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Rassegna stampa sulla conferenza che Bruno Latour ha tenuto a Milano il 17 novembre 2003
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La conferenza che, su invito della Fondazione Giannino Bassetti e della Scuola di Dottorato di ricerca del Politecnico di Milano, Bruno Latour ha tenuto al Politecnico il 17 novembre 2003, ha avuto un notevole riscontro sulla stampa e nella comunicazione on line. Qui di seguito ho riprodotto quegli articoli che, a mio parere, sono stati i più significativi avendo raccolto i contenuti dell'iniziativa. - Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2003, Bruno Latour,
Ecco le regole per fare esperimenti socio-scientifici
- Sette (inserto del Corriere della Sera), 4 dicembre 2003, Giulio Giorello,
«Il segreto della scienza? E' la democrazia»
- [aggiornamento del 15 dicembre]
Galileo, dicembre 2003, Mauro Scanu, Tecnologia e partecipazione
- [aggiornamento del 20 dicembre]
Reuters, 17 novembre 2003, Roberto Bonzio Tecnologia e partecipazione
- Corriere del Ticino, 11 dicembre 2003, Sergio Roic
E se «glocalizzasimo» la tecnica?
Il SoLe 24 Ore, 16 novembre 2003, Bruno Latour, Ecco le regole per fare esperimenti socio-scientifici Le regole di metodo degli esperimenti scientifici ci sono familiari. Da Bacone e da Cartesio in poi, ogni scienziato famoso o quasi ha scritto un insieme di regole per orientarsi mentalmente e, oggi, per rendere il proprio laboratorio più creativo, organizzare la propria disciplina o promuovere una nuova politica della ricerca. Sono regole forse insufficienti per garantire il raggiungimento di risultati interessanti, ma utili per definire lo stato dell'arte... Lungi da me proporre altre regole ancora. Vorrei invece esplorare una questione di cui l'opinione pubblica è consapevole da poco, quella degli esperimenti collettivi o socio-teorici. Che cosa sono? Sono condotti in maniera selvaggia, senza alcuna regola? E opportuno trovare regole per condurli? Che cosa comportano per l'antica definizione di razionalità e di condotta razionale? E per una concezione specificamente europea di democrazia? Partecipiamo tutti quanti a esperimenti collettivi che superano i confini dei laboratori; per averne la prova basta leggere i quotidiani o guardare i telegiornali. L'anno scorso, migliaia dì funzionari, poliziotti, veterinari, allevatori, doganieri, pompieri lottavano contro l'afta epizootica che devastava le campagne. Non era una novità: la sanità pubblica è stata inventata due secoli fa per prevenire la diffusione delle malattie infettive, prima con la quarantena e poi con la disinfestazione e la vaccinazione. Era nuovo, invece, e preoccupante e degno di nota il fatto che l'epidemia fosse dovuta proprio alla decisione collettiva di non vaccinare gli animali. In quella crisi non eravamo confrontati, come i nostri predecessori, a una malattia letale da combattere con le armi approntate nel laboratorio di Robert Koch, di Louis Pasteur o dei loro discendenti: eravamo alle prese con le conseguenze indesiderate - ma ben prevedibili - della decisione di sperimentare su scala europea per sapere quanto tempo sarebbe trascorso prima che greggi non vaccinate fossero colpite da afta epizootica. Un buon esempio di quello che Ulrich Beck chiama «un rischio confezionato». Cito questo caso non per suscitare sdegno o dire che le greggi andavano vaccinate, "naturalmente". Non per denunciare lo scandalo di interessi economici che sono prevalsi sulla sanità pubblica e il benessere degli allevatori. Esistono, lo so, molti motivi per non vaccinare. Ma è stato fatto un esperimento collettivo... e intendo chiedere se è stato progettato bene o male. In passato, quando uno scienziato o un filosofo della scienza voleva stabilire regole di metodo, pensava a un luogo chiuso dove un piccolo gruppo di esperti riproduceva su scala più piccola o più grande dei fenomeni che poteva ripetere a volontà verso simulazioni o modelli, prima di presentare, più tardi, molto più tardi, i risultati che soltanto allora sarebbero stati usati, applicati o