Dal Golem all'intelligenza artificiale: la scienza in teatro per una riflessione esistenziale
( 14 Aprile 2004 )
( scritto da
Redazione FGB
)
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Questo articolo ha il titolo che Silvana Barbacci ha dato al suo saggio pubblicato nel sito del giornale del Master in Comunicazione della Scienza della Sissa, intendendo per "riflessione di tipo esistenziale" «una riflessione che ha a che fare con temi che riguardano intimamente l'uomo, il significato del suo essere nel mondo, la responsabilità del suo agire. In questo senso la scienza non offre al teatro contenuti, ma una materia viva da cui scaturiscono domande sul senso della storia, della vita e della morte.»
Il saggio analizza tre opere teatrali (R.U.R, Rossum's Universal Robots di Karel Capek, Il cervello nudo, di Giuseppe O. Longo e I Cinque di Cambridge, di John L. Casti, nell'adattamento per il teatro) che, «ognuna a suo modo, sottopongono lo spettatore a una riflessione sul tema delle "macchine pensanti", frutto del sogno demiurgico dell'uomo di imitare l'atto della creazione divina».
La "rimozione del corpo"
Uno dei leitmotiv interni al saggio che vorremmo qui evidenziare è quello della "rimozione del corpo", cioè la questione (interna a tutto lo sviluppo dell'Intelligenza Artificiale, ma che, ovviamente, ha radici storico-filosofiche molto profonde) che consiste nell'indagare la consustanzialità del corpo rispetto all'intelligenza (e alla mente... e alla coscienza di sé).
Anche nell'immaginario dei racconti (fanta)scientifici, è forte la presenza degli scritti in cui testa, corpo e cervello vengono separati, composti con le loro copie artificiali. Come se la relazione tra la mente e il corpo fosse poco chiara, un campo tutto da esplorare. E in effetti è così.
La posizione di partenza degli studi sull'intelligenza (ma anche il pensiero comune) tende subito a due domande di base: "dove si posiziona il pensiero" e "dove si colloca il sé".
Sono domande sul corpo che di per se stesse cercano la "sezionabilità", come se fosse una strada ambita poter superare la base fisica del pensiero.
La "rimozione" del corpo di cui al saggio, sottolinea appunto come i primi anni di studi sull'Intelligenza Artificiale si siano avviati lungo una via dove il corpo veniva ignorato o sostituito, senza che fosse concepito come parte in causa.
La soluzione, d'altra parte, a livello di speculazione inventiva (v., in questo sito, i testi citati in "11 creature"), non poteva dare risposte, senza che venisse scelta una direzione.
Il Principio di precauzione in questo sito: nel Percorso dedicato; un'intervista di Margherita Fronte a Paolo Vineis sui rischi delle nuove tecnologie applicate alla vita e sul principio di precauzione (negli Argomenti di Novembre 2002 - Gennaio 2003)
A volte, di fronte a un bivio incerto prendere a caso una delle strade è l'unica cosa buona da fare, ma... in altri casi è sostare fino a che non si è ricevuta qualche informazione che permetta una scelta? (questa domanda ci riconduce alla tematica del "principio di precauzione" e delle responsabilità delle scelte in campo scientifico).
Sulla "rimozione del corpo" è abbastanza noto il punto di vista di Giuseppe O. Longo, frequentatore di questo sito (al quale siamo riconoscenti del seminario in forma di forum, ricco di tanti spunti e approfondimenti, svoltosi qui, cioè on line, all'inizio dell'anno scorso): «Se dico che il corpo è uno "strumento" non lo dico certo per sminuirlo, ma al contrario per indicare la sua assoluta pregnanza: per me la tecnologia (di cui il corpo è il primo e più fondamentale elemento) è costitutiva, non superficiale: il corpo è il filtro, l'interfaccia con la quale siamo collegati con noi stessi e con il mondo. Il sogno di meccanizzare il pensiero e, soprattutto, di esorcizzare le misteriose e inquietanti capacità del genio ha segnato tutta l'età moderna, e ha portato all'invenzione di una serie di estroflessioni cognitive, più o meno raffinate ma sempre di natura automatica, nel tentativo di ottenere con un sol colpo di manovella tutte le proposizioni vere, tutti i risultati esatti, tutti i teoremi dimostrabili. Ma il colpo di manovella provoca un'alluvione di proposizioni vere tra le quali il cieco automatismo della macchina non consente di distinguere quelle insignificanti da quelle davvero importanti. La discriminazione può essere compiuta solo dagli esseri umani in base alle loro capacità e ai loro interessi esistenziali: quindi la complessità della persona e lo spettro del genio, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra. Il genio, con le sue qualità misteriose e lussureggianti, la sua intuizione ingiustificabile e le sue creazioni arbitrarie, causa nelle persone comuni uno sgomento e un timore reverenziale che da un momento all'altro possono tramutarsi in avversione, odio e furore.» (replica del 14 febbraio 2003; link al testo integrale del Forum)
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Il leitmotiv della "rimozione del corpo" appartiene, poi, all'alveo della tematica del "Post Human", che in questo sito ricorre in diversi momenti e sotto vari profili di approccio; il più completo è probabilmente quell' "11 Creature" più sopra già indicato.
