Bruno Latour, sociologo francese, ha centrato la sua attività sull'analisi dei
rapporti fra scienza e società, diventando uno dei massimi esperti mondiali in questo
settore. Autore di numerosi testi - ricordiamo Non siamo mai stati moderni
(Eléuthera, 1995), La scienza in azione (Comunità, 1998) e Politiche della
natura (Cortina, 2000) - ha tenuto il 17 novembre 2003, su invito della Fondazione
Bassetti e della Scuola di Dottorato di ricerca del Politecnico di Milano, una conferenza
sul tema degli esperimenti socioscientifici collettivi: esperimenti cioè che non si
svolgono più fra le mura del laboratorio, ma che coinvolgono comunità più allargate e
in alcuni casi l'intera popolazione mondiale. Per ogni informazione sulla conferenza e per ulteriori riferimenti (link), si veda l'item della sezione Argomenti dell'11 dicembre 2003 |
Che cosa intende quando dice che la scienza è diventata una questione politica?
Ciò che intendo dire è che la scienza non è un mondo isolato da cui la politica può distinguersi. In effetti durante il Rinascimento la gente sapeva molto bene che il mondo della discussione politica e quello dei fatti scientifici erano strettamente collegati. Solo più tardi i due campi si sono separati, e si è cominciato a pensare che doveva esserci un'assemblea in cui venivano discussi i fatti della politica (cioè il Parlamento) e un'altra in cui si discutevano i fatti della scienza. Si affermò così l'idea che le due assemblee dovessero restare separate. Tuttavia, se si pensa alle questioni scientifiche che animano oggi il dibattito, come per esempio quella degli organismi geneticamente modificati (OGM), o delle manipolazioni genetiche, diventa evidente che questa separazione non funziona più. Dobbiamo quindi tornare indietro al "Palazzo della ragione", ovvero a uno spazio comune dove politica e scienza possono confrontarsi. Io non sostengo che la scienza è diventata simile alla politica. Questo certamente non è accaduto. Sostengo però che le discussioni scientifiche e quelle politiche dovrebbero svolgersi in uno spazio comune.
Può identificare alcuni eventi che hanno contribuito a rendere la scienza così vicina e interconnessa con questioni più generali?
Se guardiamo agli ultimi secoli si vede che quando Galileo lavorava stava già
affrontando, assieme ai problemi di fisica, questioni religiose e di stato. Più in
generale, considerazioni di questo tipo emergono spesso se consideriamo la storia della
scienza in modo retrospettivo. Ma ci sono anche episodi molto più recenti che ci fanno
capire che le cose stanno così. Fra questi, la vicenda di Chernobyl, o la discussione sul
principio di precauzione, o l'incidente del Columbia, oppure - in Francia - lo scandalo
del sangue contaminato. Sono tutti eventi in cui è difficile distinguere fra ciò che
rientra nella sfera della scienza e ciò che fa parte della sfera della politica.
Che la separazione fra le due sfere non sia più possibile è ancora più evidente in
medicina, dove in tempi recenti sono arrivati nuovi protagonisti: le associazioni dei
pazienti. In alcuni paesi (per esempio, gli Stati Uniti e la Francia), queste
organizzazioni sono diventate molto importanti, tanto che sono in grado di influenzare le
politiche sanitarie ma anche le sperimentazioni e, più in generale, la direzione che
prende la ricerca. Così la gente che interviene nei dibattiti scientifici fa scienza,
anche se magari non se ne rende conto. E' cambiata la scala degli esperimenti, che non si
svolgono più solo all'interno dei laboratori, ma sono esperimenti collettivi, che
riguardano tutti.
Se tutti siamo coinvolti in esperimenti collettivi, chi dovrebbe decidere i "materiali e metodi" e gli obiettivi di questa ricerca? Gli scienziati sono piuttosto restii a concedere che altri entrino nella loro ricerca, ma se l'esperimento riguarda tutti non dovrebbe essere proprio così?
In effetti sì. Non ho una soluzione per questo problema. Quel che è certo è che
quando si tratta di prendere decisioni la separazione fra esperti e pubblico generale non
funziona. Credo che bisognerebbe giungere a protocolli specifici per ogni singolo
problema. Infatti è evidente che il riscaldamento globale o le sperimentazioni dei
farmaci (tanto per fare due esempi) non possono essere affrontati allo stesso modo. Una
delle cose di cui mi sto occupando in questo periodo è proprio come fare a costituire
assemblee ad hoc per ciascuna questione. L'argomento chiave non è contro gli
scienziati, perché gli scienziati devono esserci, in quanto parte dell'esperimento. Ma
per ogni tema bisogna stabilire un protocollo (cioè i materiali e i metodi
dell'esperimento) che tenga conto delle diverse posizioni in campo. Intendo dire di tutte;
comprese, per esempio, quelle che hanno portato in prigione Bovet, che viene considerato
un oscurantista, ma che per altri versi, durante le sue dimostrazioni contro gli OGM non
fa che discutere su come debba essere portato avanti un buon esperimento.
E' chiaro che non esiste un sistema che possa essere applicato a qualunque problema. Ma
così come nel parlamento, in Francia, ci sono senatori in rappresentanza di territori
diversi, lo stesso dovrebbe accadere per le questioni scientifiche.
Questo è ciò che lei chiama il "Parlamento delle cose"?
Sì.
Ma gli
scienziati che cosa ne pensano?
La consapevolezza di che cosa sia la scienza è ferma a un secolo fa per la maggior parte
degli scienziati. Gli scienziati in genere hanno un atteggiamento pedagogico nei confronti
del pubblico, ma questo atteggiamento non corrisponde a ciò che accade nella realtà. E
non corrisponde neppure al tipo di problemi che loro stessi devono affrontare nella loro
carriera, nel corso della quale si misurano con il grande businnes, oppure competono con
ricercatori di altri paesi, e così via. Quando si parla individualmente con loro cambiano
subito idea, ma quando si presentano al pubblico, per esempio attraverso la stampa,
scelgono un atteggiamento pedagogico, che per loro è più conveniente. D'altra parte,
molti politici fanno lo stesso.
Questo è anche un problema di comunicazione, che porta a un'altra conseguenza, che lei sottolinea. Lei sostiene infatti che oggi la rappresentazione della tecnologia avvenga attraverso uno stereotipo fuorviante che tende a enfatizzare i benefici . Quanto gli scienziati ne sono responsabili?
Ne sono responsabili in parte. E' vero infatti che molto spesso gli scienziati tendono a enfatizzare la portata delle loro scoperte, magari perché una ricerca gli è costata anni di fatica, prima per ottenere i finanziamenti e poi per giungere ai i risultati. Questa però è solo una parte delle motivazioni. Infatti, la tendenza a rappresentare la tecnologia attraverso l'enfasi è diffusa. Di fatto, non è stato inventato un modo di ri-rappresentare la tecnologia come qualcosa che ha a che fare con la comunità delle persone invece che soltanto con i dati di fatto. E' più facile raccontarne i risultati come dati di fatto, enfatizzandone il ruolo. D'altra parte, quello di enfatizzare il risultato è il modo attraverso cui comunemente si parla di tecnologia, mentre risulta difficile raccontare e rappresentare l'intero processo. In questo modo però la tecnologia non viene contestualizzata. Inoltre, si tralascia di parlare del percorso di ripensamenti e fallimenti che può stare dietro all'ottenimento di un risultato.
(17 novembre 2003, pubblicata l' 11 dicembre 2003)
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