provati su grande scala. Riconosciamo qui la teoria, "a goccia" dell'influenza scientifica, la conoscenza che emerge da un centro circoscritto di illuminismo razionale e, lentamente, percola nel resto della società. L'opinione pubblica poteva scegliere se ignorare o meno i risultati delle scienze di laboratorio, ma non poteva aggiungerci qualcosa, contestarli e men che meno contribuire alla loro elaborazione. La scienza era ciò che veniva fatto da gente in camice bianco che conduceva esperimenti con animali, materiali, cifre e software. Fuori dai confini del laboratorio iniziava il regno della semplice esperienza. ritorna all'indice degli articoliSette, 4 dicembre 2003, Giulio Giorello «Il segreto della scienza? E' la democrazia»«Anche noi facciamo parte del cosmo, e dovremmo vivere circondati dalla bellezza». Così ha parlato (lo scorso 17 novembre 2003) Bruno Latour al Politecnico di Milano, su invito della Fondazione Giannino Bassetti - ricordando l'etimologia comune tra cosmo («l'armonia delle cose esistenti») e cosmetica, un'arte che le belle signore conoscono. E se in passato indicava la parte della filosofia che rifletteva sull'origine del mondo, cosmologia è oggi una scienza il cui laboratorio è l'Universo. Cinquantacinque anni, Latour insegna alla parigina Ecole des Mines; ha esordito più di una ventina di anni fa come «il più strano degli antropologi» attento a ricostruire le credenze e i rituali della tribù degli scienziati. Ma i suoi laboratori sono ora fabbriche, ospedali, piattaforme spaziali, e anche le nostre case e città». Quasi «impalpabile» è oggi il confine tra storia naturale e scienza di laboratorio, tra esperti e grande pubblico, tra natura e artificio. Gli scienziati non sono più i soli a individuare i problemi e a cercare le soluzioni: in America, per esempio, intervengono nella ricerca gruppi organizzati di malati di Aids; e la questione delle fonti di energia viene sollevata da gente comune». Gli esperimenti che Galileo faceva a casa sua e il gruppo di Fermi ancora in uno scantinato si svolgono adesso su scala mondiale. «Siamo tutti sulla stessa barca», dice Latour riprendendo Pascal quando invitava a scommettere sull'esistenza di Dio. «Ma ora rischiamo i nostri beni, le nostre vite, la salvezza della nostra civiltà. Prendete il riscaldamento del Globo. I nostri esperti di Apocalisse elaborano al computer modelli sofisticati per convincerci delle loro profezie, ma il vero esperimento viene effettuato su di noi, con noi, attraverso l'azione di ciascuno di noi, e coinvolge oceani, terre emerse, gli strati alti dell'atmosfera... Siamo davvero noi i colpevoli? Per rispondere dovremmo eliminare le emissioni che ci sembrano nocive e poi stare a vedere cosa succede. L'esperimento coinvolge la Terra intera e può richiedere parecchie generazioni. «Eppure», ribatte Latour, «dobbiamo tentare! Altrimenti avrebbero ragione le Cassandre che dicono che la natura è un ammasso di rovine, e che tali rischiano di diventare le nostre metropoli». Sarei tentato di aggiungere (con Woody Allen) «e anch'io non mi sento troppo bene». Dov'è finita la bellezza? Nelle mani dei tecnocrati o in quelle degli ambientalisti? Per Latour è un errore contrapporre cultura e natura obbligando a prender partito per l'una contro l'altra. «Perché in una regione montana dovemmo preferire i lupi alle pecore? Perché vietare a un discendente della pecora Dolly (o a un qualsiasi Mr. Smith) di fotocopiarsi in migliaia di cloni? Perché riservare l'acqua dei fiumi ai pesci, piuttosto che ai campi di mais sovvenzionati dalla Comunità Europea?». In un mondo unificato da computer e telecomunicazioni, «come accogliere nella Rete del Virtuale la totalità degli esseri che ci interessano - pecore, lupi, pastori, trote, contadini, sovvenzioni e correnti?». In una sede come il Politecnico Latour ha sostenuto che lo stesso avviene nel design, dove si tratta di «Assemblare» cose diverse sperimentandone la compatibilità, in modo da capire come resistere a qualsiasi «violenza» che miri a espellerne qualcuno dei componenti. «Che cosa è mai una foresta senza