Ai suoi tempi il compito di redistribuire le risorse create producendo era strutturalmente affidato ai singoli che si trovavano a disporne: se si vuole al loro paternalismo.
Oggi il discorso è un altro: lo Stato – in particolare il Welfare State – si è assunto il compito della redistribuzione delle risorse. Il riscatto è già compiuto dal fisco. Di contro, all’imprenditore si è sempre più attribuita, accanto alla funzione di produrre beni e servizi, a condizioni di produttività ed efficienza crescenti, un’altra e più impegnativa funzione: quella di “innovare”, dove innovare non vuol più dire semplicemente “introdurre prodotti commercialmente nuovi”. Anche questo. Ma in molti casi vuol dire proporre, sulla base di tecnologie e processi innovativi, nuove soluzioni di consumo, di produzione, di vita, dando così, nelle cose concrete, un contributo tutt’altro che trascurabile al cambiamento del mondo che ci circonda. Un mondo nel quale non conta solo l’apparizione dell’energia atomica, dei viaggi stellari, del computer, della pecora Dolly, ma anche – e forse non di meno – quella di una buona pila, della Vespa, di un programma per la lavatrice, dell’aspirina, della zip, del velcro, e – perché no – di un nuovo modo di dormire col piumone.
Tutte cose che sono state fatte e introdotte da imprenditori. Molte volte con l’aiuto determinante della Scienza e della Tecnica. In molti casi no: con il semplice apporto della fantasia, dell’intelligenza, del sapere. Sempre però assumendosi, di fatto, consapevolmente o meno, delle responsabilità.
Bene. Finché il mondo era quello ottocentesco, della scarsità, chiunque aggiungeva qualcosa in quantità o qualità, al poco esistente, era comunque benemerito. Il mercato era in grado di stabilire da solo se un’innovazione era valida: se lo era la premiava consentendo lauti profitti, se non lo era la puniva con l’espulsione.
Ma con la crescita della Scienza, con l’emergere dei problemi ambientali, tutti cominciamo a chiederci se veramente gli automatismi degli incentivi e disincentivi di mercato esauriscono il problema. Tutti cominciamo a intuire che chi decide in alcuni di questi campi si assume responsabilità che, oggettivamente, vanno ben al di là del rischio di compromettere i bilanci, suoi o delle sue imprese, e si prende un ruolo, un ruolo civile e morale, ben più impegnativo: per l’influenza che le sue scelte hanno sui modi di vivere, il costume, le relazioni sociali, in qualche caso con un impatto addirittura storico (se della Storia si rispetta anche la storia “minore”, che qualche volta, però, minore non è!).
Certo l’establishment, di cui anche lo zio Giannino faceva parte, può ben ripetere le risposte ideologiche del laissez-faire o quelle, di sinistra, della pianificazione statale, ma il problema civile di responsabilizzare, dall’interno della loro coscienza morale, gli individui in grado di intraprendere e perciò di innovare, resta lì in tutta la sua rilevanza e difficoltà: rilevanza perché il problema della direzione verso la quale vogliamo trasformare il mondo è grosso in sé, difficoltà perché valutare le conseguenze dirette e indirette di qualunque innovazione, al di là del mero risultato economico che le fa seguito, è pure difficile sotto moltissimi aspetti.
Ecco perché io ho sempre insistito affinché mio zio – che queste cose le capiva benissimo ed era anche in grado di valutarne le conseguenze di coscienza – decidesse di legare il suo, e nostro, nome a qualche istituzione che accettasse di occuparsene.
Che un Rockefeller non avesse avuto le stesse responsabilità di un Edison, o un Krupp del signor Cantoni, o un Nobel di Ford, o lui stesso quelle di nonno Giovanni o di suo nipote, lo zio Giannino lo sapeva benissimo. Sapeva cioè benissimo che l’imprenditore moderno è costretto dal suo mestiere a un ruolo che non è più limitato o limitabile a quello smithiano di efficiente coordinatore di fattori; e nemmeno a quello – pur più complesso – schumpeteriano di innovatore, il cui contributo al cambiamento, oltre a giustificarne il profitto, si chiude comunque sul mercato. Non gli sfuggiva affatto che il vero ruolo di un imprenditore responsabile si definisce e completa anche per il contributo dato allo sviluppo civile della società in cui opera. Del resto, a capirlo più e meglio di molti suoi colleghi contemporanei lo aiutava, oltre all’intelligenza, che certo non gli mancava, la sua cultura cattolica. Solo che entrambe queste doti lo aiutavano anche a capire quanto il problema fosse difficile: per il problema di valori che coinvolge, ma soprattutto per l’oggettiva difficoltà di come stabilire un nesso tra scelte dell’imprenditore e conseguenze sulla vita della gente senza interferire nell’insostituibile valore della libera creatività umana.