(Giugno 2000)
References |
Ho letto il documento di Ervin Laszlo su Business Ethics, mi è molto piaciuto e lo
condivido sostanzialmente. L'inizio è fondamentale: "Ethics is becoming business, in
both senses". Tuttavia il seguito dell'articolo sembra continuare a distinguere
troppo tra etica ed affari, e pur sostenendo che etica ed affari possono andare di pari
passo non esclude che chi è in affari sia legittimato ad agire senza tener conto
dell'etica. Naturalmente certe soglie ci sono: il furto, la rapina, la truffa,
l'aggiotaggio, l'insider trading, ecc. sono sanzionate come forme di affari non ammesse.
Ma sono soglie che danno l'impressione di non essere composte in un sistema coerente di
valori di fondo.
Io mi chiedo: perchè si parla di etica degli affari, e non si parla di etica della
politica? Perchè si parla, ad esempio, di "commercio equo e solidale", di
"banche etiche", e non si parla, o si parla molto meno, di politica equa e
solidale, o di istituzioni etiche?
Credo di sapere perchè: perchè la politica, per quanto oggetto di disaffezione da parte
di molte persone, per quanto criticata in quanto dedita più alle lotte di potere che al
servizio del cittadino, è considerata, almeno potenzialmente, una attività ad alto
contenuto etico, forse il più alto: il governo della polis. Si dà per scontato
che la politica dovrebbe rispondere a finalità altamente etiche. Del resto, anche
"il fine giustifica i mezzi" machiavelliano dava per implicito che il fine
avesse un valore etico (cosa che molti dimenticano parlando di Machiavelli). Analogamente,
nessuno rinuncerebbe all'affermazione contenuta in tante costituzioni democratiche secondo
cui "la sovranità appartiene al popolo", anche se tutti sanno quanto questa
affermazione sia di difficile realizzazione.
Ben diversa la situazione nel mondo economico. Se molti parlano e apprezzano attività
economiche definite come "commercio equo e solidale", o "banche
etiche", o di "non profit", è perchè si suppone, consapevolmente o no,
che il commercio sia normalmente e legittimamente iniquo ed egoista, che le banche siano
normalmente e legittimamente immorali e che il profitto sia riprovevole (la sua stessa
esaltazione come fine dell'attività economica lo considera sostanzialmente moribus
solutus). Insomma vige, soprattutto da noi, l'arrière pensée che fare
business implichi fondamentalmente un furto (marxismo) o che il denaro sia di per sè
farina del diavolo (cattolicesimo).
E' chiaro che è facile portare prove che confermano questo modo di vedere l'economia. Ma
lo stesso si potrebbe dire della politica, se considerata solo come finalizzata a un
qualsivoglia potere. D'altra parte sarebbe possibile, anche se meno facile, dimostrare che
queste concezioni non sono necessariamente vere. Se tali fossero, tra l'altro, l'economia
non avrebbe portato a un aumento e a una diffusione crescente della ricchezza e del
benessere, sia pure solo per una parte limitata dell'umanità e tra molti squilibri (che
potrebbero essere dovuti proprio al modo più diffuso di intendere l'attività economica,
e all'insufficiente e incorerente governo di essa).
Insomma, mentre per la politica vige una presunzione di moralità per così dire
costituzionale, per l'economia vige una presunzione di immoralità costituzionale.
Io credo tuttavia che qualcosa stia cambiando (a mio parere, con duecento anni di ritardo
rispetto alla politica). Da una parte le aziende e la business community si
rendono conto in misura crescente che i comportamenti etici, il riferimento a valori non
solo economici, a partire da quello della lealtà e trasparenza nei rapporti tra aziende e
in generale nei mercati, contraddistinguono le economie e spesso le singole aziende più
floride, mentre dove questi valori sono messi in non cale l'economia ristagna o
regredisce, le aziende falliscono. Ma dall'altra, il mondo economico viene sempre meno
considerato come una zona franca rispetto alle regole di convivenza politica. Non esiste
ancora un corpus juris organico per la convivenza economica, come esiste per uno
stato democratico, dalla costituzione in giù. Ma sono molti i filoni che convergono verso
questa riconduzione dell'economia alle regole di una convivenza democratica: legislazioni
antitrust, norme sulla corporate governance, tutela dell'ambiente naturale, difesa dei
consumatori, vincoli e garanzie sulla qualità e la sicurezza dei prodotti, eccetera, fino
alle stesse normative WTO, la cui improvvisa "popolarità" (o impopolarità) va
considerata comunque come un segnale positivo di presa di coscienza politica globale.