lupi? O un pesce senz'acqua? O un pastore senza pecore? O una produzione di mais senza mercato protetto?». Assemblaggio richiama assemblea, quella che è stata la struttura base della democrazia, dai tempi di Pericle a quello dei nostri Parlamenti. «Anche le assemblee», rincalza Latour, «possono sbagliare. L'Atene democratica ha condannato Socrate. Non meno grave è l'espulsione della politica, teorizzata da alcuni dei fondatori della scienza moderna: agli scienziati spetta quello che è determinabile con rigore, i dati di fatto; ai politici, o magari ai poeti, i giudizi di valore, la sfera dei sentimenti, ove regna l'opinione». Conosco Bruno da vent'anni: per lui, la natura non è né madre né matrigna; piuttosto, è un'occasione. Quando ha indossato le vesti dell'«antropologo della scienza», Latour ha scandalizzato scienziati e filosofi che lo accusavano di «lesa oggettività del sapere - e si è trovato «compagno di strada» Di David Bloor, il «sociologo della scienza», di Edimburgo che sostiene che le istituzioni della società condizionano gli stessi contenuti della ricerca. Se è così, doveva ribattergli Latour, come siamo sicuri che lo sguardo dell'antropologo o del sociologo sia il solo immune da pregiudizi o condizionamenti? Bloor lo ha «scomunicato», giungendo a scrivere un vero e proprio Anti-Latour. Bruno gli ha replicato di «voler giocare al Kant postmoderno, che pone al posto dell'Io legislatore del mondo l'intera società». Latour si è fatto invece avvocato delle «cose in sé»: «particelle subatomiche, atomi e molecole, ma anche virus e batteri, geni o magari gli Ogm», tutte entità che diventano «Cose per noi» man mano che trovano la loro «rappresentanza» in quelli che Latour chiama i «Parlamenti ibridi fatti di umani e non-umani». In altre parole, si tratta di rendersi conto che le entità che via via andiamo scoprendo o inventando - dai vaccini agli animali transgenici, alle «macchine intelligenti» -devono trovare un riconoscimento politico non meno valido della rappresentanza di donne e di uomini su cui si basa la democrazia dei nostri giorni. Chiedo a Bruno, che sovranità avrà mai questa democrazia politecnica? Latour risponde con un gioco di parole: si tratta di sfruttare la nostra abilità politico-tecnica; la tecnica non è ripetitiva costruzione di strumenti, bensì il regno del sorprendente e dell'inaspettato. Basti pensare alla storia delle lenti, dai modesti occhiali al «cannocchiale» con cui Galileo esplorò «non ancor vedute parti del cielo»; o magari, «alla mutazione della Rete, da originario strumento di comunicazione militare a labirinto di libere espressioni della società civile». Piace a Latour quest'immagine della tecnica come labirinto, è solo percorrendolo che gli uomini sono diventati davvero umani. «Con Dedalo che comincia la nostra storia». Ci salutiamo con la battuta finale del romanzo di Joyce: «Dedalo, vecchio artista, fai ora e sempre buona guardia». ritorna all'indice degli articoliGalileo, dicembre 2003, Mauro Scanu Tecnologia e partecipazione [link al testo on line nel sito www.galileonet.it] "Assemblea o assemblaggio?". Dietro questo gioco di parole si nasconde una delle tipiche provocazioni del filosofo e antropologo Bruno Latour. L'occasione per lanciarla è stata la tavola rotonda organizzata al Politecnico di Milano dalla Scuola di Dottorato di Ricerca dell'istituto e dalla Fondazione Giannino Bassetti che si è tenuta lo scorso 17 novembre. Può la tecnologia vivere indipendentemente dalla politica? Il celebre intellettuale francese sembra non avere dubbi nel rispondere di no. "Le tecnologie non sono solo assemblaggi di parti ma anche assemblee nel senso politico del termine", ha esordito Latour: "Non solo perché la fase di progettazione e di creazione è ormai un momento collettivo in cui intervengono scienziati, ingegneri, tecnici e amministratori politici, ma anche perché gli artefatti una volta costruiti necessitano poi di custodi, sorveglianti e ispettori che si inseriscono in un ambito sociale". Questa catena di attori costituisce la cosiddetta "società del rischio", in cui ognuno - individuo o istituzione - controlla una porzione più o meno ampia e approfondita del sapere e allo stesso tempo detiene una parte di responsabilità nel funzionamento dell'intero meccanismo. Che è così complesso da non poter funzionare con le competenze dei singoli individui: nemmeno il miglior ingegnere aeronautico potrebbe pretendere da solo di far volare un Boeing 747. Secondo Bruno Latour svelare la trama di questo complesso tessuto socio-tecnico, in cui interagiscono elementi umani e non umani, tecnologici e sociali, è però tutt'altro che facile. "Ci sono dei momenti in cui queste connessioni diventano più chiare, per esempio le catastrofi: un caso evidente può essere il disastro dello shuttle Columbia", ha spiegato nel suo intervento. "Di norma il pubblico non è molto interessato a vedere una navetta sulla pista di lancio, che è materia per un ingegnere della Nasa e non per l'uomo della strada. Dopo l'incidente però, il problema è diventato sociale e c'è stata una corsa collettiva a curiosare dentro la scatola nera, a maneggiare i pezzi del puzzle tecnologico. È interessante notare che solo allora in molti si sono accorti dell'esistenza di un apparato istituzionale alle spalle dell'impresa scientifica e tecnologica. Quell'insieme di attori che in modo più o meno evidente permette continuamente il compromesso tra innovazione tecnologica e società". Come ha messo in evidenza Piero Bassetti, presidente della fondazione omonima, l'intuizione di Latour è fondamentale per ragionare sulla tecnologia non più in quanto semplice scoperta tecnica, ma come motore del cambiamento sociale e politico. Di conseguenza è necessario indagare sulle responsabilità che a essa sono legate. L'innovazione tecnologica non è asettica, proprio perché aiuta a modellare con decisione il mondo in cui viviamo: l'attribuzione di responsabilità quindi non può prescindere dal controllo democratico. "Ci sono pensatori anche molto influenti che tendono a considerare la scienza come impresa culturale, e a relegare la tecnologia a un ruolo di subalternità, mero strumento applicativo del progresso scientifico", ha commentato Roberto Verganti, direttore della Scuola di Dottorato di Ricerca del Politecnico di Milano. "Uno fra questi è Umberto Veronesi, che recentemente ha dichiarato che il compito dell'innovazione tecnologica è esclusivamente quello di attuare ciò che produce la scienza. Ma la realtà non è così polarizzata, come cerchiamo di insegnare agli studenti della Scuola di Dottorato". Di conseguenza ben venga la proposta latouriana di istituire un Parlamento delle Cose, in cui sia possibile rappresentare umani e non umani implicati nelle controversie scientifiche. Visto che la parola scientifico si può sempre più leggere come politico, e ciò è confermato da problemi quali il riscaldamento globale o la scelta dell'energia nucleare. Per l'intellettuale francese non si potrà più fare a meno di forum che rappresentino le nostre opinioni in merito all'innovazione, che ci garantiscano nello scegliere cosa sia meglio per il nostro domani. Il nostro compito allora dovrebbe essere quello di guardare al passato, a quando i padri della democrazia gridavano "nessuna tassa senza rappresentanza". Per evitare di subire mestamente un percorso già segnato da un'élite, secondo Latour lo slogan oggi deve essere attualizzato: "nessuna innovazione senza rappresentanza". ritorna all'indice degli articoliReuters, 17 novembre 2003, Roberto Bonzio Tecnologia e partecipazione [l'articolo è stato pubblicato nel sito della Reuters- In un'epoca di certezze cadute, in cui istituzioni, politica e società occidentali stanno ridefinendo la propria identità, la scienza ha travalicato i limiti in cui era confinata un tempo, ha un ruolo prezioso ma non ha ricette o formule magiche da proporre.
E' quanto dice Bruno Latour, sociologo e antropologo francese, tra i principali studiosi del rapporto tra scienze e società, spiegando che la prima può semmai insegnare un metodo per gestire l'incertezza, che è quello di non cercare dogmi ma convivere col dubbio e progredire grazie ad esso.
