La Repubblica, 18 novembre 1999
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Un terremoto che ci riguarda
di UMBERTO GALIMBERTI
Giovedì 9 novembre, in occasione dellinaugurazione dellanno accademico
dellUniversità cattolica, Giovanni Paolo II ha posto i paletti a un piccolo settore
delle ricerche biotecnologiche che prevede luso degli embrioni per la produzione di
cellule staminali dove, attraverso un trasferimento nucleare, meglio noto come
«clonazione», si possono ottenere organi umani per i trapianti, evitando tutti i
problemi connessi al rigetto perché, con questa procedura genetica, gli organi che si
otterrebbero sarebbero «omologhi».
Lintervento del Papa è avvenuto il giorno dopo la conclusione di un importante
congresso organizzato a Bruxelles da Etienne Magnien, presidente della Commissione Europea
per le Scienze del Vivente, dove oltre a Philip Campbell, direttore di Nature, una delle
più prestigiose riviste scientifiche nel mondo, sono stati invitati cinquecento tra
genetisti, politici, filosofi e giornalisti delle più grandi testate europee, per
rispondere come si può informare adeguatamente lopinione pubblica sulle
possibilità e i rischi connessi alle scoperte genetiche, dal momento che la maggioranza
dei cittadini europei considera le biotecnologie agroalimentari (i cibi transgenici) e la
clonazione di animali una minaccia per lordine naturale e un pericolo per le future
generazioni, mentre considera privi di rischi e di implicazioni morali le applicazioni
biomediche e in particolare i test genetici che predicono le malattie a cui si è
geneticamente predisposti?
Ad analoghi seguiti risponderà in Italia lunedì
prossimo lIstituto Italiano per gli studi filosofici e la Fondazione Viamarconidieci
con un ciclo di conferenze che si tiene a Napoli (Palazzo Serra di Cassano, via Monte di
Dio, 14) su «I geni e la responsabilità civile dello scienziato», perché, come diceva
a Bruxelles Matt Ridley, commentatore scientifico del Daily Telegraph: «La genetica è
troppo importante e ha troppe implicazioni sociali per lasciarla nelle mani dei soli
esperti». A Bruxelles ho appreso che la genetica è un evento quasi del tutto
americano, dove la ricerca, senza troppi vincoli da parte della Chiesa, della politica e
delluniversità, ha fatto progressi enormi anche grazie ai ricchi finanziamenti
delle multinazionali. LEuropa è rimasta indietro e ora sta affannosamente
rincorrendo. Basti pensare che le «Biotechnological Companies» dal 1996 al 1998 sono
cresciute in America da 92 a 124 e in Europa da 38 a 39.
LItalia è rimasta ancora più indietro perché destina alla ricerca scientifica
solo l1,03 per cento delle sue risorse, le quali a loro volta finanziano soprattutto
la fisica e molto poco la genetica molecolare, e poi perché si è ritirata dal
finanziamento europeo del «Progetto Genoma», per cui cè voluta tutta la
diplomazia e lostinazione del professor Leonardo Santi, che presiede il Centro di
biotecnologie avanzate di Genova, nonché il Comitato nazionale per la biosicurezza e le
biotecnologie istituito dalla Presidenza del Consiglio, per far accettare alla Commissione
Europea la presenza di una sparuta rappresentanza italiana.
La genetica ha già fatto una grossa rivoluzione nel mondo vegetale, le cui dimensioni
possono essere facilmente calcolate se solo si pensa che il 50 per cento della popolazione
mondiale dipende, per la sua nutrizione, da soli tre vegetali: soia, mais, riso, oggi già
geneticamente trattati. Ora si appresta a fare una rivoluzione nel mondo animale
migliorando la selezione delle razze per ottenere carne migliore (la mucca pazza non
centra), latte migliore e via dicendo. Infine interviene a sconvolgere la mappa
della medicina, essendo nella possibilità di segnalare a quali malattie ogni individuo è
predisposto geneticamente, senza peraltro che questa predisposizione, come a Bruxelles
metteva opportunamente in guardia Bruno Dellapiccola, presidente della Società italiana
della genetica umana, si debba necessariamente tradurre in malattia. E qui sorgono
immediatamente diversi problemi. Con la terapia genica, informava Dellapiccola, si possono
guarire alcune forme tumorali, il diabete, lasma, lartrite reumatoide, le
malattie cardiovascolari, lepilessia, e con tutta probabilità anche le sindromi
maniacodepressive, quindi non solo il corpo, ma anche lanima. Purtroppo i genetisti
in Italia sono pochissimi, i medici di base sono disinformati, mentre particolarmente
interessati al quadro genetico di ciascuno di noi sono invece le società assicurative,
nonché i datori di lavoro per motivi facilmente comprensibili, a cui si aggiunge
unenorme pressione dei politici e delle multinazionali farmaceutiche sulla ricerca
genetica a breve termine, quando le terapie geniche daranno i primi dati sicuri non prima
di dieciquindici anni.