In questo contesto, si chiarisce anche il ruolo delle aziende e
degli imprenditori. Diceva già Adamo Smith: "Il consumo è il solo fine e scopo
di ogni produzione... Il principio si illustra a tal punto da sè che sarebbe assurdo
cercare di dimostrarlo. Tuttavia nel sistema mercantile... sembra che si consideri la
produzione, e non il consumo, come fine ultimo e obiettivo di ogni industria e
commercio". Per certi versi la situazione denunciata da questo padre del capitalismo
è peggiorata, con la crescente finanziarizzazione dell'economia, che troppo spesso perde
di vista non solo il consumo, ma anche la stessa produzione. Ma per altri versi sta
migliorando, perchè da poco tempo si capisce che il profitto è solo uno dei
"derivati", sia pure fondamentale per la sopravvivenza e la crescita di una
azienda, del vero obiettivo dell'azienda: quello di produrre valore per i destinatari dei
suoi prodotti, fisici o intangibili che siano, tenendo presenti anche gli effetti indotti
per i terzi. Valore che naturalmente va inteso come qualcosa che "solleva o
mobilita" i destinatari, come dice Richard Normann, o, secondo l'elevata concezione
ruskiniana della ricchezza, come qualità della vita (questo significa che la droga o le
armi, di regola, non sono un valore, anche se desiderate e pagate a caro prezzo da molti
"consumatori"). [*]
Per concludere: a me piacerebbe che non si parlasse più o si parlasse molto meno di etica
degli affari, di banche etiche, di non profit, eccetera. Tra l'altro, queste stesse
attività possono dare luogo, e hanno in effetti dato spesso luogo, ad attività
affaristiche molto poco etiche. Preferirei che si parlasse tout court di economia
e di attività economiche, e che si cercasse di ricondurle a un sistema di convivenza
civile che non può esistere senza riferimenti etici fondamentali.
Per suffragare la mia aspirazione, faccio due esempi:
- La Grameen Bank di Muhammad Yunus, nata nel Bangladesh e che fiorisce e si sviluppa in
nuove iniziative secondo una logica sanamente business, cioè senza i vincoli , le
sovvenzioni e i paludamenti di una banca etica. Questa banca ha raggiunto alti livelli di
redditività, attribuiti tra l'altro all'elevato frazionamento del rischio (concesso a
migliaia di famiglie povere ritenute normalmente inaffidabili dal sistema bancario
normale!).
- I fondi d'investimento che finanziano aziende che operano in modi e settori del tutto
"normali" (cioè non in iniziative umanitarie, o ecologiche, ecc.), ma che hanno
adottato per le loro strategie e il loro operare quotidiano codici di comportamento
ispirati a specifici principi di deontologia sociale e professionale. Fondi di questo
tipo, inseriti nell'indice americano "Domino 400", hanno visto le loro
quotazioni salire in un decennio del 302%, contro il 267% dell'indice Standard &
Poor's 500. Se ne deduce che le aziende facenti parte di questi fondi mostrano una
maggiore capacità di crescita sostenibile nel lungo termine. Questi fondi mostrano
inoltre una permanenza degli investitori doppia rispetto ai titoli azionari in generale.
Concludo dicendo: forse le mie considerazioni non sono molto bene argomentate, o sono
piuttosto incolte in termini di teoria economica. Ma qualcosa di vero deve esserci. Spero
che qualcuno mi aiuti a precisarle meglio o a rivederle.
[*] Giacomo Correale, il 25 giugno 2000, scriveva in proposito: «Dice Richard Normann,
un rinomato esperto di strategie aziendali, che un fornitore ha due modi per migliorare il
"sistema di creazione di valore" del suo cliente (Normann considera addrittura
il cliente come un soggetto attivo, che usa i beni o servizi acquistati per
"farsi" da solo il proprio valore): o assumersi "attività che i clienti
svolgevano in prima persona, liberando risorse che essi possono dirottare su attività
più vantaggiose" (sgravio"), oppure "aiutare il cliente a fare cose che
prima non avrebbe potuto fare o a farle meglio" (mobilitazione). (v. R.
Normann-Rafale Ramìrez: "Le strategie interattive d'impresa", Etas Libri, 1995,
pg.58-59). Magari uno stereo migliore per ascoltare musica. Quella di Ruskin è una
citazione "rubata" all'economista Marcello De Cecco (La Repubblica, 7 luglio
1997). Scriveva De Cecco: "John Ruskin per le gran parte degli italiani è un
illustre storico dell'arte. Egli è stato invece il pensatore che ha maggiormente
influenzato la classe dirigente inglese e, tramite essa, quella americana alla fine del
secolo scorso e nella prima metà di questo... Cardine della filosofia sociale di Ruskin
era l'idea che la vera ricchezza, sia a livello individuale che nazionale, fosse
costituita dalla "qualità della vita".
Perchè queste citazioni, e soprattutto quest'ultima? Perchè i sostenitori del
"valore per il cliente" come fine dell'azienda, (valore o ricchezza reale da cui
deriverebbe poi il valore monetario in termini di profitti, salari, ecc.), sono indotti a
considerare il cliente come arbitro assoluto del valore stesso. In parole povere, il
valore consisterebbe in ciò che piace al cliente e nella misura in cui gli piace. Secondo
questa logica, qualsiasi cosa, da un semilavorato alla droga, avrebbe valore se il cliente
così valuta. Ciò potrebbe avere senso in una logica puramente economica. Ma la logica
puramente economica è una astrazione come l'homo economicus. Quindi qualche
criterio discriminante sul valore o la ricchezza del, o per il cliente deve esserci. E
Ruskin aiuta a discriminare.»
Questa pagina appartiene al sito della Fondazione
Giannino Bassetti: <www.fondazionebassetti.org> This page belongs to the Giannino Bassetti Foundation Web Site: <www.fondazionebassetti.org> |