Federico Neresini
(right-sfondochiaro.gif (838 byte) Scheda biografica)

Responsabilità, innovazione e incertezza.
Il caso delle biotecnologie

(Gennaio 2002)


Qualche anno fa, Zygmut Bauman invitava a riflettere sul nesso che nelle società moderne si viene a istituire fra organizzazione burocratica e responsabilità. Una delle tesi sostenute dal sociologo tedesco consisteva nell'idea che le caratteristiche della burocrazia - così come definite da Weber in qualità di espressione del processo di razionalizzazione che accompagna lo sviluppo della modernità - contengono la perversa possibilità di ridurre l'orizzonte di visibilità delle conseguenze delle nostre azioni e, di conseguenza, impediscono l'assunzione di responsabilità che ne dovrebbe derivare. La divisione stabile e specializzata dei compiti, la loro organizzazione in una struttura gerarchica, l'associazione di una competenza specializzata per ogni posizione porterebbero gli individui dislocati nelle varie posizioni - e remunerati sulla base della loro collocazione - a una visione parcellizzata dei processi che pure contribuiscono attivamente ad alimentare e con essa al disconoscimento della loro responsabilità circa gli effetti che tali processi determinano.

Non pare fuori luogo richiamare il nesso istituito da Bauman fra gli elementi costitutivi della razionalizzazione burocratica dell'interazione sociale e il tema della responsabilità per riflettere sulle implicazioni derivanti dallo sviluppo delle biotecnologie.

Non andrebbe innanzi tutto dimenticato che l'organizzazione del lavoro scientifico deve essere interpretata anch'essa come espressione del più ampio processo di razionalizzazione delle società moderne. Nonostante la visione idilliaca e un po' romantica con cui siamo abituati a pensarla, la scienza moderna si presenta infatti come un'organizzazione burocratica a tutti gli effetti, all'interno della quale lo scienziato viene normalmente messo nella condizione di restringere il campo di assunzione di responsabilità entro gli angusti confini del suo laboratorio, se non addirittura del suo banco da esperimenti. Egli è responsabile della specifica attività di ricerca in cui è impegnato e solo di quella, anche se consiste di una porzione infinitesimale di un processo di elaborazione e di analisi molto più ampio e complesso. I suoi interlocutori - i soggetti verso i quali si sente responsabile - sono i suoi colleghi o al massimo le persone da cui dipende il suo lavoro, siano essi lo Stato oppure privati, imprenditori o investitori.

Si badi bene, lo scienziato non è per questo un soggetto amorale, e di sicuro non lo è più di qualsiasi altro. Solo che l'orizzonte morale che gli viene culturalmente indicato e strutturalmente sollecitato possiede la stessa estensione di quello di un impiegato di banca - anche quando la banca recicla denaro di dubbia provenienza - o dell'operaio - anche quando la fabbrica dove lavora costruisce aerei da combattimento - o dell'infermiere - anche quando l'ospedale dove presta la sua opera risulta in molti casi sordo alle esigenze dei pazienti.

Del resto, la parcellizzazione dell'attività e dunque della responsabilità dello scienziato viene continuamente sostenuta dalla retorica della separazione fra scienza e tecnica, fra la ricerca pura e le sue applicazioni, oltre che dal ricorso alla retorica dell'«errore umano», che consente alla scienza di incassare i successi della tecnologia senza farsi carico dei suoi effetti negativi.

E restando in tema di distinzioni, è senza dubbio utile riprendere qui anche la distinzione weberiana fra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità. Come noto, con la prima il sociologo tedesco vuole indicare l'agire sociale orientato da una valutazione dei fini, mentre con la seconda egli intende l'agire che tiene conto, fin dove possibile, anche delle sue conseguenze.

 Links: 
Umberto Galimberti

Nella stessa chiave interpretativa, in un articolo precedente Galimberti sviluppava le proprie riflessioni sul concetto di responsabilità:

Tuttavia - come ha notato di recente anche Galimberti - l'aumento dell'imprevedibilità degli esiti derivanti dall'applicazione dal sapere tecnologico e scientifico, imprevedibilità dovuta al crescente divario fra la capacità di "fare" che tale sapere ci mette a disposizione e la nostra incapacità di valutarne gli effetti, rende di fatto inservibile non solo l'etica dell'intenzione, ma anche quella della responsabilità. Che tale divario fosse inestricabilmente legato allo sviluppo della scienza moderna lo aveva del resto già fatto notare tempo fa Collingridge ed è stato più recentemente ripreso nell'ambito della riflessione sulla cosiddetta società del rischio.

Simili considerazioni acquisiscono ovviamente un peso ancora maggiore se riferite a settori in rapida evoluzione e caratterizzati dall'apertura di possibilità di manipolazione finora inimmaginabili, come è il caso, per esempio, delle biotecnologie.

Siamo dunque condannati a dover scegliere fra la rinuncia all'agire responsabile - di fatto non praticabile a causa dell'impossibilità di prevederne le conseguenze oppure non alimentato da una consapevolezza sufficientemente ampia e accorta - e la rinuncia allo sviluppo del sapere tecnoscientifico in ragione dell'imprevedibilità dei rischi ad esso collegati, come sembra logicamente conseguire da un'applicazione estensiva, quanto controversa, del "principio di precauzione"?

