dei “best and brightest” reclutati nell’amministrazione federale americana dagli anni ’60. Con la nomina di McNamara a Segretario della Difesa sotto la presidenza Kennedy prima, e la “Guerra alla Povertà” inaugurata da Johnson poi, gli analisti arrivarono ad assumere il controllo di fatto su mezzi e fini dei programmi di spesa più importanti. Già negli anni ’70, però, la pochezza dei risultati conseguiti con i loro metodi razionali – o, nel caso del Vietnam, il loro deciso fallimento – divenne palese, e segnò l’entrata in crisi di quel tipo di conoscenza esperta.
È da questa crisi che prende forza la “svolta argomentativa” – un cambiamento di paradigma che il Prof. Frank Fischer ha ampiamente contribuito a definire e divulgare insieme ad un nutrito gruppo di studiosi, tra cui John Dryzek, Martin Rein, Donald Schon, Maarten Hajer, John Forester. Invitato da IReR Lombardia, il Prof. Fischer ha ricordato ai ricercatori e ai direttori dell’Istituto i contenuti ed il senso di quella svolta.
Nelle sue parole, l’approccio argomentativo non vuole porsi in alternativa radicale ai filoni di analisi rimasti più fedeli all’impostazione lasswelliana, come quelli “basati sull’evidenza”; piuttosto, si propone come protocollo per migliorare l’aggancio tra ricerca esperta e realtà. Anche la svolta argomentativa si mantiene infatti fedele ad alcuni assunti originari della “scienza delle politiche” – che le decisioni di policy abbiano bisogno di informazione per poter migliorare sia la propria efficacia che la propria legittimità democratica; che l’analista abbia un ruolo nodale nel raccoglierle e organizzarle. Ciò che cambia, e qui davvero radicalmente, è la posizione rispetto al metodo e all’assunto scientista proprio della prima generazione.
I dolorosi fallimenti della grande stagione americana del planning razionale, secondo Fischer, vanno soprattutto imputati alla hybris di una professione che si riteneva in possesso degli strumenti per giungere alla verità oggettiva, con l’effetto di trasformare la conoscenza esperta in un sapere iniziatico. Ma se la distanza fra analista e contesto può aumentare il prestigio della conoscenza prodotta, i fallimenti provano come, allo stesso tempo, quella distanza riduca drasticamente l'”utilizzabilità” del sapere esperto – perché lo porta ad ignorare preoccupazioni e ragioni dei destinatari e degli interessi in campo.
Includere nell’analisi le preoccupazioni e le ragioni degli attori in campo ha però conseguenze importanti. Innanzi tutto, comporta accettare che la conoscenza dell’analista non sia qualitativamente superiore a quella dell’uomo della strada – al più, che la differenza consista in una diversa capacità di esprimere ed ordinare quella conoscenza. Secondo, conduce ad ammettere che non esiste un solo “problema là fuori” di cui il metodo possa stabilire forma e magnitudo; piuttosto, che esistono tante diverse percezioni del problema quanti sono gli interessi sociali. Terzo, implica riconoscere che una definizione univoca del problema, per quanto ammantata di oggettività scientifica, possa aumentare anziché ridurre la conflittualità, e mobilitare gli interessi contro i risultati dell’analista e il possibile conseguente intervento del governo. Quarto, e conseguente, comporta ammettere che qualunque metodo scientifico usato dall’analista per costruire la propria verità non sia affatto neutro rispetto ai valori, e che i risultati della sua analisi siano inevitabilmente destinati ad essere letti in chiave politica.
La svolta argomentativa, dunque, demolisce la torre d’avorio da cui l’analista dava ordine al mondo; soprattutto, lo costringe a rivedere i criteri rispetto ai quali la conoscenza che produce può essere considerata robusta. Certo, il metodo scientifico resta la base, e le evidenze la materia prima. Ma, una volta identificati il problema e le possibili soluzioni, l’analista deve confrontarsi con le preoccupazioni del “mondo sociale” a cui quelle soluzioni dovranno applicarsi – sicurezza nel lungo periodo, adeguatezza al contesto, effetti distributivi, preferenze ideologiche. E, per farlo in modo appropriato, non può né deve sostituirsi agli interessi che di quelle preoccupazioni sono i veri portatori. Le analisi multicriterio non bastano. Ciò che piuttosto l’analista può e deve è scoprire i suoi risultati intermedi, raccogliere le reazioni, e dare loro voce in arene in cui le posizioni eterogenee possano confrontarsi, spiegarsi e influenzarsi – che per la svolta argomentativa è il senso profondo della democrazia.
La responsabilità di chiudere la decisione spetterà comunque al politico eletto. Ma, avverte Fischer, chiudere senza tenere conto delle obiezioni emerse nelle arene argomentative sarebbe un grave errore: perché anche le politiche meglio intenzionate, senza la cooperazione dei destinatari, sono destinate a concludersi in un inutile spreco di risorse.
Alessia Damonte
alessia.damonte at unimi.it
(immagine tratta dalle pagine dedicate all’evento nel sito dell’IReR)