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Come (non) si parlano scienza e politica
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Su La Stampa del 6 agosto il Presidente della Fondazione Rosselli, Riccardo Viale ha pubblicato l'articolo che già dal titolo " Scienza e politica: dialogo fra sordi" anticipa la difficoltà del rapporto fra scienza e politica. Il discorso di Viale affronta: «il tema della scientific governance ovvero il ruolo degli esperti scientifici nella formazione delle decisioni pubbliche in varie materie, dalla salute all'ambiente, alla sicurezza tecnologica». Per Viale sono due le linee di pensiero predominanti riguardo alla scienza nella società: «Da una parte abbiamo istituzioni scientifiche, relativamente impermeabili alle pressioni di carattere sociale e politico, che decidono di attenersi ai principi propri della comunità scientifica ed in particolare a quello dell'evidenza empirica controllabile e replicabile a livello intersoggettivo. Ma altre istituzioni, più permeabili a variabili esogene di tipo sociale, come quelle sindacali ed ambientaliste, non accettano il sapere scientifico certificato come unico punto di riferimento conoscitivo. Il primo tipo propone una politica del rischio scientifico basato sul "principio di certezza", cioè accettazione solo dell'evidenza scientifica riconosciuta stabile nella comunità. Il secondo tipo opta, invece, o per il principio di "evitamento prudenziale", cioè utilizzo di qualsiasi informazione, anche se prodotta in modo non standard o che non configuri un fenomeno empirico stabile, come spunto per definire nuove soglie di rischio, o per il "principio di precauzione" che fonda la valutazione sulla presenza almeno di regolarità significativa a livello statistico (pur in assenza dell'individuazione del meccanismo causale)». A parere di Viale la politica ha scelto la seconda di queste opzioni: «Alcune posizioni politiche di questi giorni sono esemplificative di questa scelta. Vengono sfruttate informazioni marginali e non riconosciute dalla comunità scientifica sulle supposte nocività degli Ogm o delle onde elettromagnetiche per imbastire campagne proibizionistiche che hanno una chiara finalità di tipo politico ed elettoralistico». Il che comporta, a parere di Viale, che: «il prezzo da pagare a medio termine è molto più caro dei successi contingenti di tipo politico. Si rischia di creare una opinione pubblica sospettosa della scienza e della tecnologia, sensibile alle sirene irrazionalistiche delle correnti new age e postmoderniste». Se per Riccardo Viale è chiaro che le decisioni politiche devono rifarsi alla scienza "ufficiale" è opportuno ricordare, come spunto di riflessione, che nell'articolo citato nell'item precedente Per una maggior democrazia della scienza? si fa riferimento alla sentenza della Corte Suprema Americana Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, riguardante il caso di due bambini nati con una malformazione causata dall'assunzione di un farmaco durante la gravidanza della madre. La corte ha stabilito: «che i giudici possono ammettere la testimonianza di esperti che, pur non dotati di particolari riconoscimenti da parte della scienza "ufficiale", si avvalgano di conoscenze e metodi scientifici». Anche se in questo caso si tratta di una decisione giuridica e non politica, rimane sempre il fatto che ci si trova di fronte a una scelta pubblica. E' da rimarcare inoltre che nella decisione della Corte Suprema si fa sempre riferimento a "conoscenze e metodi scientifici", e non alla non-scienza.
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sabato, agosto 30, 2003 |
Per una maggior democrazia della scienza ?