Latour è stato protagonista oggi al Politecnico di Milano di una conferenza organizzata con la Fondazione Bassetti, che giocando su un'ambiguità dell'inglese (assembly può significare sia assemblea che assemblaggio), col titolo "Assembly or assemblage? Politics and Politechnics" si ripropone di far riflettere sul principio che non vi possa essere innovazione senza una forma rappresentativa, una sorta di "Parlamento delle cose" per le nuove democrazie tecnologiche.
"Difficile decidere come combattere il riscaldamento globale del pianeta con le teorie di Karl Popper", ha detto a Reuters Latour, facendo riferimento al pensiero del filosofo austriaco. E ammettendo che la stessa filosofia della scienza può rivelarsi inadeguata per i problemi attuali. Perchè dopo tutto è vecchia solo di un paio di secoli ed è nata per contrapporre una propria visione a quella della religione.
UN PIANETA "LABORATORIO"
Non che il rapporto tra scienza, tecnologia e questioni politiche sia una novità, da Leonardo in poi, dice Latour.
Lo studioso sottolinea come per gli scienziati sia venuto meno quello che in passato era un cardine del loro pensiero: scrivere le regole del metodo pensando ad un luogo chiuso, il laboratorio, per un gruppo di esperti impegnati a provare e ripetere esperimenti in scala prima di diffondere i risultati ottenuti.
Oggi invece, ricorda Latour, il "laboratorio" è il pianeta stesso, si sperimenta in case, ospedali e industrie, geologi e naturalisti possono fare misurazioni attraverso una rete di satelliti. Col risultato di ridurre drasticamente il diaframma tra storia naturale (scienza esterna) e scienza di laboratorio.
Inoltre, dice ancora Latour, molte più persone fanno domande ed esercitano pressioni sugli scienziati, dalla ricerca sull'Aids agli organismi geneticamente modificati. Un fattore questo che ha ribaltato un caposaldo dell'imprenditoria scientifica. Visto che ingenti investimenti nella ricerca in un settore possono essere vanificati, malgrado i risultati, da una reazione negativa dell'opinione pubblica, come nel caso degli ogm.
Questa uscita in campo aperto della scienza nella vita quotidiana, dice Latour, spaventa molti umanisti che sognano una separazione tra controllo della scienza e regno dei valori umani, una divisone tra "persone e cose" che invece il sociologo francese definisce un incubo, difendendo il principio del progettare cose in contatto col mondo dell'uomo.
SCIENZA E POLITICA SENZA DOGMI
Se la scienza fatica a trovare una formula ideale nel rapporto con la società, la politica non è meno anacronistica, visto che "abbiamo inventato una soluzione per le elezioni, per le tasse, il consenso... non certo per come vada fatta la scienza o la tecnologia", dice ancora Latour. Che individua nei contrasti e le contraddizioni dell'attualità spunti di riflessione. Come nella vicenda della ricerca di armi di distruzione di massa in Iraq.
"Il capo degli ispettori Onu Hans Blix aveva definito un metodo di ricerca e si è dimostrato più avanzato politicamente e scientificamente del presidente Usa George W. Bush che l'ha voluto interrompere", dice lo studioso a proposito della controversia con la quale l'amministrazione Usa ha deciso l'intervento in Iraq, denunciando la presenza di armamenti che gli ispettori Onu non avevano trovato e che dopo l'occupazione non sono più spuntati fuori.
Forse è il procedere senza dogmi ma alla ricerca di una verità non preconcetta, la regola che la politica può mutuare dalla scienza, fa capire Latour. Ricordando che il principio di precauzione adottato dai Paesi europei può essere proprio il nuovo modo di essere all'interno dell'Europa.
