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L'imponderabilità dell'innovazione
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In un item precedente ( Come misurare la scienza) si è visto come attraverso le citazioni sia possibile individuare i canali di ricerca più produttivi. Come si legge nell'articolo di Francesco Daveri L'innovazione dipinta apparso nelle pagine culturali de Il Sole 24 Ore del 21 luglio, una metodologia analoga è stata adottata da David Galenson, esperto di art economics di Chicago. «Ha stilato una classifica dei più importanti dipinti e pittori del ventesimo secolo sulla base della frequenza con cui le immagini delle opere del '900 sono riportate sui più famosi compendi di storia dell'arte dal 1990 in poi». E' interessante vedere alcuni risultati della ricerca di Galenson: «Picasso, il più grande artista del Novecento secondo il criterio di Galenson, ha messo le basi del cubismo dipingendo cinque prostitute di Barcellona nel quadro Les Demoiselles d'Avignon (il miglior quadro del '900 nella classifica di GalensOn) nel 1907 e ha poi esteso l'ambito di applicazione del cubismo a tematiche politico-sociali con Guernica nel 1937. Matisse ha fondato la breve stagione del Fauvismo con I dipinti del 1905. In altri ambiti e periodi, Warhol, con le sue trentadue lattine di zuppa Campbell del 1962, ha insegnato al mondo che anche produrre immagini in serie impiegando tecniche meccaniche era comunque arte. In tutti i casi, l'arte di dipingere non è più stata la stessa dopo Picasso, Matisse e Warhol». Ma altrettanto interessante è il parallelismo che Daveri pone fra innovazione artistica e innovazione tecnologica. «Un dipinto è particolarmente significativo non solo perché è bello secondo il canone estetico del tempo ma soprattutto se cambia il modo di dipingere degli altri pittori. Vale anche per le innovazioni economiche: le tecnologie dell'informazione sono così importanti perché sono suscettibili di molteplici impieghi e offrono la possibilità di generare tante altre innovazioni. Ma è lo stesso anche in campo scientifico, dove un articolo è rilevante se esce su una buona rivista e ha un alto impatto sull'attività scientifica di altri ricercatori». Come già osservato nell'item "Come misurare la scienza", il contare le citazioni è un metodo empirico che si presta a notevoli critiche, prima fra tutte che essa certifica le innovazioni solo consolidate. Probabilmente nel 1910 solo pochissimi testi avrebbero preso in considerazione Les Demoiselles d'Avignone", come d'altra parte la teoria della relatività einsteiniana. Perciò, nell'articolo citato, viene presa in considerazione la possibilità di basarsi sul valore di mercato. Ma anche qui sorgono difficoltà analoghe, se non superiori. Qual'è il valore di mercato della Gioconda?. Il discorso poi si complica ancora di più se pensiamo alle innovazioni facilmente riproducibili. L'"Ulisse" di Joyce vale forse i 10 euro di qualche edizione tascabile, e l'invenzione del Pc circa 1000 euro. A quattro secoli di distanza dal sogno del "calculemus" di Leibniz, forse dobbiamo ancora accontentarci che il mondo è il dominio dell'imponderabile.
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lunedì, luglio 31, 2006  |
Chi ha paura del robot
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Il robot non è solo un simbolo dell'innovazione, ma ne può essere anche un paradigma. Infatti se un robot nelle sue funzioni più elementari può essere visto come uno strumento che aiuta l'uomo, sostituendolo in operazioni complesse e faticose e spesso impossibili agli uomini, tanto più esso assomiglia all'uomo esso diventa inquietante e suscita sentimenti di repulsione e pericolosità Esso diventa un altro da sé che in prospettiva è destinato a soppiantarci. L'articolo di Roberto Casati Robottino tu mi turbi apparso su Il Sole 24 Ore del 16 luglio, illustra le ragioni cognitive del come al crescere della somiglianza con gli esseri umani, gli androidi anziché sembrarci famigliari ci inquietano e ci fanno precipitare nella "valle del perturbante". Quello che mi sembra sfuggire all'analisi di Casati è il perturbamento di fronte alla "possibile" perfezione dell'artificiale. Se il nostro simile è troppo perfetto, non può che inquietarci, infatti prima o poi ci soppianterà. E questo sarà tanto perturbante se il proprio simile è un dissimile che si può riprodurre indefinitamente. Esemplare è la diffidenza che si riscontra sul tema della manipolazione genetica, come nel caso di Habermas e il suo libro "Il futuro della natura umana: i rischi di una genetica liberale" (Vedi in rassegna stampa Febbraio 2003)