Una possibile via d'uscita al dilemma si può forse intravedere una volta abbandonata la visione riduttiva dei fenomeni sociali che fa da presupposto a buona parte del dibattito sull'innovazione tecnoscientifica e che finisce per condurci nel vicolo cieco appena descritto.

Si tratta di iniziare a non considerare ciascun attore sociale come abbandonato a se stesso durante il processo decisionale che lo mette a confronto con la responsabilità dell'innovazione, quanto piuttosto di tener conto che egli è sempre un «attore-sociale-in-relazione» e che, di conseguenza, può scegliere di non portare da solo il peso della responsabilità in un contesto a elevatissimo grado di incertezza; al contrario può decidere di condividerlo con altri, ovviamente a patto di riconoscerli come validi interlocutori.

Si tratta, in sostanza, di iniziare a considerare ciò che la nostra cultura individualistica e poco incline a considerare la dimensione sociale dei fenomeni impedisce di vedere.

In questa prospettiva, le decisioni relative allo sviluppo e al governo dell'innovazione tecnoscientifica non sono più prerogativa di una delle parti in gioco - forte del potere di decisioni unilaterali e nello stesso tempo caricata della loro responsabilità - ma si collocano piuttosto all'interno di un processo di negoziazione che, coinvolgendo numerosi attori, da un lato limita il potere decisionale di ciascuno, ma dall'altro ne riduce la responsabilità. Nello stesso tempo però questa riduzione di responsabilità deve portare alla sua migliore individuazione senza ricadere in quella parcellizzazione burocratica che, come abbiamo visto, tende a favorire la deresponsabilizzazione, sia perché priva l'attore della necessaria visione complessiva dei processi in cui si trova implicato, sia perché consente in ogni momento di demandare ad altri il peso della scelta.

Nella partita che ognuno di noi si trova a giocare sul tavolo dell'innovazione biotecnologica si tratta, in sostanza, di evitare due atteggiamenti opposti eppure ugualmente pericolosi nelle loro conseguenze: a un estremo la pretesa di poter decidere da soli, magari sulla base di una presunta superiorità conoscitiva e tecnica oppure facendosi forti della delega ricevuta sul piano politico-istituzionale o, ancora, dell'ipotetica legittimazione che deriva dall'assunzione del rischio d'impresa; dall'altro, la riduzione dell'orizzonte della responsabilità in nome della divisione burocratica del lavoro, anche di quello che, coinvolgendo la ricerca scientifica, conduce all'innovazione.

Il vantaggio maggiore derivante dall'assunzione di una prospettiva negoziale non risiede tanto nel contenimento dell'ansia prodotta dalla consapevolezza di dover "scegliere al buio", anche perché lo stesso risultato si può molto più facilmente ottenere mediante la riduzione di tale consapevolezza evitando di porsi scomode domande circa le possibili conseguenze della propria decisione oppure confidando ciecamente nella capacità di prevederle. L'attivazione di processi decisionali negoziati comporta, infatti, l'enorme guadagno di ampliare il quadro di conoscenze e di competenze disponibili per la formulazione della scelta finale.

Accanto ai vantaggi vanno ovviamente considerati anche i possibili effetti negativi, fra i quali vale la pena di menzionare quello del regresso all'infinito del processo decisionale, ovvero del suo stallo dovuto all'oggettiva necessità di prolungarne il corso in modo da consentire l'effettivo coinvolgimento degli attori più diversi e all'impossibilità di prendere decisioni che accolgano pienamente le istanze di tutti gli attori. Tale evenienza si può tuttavia contrastare facendo un uso - ancora una volta - "responsabile" della variabile tempo. Questo significa sia concordare una scadenza entro cui una decisione deve essere comunque presa, sia assegnare a quella decisione una scadenza, nel senso di stabilire che in ogni caso, una volta trascorso un determinato periodo di tempo, quella decisione verrà sottoposta a un processo di revisione. Risulta interessante, sotto questo profilo, la legge recentemente approvata in Francia in materia di fecondazione assistita che contiene, per l'appunto, un dispositivo di revisione "automatica". Perché non ragionare allo stesso modo anche a proposito delle innovazioni biotecnologiche?

E' importante inoltre evitare di ricadere nel mito di un assemblearismo falsamente democratico: non si tratta di mettere tutti sullo stesso piano, ma di negoziare una decisione assumendo le differenze, dunque i limiti ma anche le potenzialità di ciascun attore coinvolto. Non possiamo cioè far finta che la mitica "casalinga di Voghera" sia competente scientificamente quanto il biologo molecolare, né che lo possa diventare se adeguatamente informata (il che non significa che non si debba per questo investire nella sua corretta informazione). Si tratta, se mai, di riconoscere che la casalinga possiede una competenza nell'ambito della vita quotidiana che probabilmente lo scienziato non ha e che è dunque competente/responsabile nel valutare i possibili usi e i possibili impatti dell'innovazione biotecnologica in tale ambito. Il richiamo alla responsabilità si rivolge quindi anche all’utente finale dell’innovazione, in questo modo riconosciuto come protagonista e non come soggetto passivo del processo di acquisizione sociale delle nuove tecnologie.

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