"L'Unione Europea lo sta usando per parlare di noi stessi. Ed è diventato un modo per definire la propria identità". ritorna all'indice degli articoliCorriere del Ticino, 11 dicembre 2003, Sergio Roic E se «glocalizzasimo» la tecnica?Approfittando della presenza del celebre filosofo e sociologo delle scienze francese Bruno Latour per una lecture al Politecnico di Milano (organizzata in collaborazione con la Fondazione Giannino Bassettí, che si occupa dello sviluppo sostenibile), lo abbiamo intervistato su argomenti di grande attualità come il nuovo pensiero glocal, il ruolo della tecnica nelle società evolute e il futuro di quest'ultime. Autore di numerosi libri, tradotti anche in italiano (ne citiamo solo due: Non siamo mai moderni e Politiche della natura), il professor Latour è considerato uno dei massimi esperti mondiali di ecologia e politica applicata all'ecologia. La soluzione all'impasse tra politica e natura che Latour propone sono le seguenti: poiché la politica è sempre stata fatta sotto gli auspici della natura, non si è mai usciti dallo stato di natura e il Leviatano resta da costruire; l'ecologia politica prima maniera ha creduto di innovare mettendo la natura in politica, mentre ha finito coll'aggravare la paralisi alla politica causata dalla vecchia natura per ridare senso all'ecologia politica, occorre abbandonare la Scienza per le scienze, concepite come socializzazione dei non umani; le istituzioni che permettono questa ecologia politica esistono già tutte in filigrana nella realtà presente; alla celebre domanda «Che fare?» si può dare un'unica risposta: «Ecologia politica!». Professor Latour, le farò alcune domande sul pensiero, o costellazione come alcuni preferiscono chiamarla alludendo al saldo connubio fra riflessione e prassi, glocal. Nei suoi libri mi sembra di aver trovato delle idee vicine a tale pensiero. E' possibile applicare i dettami del glocal (decentramento, reti, pari opportunità), che indicano in una governance decentralizzata il superamento di politiche (anche scientifiche) centralistiche e "senza volto" o senza responsabilità, a quel delicatissimo contesto in cui gli attori della scienza incontrano quelli della politica? «Direi che se, la globalizzazione per adesso è piuttosto una provincializzazione a livello mondiale nel cui ambito un ristretto numero di persone fa rete con un altro ristretto numero di viventi dall'altra parte del mondo e se il globalismo, dunque, non fa altro che mettere in rete dei provincialismi, una visione glocal applicata correttamente alla realtà è in grado di far riemergere il valore delle realtà locali. Tutte queste realtà diventerebbero così capaci di produrre milieu nel cui ambito sarebbero pure capaci di relazionarsi efficacemente. Là dove le politiche della natura hanno un legante col glocal è nell'ambito dell'ecologizzazione delle pratiche, l'ecologia non essendo la politica della natura nel senso di interessi alla natura, ma nel senso di ecologizzare le pratiche rivolte verso la natura. Ecologizzazione delle pratiche suppone in effetti una rilocalizzazione. La caratteristica di tutti i fenomeni ecologici comporta il fatto che essi sono tutti complicati, localizzati e che evoluiscono verso forme inaspettate; necessitano quindi di grandi precauzioni. Il vecchio modello di tecnica, nel cui ambito la tecnica era padroneggiata dall'uomo, era in effetti un modello efficace: non c'era intatti bisogno di far particolarmente attenzione ai risvolti negativi di una tecnica non ancora padrona del mondo, Oggi, naturalmente, tutto è cambiato e la tecnica ci appare, a giusto titolo o meno, onnipotente. »
Per quel che concerne la techné che, strumento di progresso sin dal tempo degli antichi greci, ha finito per conquistare il mondo costituendosi alfine come potere concreto tecnologizzato, ovvero come intreccio di capitale e innovazione, è possibile riorganizzarla in modo più «democratico» affinché cessi di essere un potere «senza volto»? «In realtà la questione è più sottile perché coloro che dominano, nel mondo, in realtà non dominano affatto. La tecnologia e il suo potere sono sfuggìti a qualsiasi controllo concreto. La realtà della tecnologia è una realtà opaca e incontrollabile. Lo spiega molto bene Ulrich Beck allorché parla della società dei rischio, che è poi la nostra società. Non è il saper padroneggiare la tecnica ad essere attuale oggi, ma la sua opacità, l'impossibilità di venire a capo di essa e dei numerosi problemi che pone il suo controllo o meglio, la mancanza di controllo su di essa. L'evoluzione