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lunedì, luglio 24, 2006  |
Un decalogo per l'It
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Come è ben noto il termine etica viene declinato in molti modi. Se bioetica è ormai una disciplina con una propria autonomia, vediamo che sempre più spesso si parla anche di etica degli affari, etica della politica, e dopo le note vicende italiane, pure, di etica dello sport. Su Nòva, supplemento de Il Sole 24 Ore dedicato a tecnologia e innovazione, il 22 giugno è stato pubblicato, a firma di Luca Tremolada, l'articolo La morale dell'ingegnere si riflette nelle sue macchine in cui viene affrontato il tema della Computer Ethics. La prima parte dell'articolo si rifa alle origini di questa nuova disciplina. «Quando le persone entrano nella sala computer lasciano l'etica fuori dalla porta». Scriveva così nel 1968 Donn Parker, uno dei più noti ricercatori dello Stanford Research Institute. Nello storico articolo «Rules of ethics in information processing», Parker analizza per la prima volta alcuni esempi di reati informatici e di comportamenti scorretti accendendo un faro sul tema allora poco frequentato dei rapporti fra etica e informatica». Si veda anche Computer Ethics: Basic Concepts and Historical Overview. Anche se si era alla fine degli anni Sessanta cominciava a farsi strada la coscienza che esistesse un rapporto far etica e It. «La riflessione diventa azione. Passano quindici anni e a Palo Alto nasce la Cpsr (Computer professional for Social ResponsibiLity) la prima organizzazione di docenti e, universitari, ricercatori e professionisti dell'It (Information technology).» Il primo atto della Cspr fu: «contro il progetto Sdi (Strategic defense initiative) annunciato dal presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e conosciuto come Scudo stellare. Fuori c'è la guerra fredda. L'associazione lancia l'allarme criticando la scelta di lasciare il lancio dei missili intercontinentali nelle mani di computer. Il titolo del libro che raccoglie le posizioni del Cpsr è esplicativo: Computer in battle: will they work? Già, funzioneranno i computer? La seconda parte dell'articolo consiste in una intervista a Richard T. De George, 70 anni, professore di Filosofia e di Business, realizzata al termine dell'incontro organizzato da Sia nell'ambito del ciclo di conversazioni "Eticamente" Per De George occorre sfatare il Mito dell'amoralità di computer e tecnologia dell'informazione. «Ovviamente i computer sono un tipo di macchina e non esseri umani, ma vengono sviluppati, programmati e usati da esseri umani. Il mito maschera il fatto che chi usa il computer è responsabile del computer stesso e del suo corretto utilizzo. Mentre spesso se qualche cosa non funziona si tende a dare la colpa alle macchine». Poiché, come nota De George: «computer e tecnologia dell'informazione si sono sviluppati così rapidamente che le intuizioni morali del singolo e della società nel suo complesso non hanno avuto tempo di formarsi e svilupparsi». Ne nasce che: «La sfida nell'Era informatica è approvare le leggi necessarie prima del consolidamento di prassi dannose. Ma questo non può avvenire solo su scala nazionale. E in ogni caso non basta. Perché la legge non arriva dappertutto e spesso è un limite all'innovazione.» Di fronte a questi limiti: «Un ruolo fondamentale lo hanno gli ingegneri, i programmatori, 1'It people. Che si devono autoregolamentare come avviene nella professione medica. In realtà loro sono i soli che hanno la possibilità di capire le conseguenze delle tecnologie che stanno mettendo a punto. E quindi hanno il dovere di anticipare eventuali problemi che possono emergere. C'è un altro aspetto: il management. Chi decide in azienda spesso non possiede le conoscenze per valutare o impiegare nel modo ottimale le tecnologie. Ha bisogno di esperti. E occorre cominciare a capire che ingegneri, informatici e tecnici dei computer sono dei professionisti investiti di una responsabilità. Non possono limitarsi a dire: «Sono pagato per eseguire un compito». Devono invece utilizzare le proprie competenze per il bene dell'azienda». L'articolo citato è accompagnato da un decalogo per l'It: 1. Non usare il computer per danneggiare altre persone 2. Non interferire con il lavoro al computer di altre persone 3. Non spiare il file di altre persone 4. Non utilizzare il computer per rubare 5. Non utilizzare il computer per dire falsa testimonianza 6. Non usare o copiare software proprietario senza averlo pagato 7. Non utilizzare le risorse degli altri senza autorizzazione o senza un adeguato compenso 8. Non appropriarsi dei risultati del lavoro intellettuale altrui 9. Pensa sempre alle conseguenze sociali dei programmi che stai scrivendo del sistema che stai progettando 10. Usare sempre il computer dimostrando rispetto e considerazione verso le altre persone