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Su Avvenire del 29 luglio, a firma Enrico Negrotti è apparsa, con il titolo "La scienza alla sbarra" la recensione al libro della giurista Sheila Jasanoff, che insegna Science and Public Policy alla Kennedy School of Government della Harvard University, " La scienza davanti ai giudici " (Giuffré editore, pagine XXII + 392, euro 25,82). «Jasanoff osserva che oggi si presta molta più attenzione al rapporto tra scienza e diritto e che la nostra teorizzazione della società si è molto modificata: "Un tempo le scienze politico-sociologiche si occupavano di stratificazioni sociali, ora anche di knowledge o risk society, di scienza e tecnologia in ambito sociale"». In conseguenza di ciò: «i magistrati sono chiamati a pronunciarsi (talora in assenza di leggi specifiche) su temi quali inquinamento ambientale (dall'elettrosmog alle scorie nucleari), biotecnologie, genetica, effetti avversi dei farmaci (vedi caso Lipobay) o adeguatezza delle cure mediche (caso Di Bella)». Ma se questo è il quadro di riferimento, si ha d'altra parte che: «le risorse concettuali della giurisprudenza appaiono inadeguate, sia per il ritardo con cui interviene il diritto, sia per l'ignoranza scientifica, sia ancora per il ruolo "ibrido" dei periti ("un soggetto con conoscenze specialistiche, ma che ha un'importante influenza nel sistema giuridico").» A ciò occorre aggiungere che, come scrive Negrotti: «nel Libro bianco sulla governance, redatto per conto della Commissione europea, è emerso il crollo di fiducia nella competenza degli esperti da parte della popolazione europea, che non guarda più solo ai benefici ma anche ai danni che il progresso può portare con sé». Nella lettura che fa Negrotti del libro della Jasanoff occorre sottolineare l'affermazione che occorre pervenire alla "democratizzazione degli esperti". Poichè l'espressione "democratizzazione degli esperti" può essere di per sé abbastanza ambigua (gli esperti non si riconoscono nelle istituzioni democratiche?) è opportuno richiamare il testo del Libro bianco della Commissione (pag. 20): «Le recenti crisi nel settore alimentare hanno posto in rilievo l'importanza d'informare il pubblico ed i politici su quanto è certo e su quanto invece è ancora incerto, ma queste crisi hanno anche minato la fiducia del pubblico nell'elaborazione delle politiche basate sui pareri degli esperti. L'opacità del sistema dei comitati di esperti dell'Unione e l'assenza di informazione sulle modalità dei loro lavori non giovano alla percezione che il pubblico ha di queste politiche. Spesso non è chiaro chi decida effettivamente, l'esperto o chi detiene autorità politica. Al tempo stesso, un pubblico meglio informato tende a mettere sempre più in questione la fondatezza della decisione e l'indipendenza dei pareri degli esperti». A sua volta la Jasanoff sulla questione scienza democrazia scrive: «Siamo forse tutti d'accordo che i progressi scientifici vadano realizzati in un quadro di democrazia e che il potere di condurre indagini scientifiche è una libertà fondamentale. Tuttavia la scienza negli ultimi due secoli ha avuto così successo in senso ideologico nel proporre il proprio modello, da avere perso un'interfaccia istituzionale. E l'istituzione - puntualizza la giurista - è un modo strutturato per risolvere problemi a livello sociale». In altre parole, se scienza e diritto di per sè non non sono sufficienti a garantire il rispetto dell'opinione pubblica, è necessario che la politica si faccia carico di individuare nuovi livelli istituzionali capaci di far sì che le ricadute sociali delle realizzazioni della ricerca scientifica non siano in contrasto con le esigenze della partecipazione democratica. Su questa problematica si vedano i precedenti item: Su Sheila Jasanoff e sul libro recensito si veda, nel sito di Harvard, " Science at the bar.