delle tecniche porta all'opacìtà del sistema tecnologico: ecco un bel paradosso. Una nuova costellazione e un nuovo pensiero e prassi glocal forniscono naturalmente ottime e numerose armi ad esempio alle Regioni e ad altre istanze politiche più o meno locali per combattere la tendenza all'opacizzazione del controllo della tecnica. Il pericolo più grande, oggi, è l'illusione di star padroneggiando la tecnica e che quest'ultima non rappresenti un problema concreto. D'altronde, proprio la paura del grande potere della tecnica attanaglia la gente comune. In questo senso il glocal potrebbe ridefinire il ruolo dei locali "ecologizzando" la concezione del ruolo della Tecnica. Ma perché questo avvenga, bisogna fare in modo che la tecnica non venga percepita come mero strumento dì dominazione. Essa, in effetti, può svolgere e svolge un ruolo essenzialmente positivo nelle società evolute: lasciamo pure a Heidegger e ai suoi seguaci il privilegio di demonizzarla. Naturalmente, non bisogna farsi illusioni sulla tecnica: essa è opaca, a volte inefficace, altre volte fuori controllo. Tuttavia proprio noi europei siamo esperti nel far funzionare la "società civile tecnica" facendo rete tra piccole e medie imprese e utilizzando questo prodotto dell'ingegno umano in modo, come dice lei, glocal». ritorna all'indice degli articoli
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giovedì, dicembre 11, 2003 |
Che cos'e' la "democrazia deliberativa"
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(Testo dell'intervento di Piero Bassetti pubblicato su Il Corriere della Sera del 13 novembre -- grassetti miei) «Nell'articolo "Ma i focus group non sono istituzioni" [vedi item Rassegna stampa precedente Dalla democrazia di Pericle ai "sondaggi deliberativi"], Renato Mannheimer critica le nuove forme di democrazia deliberativa e in particolare quella dei «deliberative polls» proposta da James Fishkin (Corriere della Sera, 7 novembre). Vi è tuttavia un certo equivoco - probabilmente anche da parte dello stesso Fishkin - nel ritenere che l'impatto più significativo di tali modalità sia sul merito delle decisioni. Ovvero che le forme di democrazia deliberativa portino seriamente a decisioni più giuste poiché praticate da cittadini più informati. L'importanza e la legittimazione di tutte le forme democratiche risiede però - piaccia o non piaccia - a livello procedurale; ciò che conta non è tanto prendere la decisione migliore, ma prenderla secondo una procedura che tutti, compreso chi dissente dalla decisione presa, riconosce come legittima. E questo è anche il senso di altre iniziative in materia di democrazia deliberativa che sono emerse negli ultimi anni. Si prendano ad esempio i sempre più numerosi temi di rilievo pubblico emergenti in materia di ricerca scientifica e innovazione tecnologica. Su questi temi, per varie ragioni, i cittadini ormai non si sentono sufficientemente rappresentati dai tradizionali processi che legano esperti scientifici e decisori politici. Tanto che in alcune situazioni hanno deciso di occupare il centro della scena: è il caso delle associazioni di pazienti che in Francia non solo raccolgono fondi per la ricerca, ma reclutano ricercatori e ne definiscono le priorità. Per intercettare questa domanda di coinvolgimento, sono nate in vari Paesi numerose iniziative che discendono più o meno direttamente dal modello danese della consensus conference: un gruppo di cittadini, sentiti una serie di esperti tali da rappresentare diverse posizioni, formula le proprie raccomandazioni in vista di una decisione politica. In vari Paesi questi modelli hanno consentito di superare o prevenire conflitti in materia di innovazione che avrebbero altrimenti rischiato di paralizzare l'agenda pubblica. La Regione Lombardia, in ottemperanza ad una Direttiva Ue riguardante gli Ogm, si accinge a sperimentarli in collaborazione con la nostra Fondazione. [ndr: si veda, in questo sito, il Call for Comments intitolato " Partecipazione pubblica e governance dell'innovazione"] Si tratta naturalmente di esperienze ancora agli inizi e con inevitabili limiti, alcuni del tutto simili a quelli giustamente evidenziati da Mannheimer per i « deliberative polls». Ma questo non rende meno reale il problema a cui tentano di rispondere: l'esigenza, soprattutto sui nuovi e profondi dilemmi posti dalla scienza, di trovare nuove procedure di decisione politiche che possano essere riconosciute dai cittadini come adeguate, accettabili e trasparenti. - Piero Bassetti, Presidente Fondazione Giannino Bassetti - » In argomento, si vedano, in questa Rassegna, anche in post precedenti (molti dei quali contengono citazioni al "metodo Fishkin")":