Da questa illustrazione sommaria capiamo tutti che qui entrano in drammatica collisione,
se non addirittura in conflitto, problemi enormi, da quelli demografici (una volta che per
via genica si dovesse risolvere il problema dellalimentazione delle popolazioni che
muoiono di fame) a quella della salute (con lallungamento della vita), a quelli
(perché nascondercelo?) del profitto, questa volta su vastissima scala. Può la comunità umana subire passivamente nel bene e nel male
i risultati delle scoperte genetiche, o può anche interloquire con la scienza, pretendere
di essere informata e, cosa più difficile, capire le informazioni e con i suoi organi di
rappresentanza saperle gestire?
In America si è già provveduto a distribuire dei cdRom
alle scuole per informare gli studenti, alle famiglie per informare i genitori e ai centri
della sanità per informare i medici. Ma tutto questo, che noi europei non abbiamo ancora
fatto, basta? E quando linformazione, anche se corretta (cosa che nessuno è in
grado di garantire) ha raggiunto lopinione pubblica, con quali strumenti questa può
davvero interloquire con la scienza? Il congresso organizzato a Bruxelles dalla
Commissione Europea si proponeva di rispondere a queste domande. Risposte esaurienti
ovviamente non se ne sono avute, ma indicazioni parziali e soprattutto una significativa
sensibilità sulle enormi ricadute sociali del problema «genetica» da parte degli
scienziati, questo sì. Innanzi tutto bisogna
smantellare limmaginario da «mostri di Frankenstein» che la cattiva informazione
sulla genetica alimenta.
In secondo luogo occorre studiare le forme più
efficaci per una corretta informazione. Infine,
raccolto il consenso o il dissenso della pubblica opinione intervenire con decisioni
politiche capaci di contenere gli interessi privati che hanno in vista più il profitto
che il bene dellumanità. Tutto facile dunque? Niente affatto. La società che si
vuole informare è costituita infatti da: opinione pubblica, rappresentanza politica e
sentimenti morali.
1. Lopinione pubblica può essere
adeguatamente informata? Penso solo limitatamente, ma molto limitatamente, perché la
qualità dei problemi implica un livello di competenza che lopinione pubblica non
può raggiungere. Se un referendum mi dovesse chiedere se sono favorevole o contrario ai
cibi transgenici o, come qualche anno fa mi è stato chiesto, se sono favorevole o
contrario alla chiusura delle centrali nucleari, io risponderei in un senso o
nellaltro a partire dalla mia sensibilità più incline a una visione romantica
della natura o più incline a una partecipazione entusiastica ai progressi della scienza,
oppure a partire dalle persuasioni maturate come effetto della propaganda dei media, ma in
nessun caso deciderei per competenza, perché, non essendo né un biologo molecolare, né
un fisico atomico, non sono nelle condizioni di formulare un giudizio razionale,
competente ed esauriente che sia allaltezza del problema.
La scienza oggi pone alla società problemi di una complessità tale che superano di gran
lunga le competenze dellopinione pubblica, la quale non può decidere se non a
partire da preconvinzioni o pregiudizi senzaltro legittimi, ma che, per la loro
incompetenza, non possono che essere irrazionali. Questo
è il vero rischio che oggi corre la democrazia, un rischio che non è tanto (anzi
non lo è per niente) nel conteggio delle schede elettorali americane, ma nel fatto che i
problemi che di giorno in giorno pone la scienza sono a un livello di specializzazione
tale che l'opinione pubblica non potrà mai raggiungere, e perciò esprimersi in proposito
con criteri di razionalità.
2. La rappresentanza politica. Per ovviare questa
difficoltà, che a me pare enorme, si potrebbe pensare alla politica come mediatrice tra
la scienza e la società, quindi una politica come
ermeneutica, cioè come interpretazione e riformulazione tecnicamente competente
dei bisogni o dei sistemi di valori condivisi dal vasto pubblico. Ma la politica non può
compiere quest'opera di mediazione, perché la
scienza non attende dalla politica l'indirizzo della sua ricerca, dal momento che questo
indirizzo scaturisce dai risultati conseguiti e dalle anticipazioni che si possono fare a
partire da questi risultati, e solo dopo che certi risultati sono stati raggiunti dal
processo di crescita autonomo della scienza, la politica può creare una connessione con i
problemi pratici, per quel tanto che la loro soluzione è compatibile con l'economicità
della razionalità tecnico-scientifica.