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martedì, agosto 26, 2003 |
Le ragioni sociali della fine dei tecnosauri
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Gran parte degli item di questa rassegna stampa hanno come filo conduttore il rapporto fra innovazione e società. Ma accanto ai processi innovativi riusciti la storia della tecnologia presenta una galleria di innovazioni, che pur perfettamente riuscite dal punto di vista funzionale, non ce l'hanno fatta a penetrare il tessuto sociale. E se da un lato è perciò importante comprendere i meccanismi che hanno portato al successo le innovazioni vincenti, altrettanto importante è capire le ragioni degli insuccessi. «Ogni innovazione fallita è prima di tutto un'idea di società e cultura che non si è realizzata. E' questo il messaggio che i tecnosauri ci lasciano». Questa proposizione chiude la recensione al libro di Nicola Nosengo, giornalista scientifico, "L'estinzione dei tecnosauri. Storie di tecnologie che non ce l'hanno fatta" (Editore Sironi, 2003), che Cinzia Colombo ha pubblicato sul sito di " Scienza Esperienza" (per inciso: a "Scienza Esperienza" Paola Parmendola ha dedicato una segnalazione nel suo blog). La tesi di fondo riprende le teorie di Trevor Pinch e Wiebe Bijkler, ricercatori dell'Associazione europea per lo studio della scienza e della tecnologia (EASST, nata in Austria nel 1982), secondo i quali: «lungi dal seguire un percorso lineare, la storia della tecnologia è piuttosto un'alternanza di variazione e selezione, in cui aspetti tecnici e sociali si confondono». Significativo è l'esempio della storia della bicicletta: «I prototipi precedenti alla bicicletta a catena erano di diversi tipi, ma solo uno si è affermato: quello che il gruppo sociale rilevante - cioè le istituzioni, le organizzazioni, i gruppi, gli individui di una società - ha considerato il più adatto a risolvere i problemi definiti dal gruppo stesso (la sicurezza, la velocità del mezzo, ma anche questioni legate alle consuetudini sociali: l'uso dei pantaloni non era accettato per le donne a quei tempi). Ma altrettanto significativo di innovazione non riuscita è l'esempio del videotelefono: «il videotelefono è tecnicamente realizzabile dagli anni trenta. Ma che non si è mai affermato semplicemente perché toglie non poche delle libertà e del gusto della telefonata. "Il videotelefono può creare imbarazzo in chi chiama, oltre che in chi è chiamato" scrive Nosengo. Il primo avrà remore a telefonare in ore tarde, per il timore di vedere dall'altra parte l'interlocutore in pigiama. Il secondo, vestito da notte, avrà remore a rispondere. Ma il lato peggiore è che nessuno dei due potrà mentire». Altro modello di riferimento è, per Nosengo, quello della Social Construction of Technology ( SCOT): «un genere di studi che legge la tecnologia come costruzione sociale, rifiuta il determinismo tecnologico secondo cui è la tecnologia che modifica la società e non viceversa, e rifiuta la distinzione tra aspetti tecnici, sociali, economici e politici dello sviluppo tecnologico [...] di Michel Callon e Bruno Latour, che considerano la tecnoscienza come una rete che connette elementi eterogenei (umani e non, sociali e tecnici) senza possibilità di distinguerli o gerarchizzarli». Infine Nosengo si sofferma sul pensiero di Patrice Flichy: «sociologo francese, che sottolinea come in realtà le parti coinvolte nello sviluppo tecnologico abbiano posizioni di forza diverse tra loro: i grandi gruppi industriali per esempio possono intervenire con la loro capacità di influenza nella negoziazione, facendo emergere un'innovazione piuttosto che un'altra». Poichè il pensiero di Bruno Latour, uno dei maggiori sociologi della scienza contemporanei, è fortemente indirizzato all'analisi dei rapporti fra scienza e società, appare più volte citato nel sito FGB. Nelle "News 14 settembre - 21 novembre 2000", che riprendono in una intervista pubblicata sul quotidiano Avvenire il pensiero di Bruno Latour, il tema è quello della necessità di collocare le scienze in un altro rapporto con la politica. Gian Maria Borrello intervenendo nel Forum il 12 ottobre 2000 si sofferma sulla distinzione, mutuata da Latour, fra "rischio oggettivo", quello calcolato in sede scientifica", e "rischio soggettivo", cioè quello percepito dalla gente. Infine, come preannunciato nell'intervista L'innovazione, dal sapere al potere a Piero Bassetti, condotta da Mauro Buonocore e apparsa sulla rivista on-line CaffeEuropa, la Fondazione Bassetti ha intenzione di incontrare Latour di fronte ai dottorandi del Politecnico di Milano per discutere della tesi secondo cui la politica dovrebbe recuperare il controllo della scienza.
Su Latour si veda: la sua web page: Web page di Bruno Latour e, in italiano, sul sito della Fondazione Sigma-Tau: Bruno Latour.
Su Patrice Flicy si veda nel sito di Media PHilosophy Al confine tra tecnica e società.
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sabato, agosto 23, 2003 |
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