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mercoledì, luglio 12, 2006  |
Un manifesto per i "prosumi"
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L'ultimo numero di «Aspenia», la rivista dell'Aspen Institute, è dedicato al futuro dei media e all'impatto delle nuove tecnologie. Qui di seguito viene proposto uno stralcio dell'intervista di Nathan Galders al futurologo Alvin Toffler, pubblicata su Il Sole 24 Ore il 13 giugno Una ricchezza senza moneta. La tesi avanzata da Toffler è che molte delle applicazioni dell'innovazione tecnologica stanno creando un mercato parallelo a quello dove beni e servizi vengono scambiati su base monetaria. In altre parole si dilata la pratica del "fai da te" con la conseguenza di sottrarre al mercato parte degli scambi economici, e superare la dicotomia fra produttori e consumatori. «L'economia tradizionale, infatti, si basa sul concetto di penuria o scarsità di beni. Ma la conoscenza è sostanzialmente inesauribile. Se tu coltivi riso in una risaia, io non posso coltivarlo in quella stessa risaia nello stesso momento. Se usi una macchina utensile, io non posso usarla nello stesso momento. Ma entrambi possiamo utilizzare la stessa conoscenza contemporaneamente senza esaurirla. Chiunque può utilizzare l'aritmetica senza correre il rischio di esaurirla. Anzi, più persone utilizzano la conoscenza in contemporanea, più è probabile che creino nuova conoscenza. La conoscenza è in assoluto il prodotto più facile da trasportare. Può essere compressa in simboli e astrazioni. Tende a diffondersi ed è difficile da occultare e proteggere. Non è lineare, nel senso che piccole intuizioni possono portare enormi risultati e, soprattutto, è intangibile.» Paradigmatico, per Toffler, il caso di Linux: «È probabile che l'economia non monetaria generi altrettanto valore di quella monetaria, perché esistono una miriade di attività non retribuite che alimentano gratuitamente l'economia monetaria. Anzi, in realtà la sovvenzionano. Pensiamo, ad esempio, al software open source Linux e all'enorme impatto che ha avuto in tutto il mondo. Questo software è stato inizialmente prodotto da Linus Torvalds gratuitamente, quasi per hobby, e in seguito ha calamitato un gran numero di programmatori che senza alcun compenso lo hanno modificato, adattato e ampliato, stimolando altri programmatori ancora a dedicare un po' del loro tempo, sempre su base gratuita e volontaria, a produrre altri tipi software. Quest'attività "prosumistica", tutta nell'ambito dell'economia non monetaria, ha trasformato il modo di produrre software nell'economia monetaria.» La labilità del confine tra produzione e consumo, ha indotto Toffler a coniare il neologismo "peismi": «Sono sempre più numerose le aziende operanti nell'economia monetaria che "esternalizzano" il lavoro, - chiedendo ai clienti di svolgere compiti in precedenza affidati ai loro dipendenti. Quando, ad esempio, noi usiamo il bancomat e inseriamo da soli il codice, questo è prosumo: la conseguenza, fra l'altro, è che le banche licenziano i cassieri. Ancora: in passato mandavamo le pellicole fotografiche alla Kodak per farle sviluppare e stampare. Oggi effettuiamo da soli queste operazioni con le nostre mani. Ci controlliamo da soli il diabete. Produciamo da soli i nostri film digitali e i cd musicali. E questo è solo l'inizio. Stiamo per assistere al boom del lavoro non retribuito. Presto avremo un miliardo di ultrasessantenni nel mondo che - almeno nei Paesi dell'Ocse - utilizzeranno le nuove tecnologie - dall'autodiagnosi alleanalisi a casa - per fare da soli ciò che un tempo facevano i medici.» Qualche anno fa (1999) il filosofo Ermanno Bencivenga ha pubblicato da Feltrinelli il volume Manifesto per un mondo senza lavoro. All'epoca della sua pubblicazione il libro di Bencivenga era apparso come una generosa e affascinante utopia. Alla luce, però, delle riflessioni di Toffler, dobbiamo riflettere quanto gli scenari dei futurologi non debbano alle utopie dei filosofi. Sul libro di Bencivenga vedi le recensioni: Lavoratori, prendetevi tempo di Paola Springhetti da Avvenire 11 febbraio 1999; Questa è l'isola del lavoro che non c'è editoriale de Il Sole 24 Ore del 14 marzo 1999.
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lunedì, luglio 03, 2006  |
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