Viene così riconfermato, oltre all'adattamento passivo della politica alla scienza, anche
l'adattamento passivo dell'opinione pubblica alla politica, spesso ancora legata a
finalità incontrollate, a sistemi di valori tramandati, ideologie caduche, in uno
scenario dove il fare tecnico-scientifico cresce in modo autonomo, conseguendo risultati
che, senza preavviso, irrompono nel contesto di una
prassi sociale impreparata e incompetente.
Che ne è a questo punto della democrazia e delle sue reali ed efficaci possibilità di
espressione? Se a tutto ciò aggiungiamo che oggi la
politica non appare più come il luogo eminente delle decisioni perché, per decidere, la
politica guarda alleconomia, e leconomia, a sua volta, per decidere guarda
alle risorse tecnicoscientifiche, di nuovo si pone il problema: come si fa a controllare
la scienza?
3. Il sentimento morale, che abita qualsiasi
individuo, gruppo e società, potrebbe forse surrogare limpotenza politica. Ma anche
qui: a quale morale facciamo riferimento? Nella
nostra cultura abbiamo conosciuto fondamentalmente tre morali: letica cristiana che si limita a considerare la
correttezza della coscienza e la sua buona intenzione, per cui anche se le mie azioni
hanno conseguenze disastrose, se non avevo coscienza o intenzione, non ho fatto nulla che
mi sia moralmente imputabile. Esattamente come capitò un giorno a coloro che hanno messo
in croce Gesù Cristo e che da lui sono stati perdonati «perché non sanno quello che
fanno».
È evidente che, anche se su questa etica è stato costruito lordine giuridico
europeo che distingue ad esempio tra un delitto non intenzionale, intenzionale,
preterintenzionale, in un mondo complesso e tecnologizzato come il nostro, una morale di
questo genere che guarda solo alle intenzioni e non agli effetti delle azioni è
improponibile, perché gli effetti sarebbero catastrofici e in molti casi addirittura
irreversibili.
Quando nelletà moderna la società si laicizzò, apparve quella che potremmo
chiamare letica laica, la quale, messo sullo
sfondo il riferimento a Dio, con Kant formulò
quel principio secondo cui: «Luomo va trattato sempre come un fine e mai come un
mezzo». È questo un principio che ancora attende di essere attuato, ma nelle società
complesse e tecnologicamente avanzate già rivela tutta la sua insufficienza. Davvero, ad
eccezione delluomo da trattare sempre come un fine, tutti gli enti di natura sono un
semplice mezzo che noi possiamo utilizzare a piacimento? E qui penso agli animali, alle
piante, allaria, allacqua. Non sono questi, nelletà della tecnica,
altrettanti fini da salvaguardare, e non semplici mezzi da usare e da usurare? Sia
letica cristiana, sia letica laica sembra che si siano limitate a regolare i
rapporti tra gli uomini, senza avere nessuna sensibilità, e quel che più conta senza
disporre di alcuno strumento, né teorico, né pratico, per farci assumere una qualche
responsabilità nei confronti degli enti di natura su cui oggi interviene la genetica.
Allinizio del nostro secolo Max Weber
formulò letica della responsabilità,
recentemente riproposta da Hans Jonas. Secondo
Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle sue intenzioni, ma anche delle
conseguenze delle sue azioni. Senonché, subito dopo aggiunge: «Fin dove le conseguenze
sono prevedibili». Questa aggiunta, peraltro
corretta, ci riporta punto e a capo, perché è proprio della scienza e della tecnica
avviare ricerche e promuovere azioni i cui esiti finali non sono prevedibili. E di fronte allimprevedibilità non cè
responsabilità che tenga.
Lo scenario dellimprevedibile, dischiuso dalla scienza e dalla tecnica, non è
infatti imputabile, come nellantichità, a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore rispetto
al nostro potere di prevedere, e quindi di valutare e giudicare.
Limprevedibilità delle conseguenze che possono scaturire dai processi
tecnicoscientifici rende quindi non solo letica dellintenzione (il
cristianesimo e Kant), ma anche letica della responsabilità (Weber e Jonas)
assolutamente inefficaci, perché la loro capacità di
ordinamento è enormemente inferiore allordine di grandezza di ciò che si vorrebbe
ordinare.
Questi sono i problemi posti dalle scoperte genetiche e che a me paiono molto seri. Il
congresso di Bruxelles promosso dalla Commissione Europea li ha messi coraggiosamente sul
tavolo. Sarebbe opportuno che la discussione proseguisse in tutte le sedi e, sia pure con
tutti i limiti sopra descritti, giungesse a sensibilizzare lopinione pubblica,
perché il terremoto scientifico e pratico che la genetica sta preparando è davvero
grande. Non è il caso di allarmarsi, ma neppure quello di trovarci assolutamente
impreparati.
UMBERTO GALIMBERTI