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martedì, dicembre 09, 2003 |
Dalla democrazia di Pericle ai "sondaggi deliberativi"
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Mogens Herman Hansen, autore de "La Democrazia Ateniese nel IV secolo a. C.", ha tenuto all'Università di Milano una conferenza un cui stralcio è stato pubblicato su Il Corriere della Sera del 7 novembre con il titolo "Referendum o elettronica, quando il cittadino va al governo". L'articolo di Hansen verte sulla differenza fra la moderna "democrazia rappresentativa" e la "democrazia diretta" degli ateniesi. In particolare Hansen enuncia i cinque pilastri su cui si dovrebbe fondare la democrazia diretta: «1) il cittadino comune sia una persona intelligente capace di prendere decisioni sensate (che riguardano se stesso e i suoi concittadini); 2) il cittadino comune è pronto a trascurare il suo interesse privato in caso di conflitto con l'interesse nazionale; 3) il cittadino comune possa essere sufficientemente informato sulle questioni in discussione; 4) il cittadino comune sia interessato a prendere direttamente le decisioni politiche, più che a delegare queste decisioni a dei politici di professione; 5) anche dei dilettanti possono prendere le decisioni razionali, se si distingue tra un sapere degli esperti, necessario per preparare e formulare i provvedimenti, e il senso comune necessario per fare una scelta politica tra le alternative prospettate». Si tratta, come ben si vede, di cinque pilastri il cui contenuto è stato ampiamente discusso nel Call for Comments (in questo sito) intitolato: "Partecipazione pubblica e governance dell'innovazione", specialmente per quanto riguarda i punti 3 (necessità dell'informazione) e 5 (ruolo degli esperti). Il quesito che l'articolo di Hansen pone è se, attraverso le nuove tecnologie dell'informazione, sia in qualche modo possibile introdurre in contesti sociali completamente diversi da quelli dell'Atene di Pericle efficienti modelli di democrazia diretta. La risposta di Hansen è quella dello studioso della politica: «Un modo importante di verificare i meriti e gli svantaggi legati alla democrazia diretta [è] lo studio del sistema politico di Atene dal 507 a. C. quando Clistene introdusse la demokratia ad Atene, al 322 a.C., quando questa venne abolita in conseguenza della conquista macedone della città». Eva Cantarella, direttore dell'Istituto di Diritto Romano dell'Università di Milano, sulla stessa pagina del Corriere con l'articolo "Nell'Atene di Pericle a scuola di sondaggi" oltre a descrivere esaurientemente il funzionamento della democrazia ateniese, collega la democrazia diretta degli antichi con la teoria di Fishkin sui sondaggi deliberativi: «Perché questi particolari sondaggi, proposti come strumento che potrebbe contribuire a guarire i mali della nostra democrazia rappresentativa sono nati da una riflessione sulla democrazia ateniese stimolata dal loro inventore, James Fishkin, dalla lettura di [...] Mogens Hansen». Sulla teoria di Fishkin si veda il precedente item di questa rassegna stampa "Democrazia e sondaggi. Il "metodo Fishkin", ma anche i riferimenti bibliografici a Fishkin in Bibliografia su "Innovazione e Responsabilità nella Information Society". Renato Mannheimer, sempre sul Corriere del 7 novembre, con l'articolo "Ma i focus group non sono istituzioni" prende le distanze dall'ipotesi che i sondaggi deliberativi possano significare una ripresa della democrazia diretta. Infatti con un ragionamento che appare un po' paradossale afferma: «La proposta di Fishkin rende assai più consapevoli le scelte dei partecipanti al poll . Ma, proprio per il fatto di "informarli", rende questi ultimi "diversi" dagli altri cittadini e quindi non più rappresentativi degli stessi». Mannheimer, pur ritenendo utile il deliberative poll come strumento per migliorare la tecnica delle rilevazioni sociali, ai fini della democrazia sembra ritenenere: «preferibile un affinamento delle istituzioni di democrazia indiretta, ampliando le forme di partecipazione e di controllo dei cittadini, a una forse utopica riproposizione della democrazia diretta. Adatta certo - seppur con qualche limite - al contesto ateniese, ma difficilmente attuabile per le società postindustriali contemporanee».
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giovedì, dicembre 04, 2003 |
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