Mondo eccessivo e caotico; ordine e disordine; responsabilità e innovazione
C'è, inoltre, una frase di Longo, ripresa dalla Barbacci, che ci pare densa di significato per le attinenze che può avere con la tematica di base che costituisce la ragion d'essere della Fondazione Bassetti. La frase è la seguente: «Corpo e genio sono simboli e attori del disordine, si oppongono dunque al continuo tentativo dell'uomo di impartire ordine e regola al mondo eccessivo e caotico nel quale viene a trovarsi. Con l'aiuto della ragione, della razionalità computante, l'uomo cerca sempre infatti di ricostruire la realtà, sostituendo al mondo dato, troppo florido e rigoglioso, un mondo più asettico e meno violento, un mondo misurato e dominabile che gli consenta di sopravvivere.»
Ordine che si contrappone al disordine... ci si può anche chiedere se possa esservi una sovrapposizione semantica con responsabilità e innovazione. Ma allora, se si sceglie di stabilire tale affinità concettuale, potrebbe darsi la conseguenza che siamo di fronte a una contrapposizione? In altri termini: tra agire innovativo responsabile e agire innovativo può esservi un contemperamento, oppure v'è sempre un procedere dialettico per contrapposizione e sintesi?
Una chiave d'approccio potrebbe consistere nel porre l'attenzione sull'opinione di Longo secondo cui «l'uomo cerca sempre di ricostruire la realtà, sostituendo al mondo dato, troppo florido e rigoglioso, un mondo più asettico e meno violento, un mondo misurato e dominabile che gli consenta di sopravvivere.»
"Un mondo misurato e dominabile"... all'interno di quale visione del mondo è allora coerente immaginare l'innovazione come azione scardinante, e quindi rivoluzionante, rispetto un sistema precostituito?
Se possiamo convenire sul fatto che uno spazio all'innovazione può essere immaginabile sempre esistente, così come non si può immaginare una realtà senza imprevisti, allora potrebbe porsi la questione della gestione di questo spazio, sia che noi fossimo per una limitazione di quest'area, sia che ci ponessimo nell'ottica di un mondo totalmente caotica.
In proposito, la seguente osservazione della Barbacci può far luce su una possibile tesi, quella di Karel Capek, l'autore di R.U.R, Rossum's Universal Robots: «Capek non aveva fiducia nelle riforme violente che prospettavano scenari radiosi per il futuro e non si faceva molte illusioni sui cambiamenti. Per questo, nel suo testo, per bocca di Alquist [Ndr: il protagonista del racconto] prevale un'inclinazione verso l'equilibrio, il rispetto per la natura e gli altri esseri umani e viene sottolineato il valore dell'amore come unica possibilità di riscatto.».
L'arte come mezzo di conoscenza del mondo
Un altro leitmotiv che è possibile riscontrare nel saggio è quello dell'arte come mezzo di conoscenza del mondo immediata, cioè --appunto-- non mediata dalla ragione. Di questo (o meglio: anche di questo) si sta discutendo nella conversazione che si svolge da qualche settimana in questo sito.
Le tre opere analizzate nel saggio «non sono certo gli unici esempi --scrive Silvana Barbacci-- di come temi inerenti alla creazione imitata e alle macchine pensanti arrivino in teatro, ma sono particolarmente significativi perché, attraverso realizzazioni sceniche differenti, con contenuti e punti di vista diversi, mostrano la bifrontalità del rapporto fra scienza e teatro: il teatro che guarda alla scienza e la scienza che guarda se stessa in teatro».
Il rapporto fra scienza e teatro è stato da ultimo toccato in questo sito lo scorso settembre: "La scienza a teatro"
Coscienza (e quindi) dolore (e quindi) responsabilità
Il tema della responsabilità è d'altra parte insito nel opera drammatica di Giuseppe O. Longo intitolata "Il cervello nudo" e presa in esame nel saggio della Barbacci: un testo scritto per il teatro che ruota attorno a tre concetti che sono l'uno completamento degli altri: coscienza, dolore, responsabilità.
Il dialogo seguente, che si svolge fra due personaggi del racconto, compendia la morale che l'autore sembra privilegiare: il progresso, inteso nel senso della tecno-scienza ci appare quasi dotato di una sua intenzionalità impersonale (nonostante questi due termini possano apparire antitetici) nello sfuggire alla memoria di «quel luogo oscuro e baluginante cui tendiamo di continuo, il luogo della germinazione prima, dei defunti, delle premonizioni, dei consanguinei, dei figli. Un luogo dal quale ci siamo sforzati di uscire per riscattarci dalla condizione umana [Ndr: il "Post Human"...], ma che non cessa di chiamarci con una voce che si ode quando si attenua o tace il frastuono del pensiero e delle macchine. E' questo luogo che la razionalità rifiuta, il punto delicato e sensibile in cui incontriamo noi stessi per diventare ciò che siamo, e riflette il carattere elusivo e peculiare della nostra umanità. Portiamo in noi il marchio di tutte le cose, e anche dell'ombra dalla quale siamo usciti: che cosa comporta il distacco volontario dalla nostra linea germinale? La ricostruzione formale del mondo significherebbe appunto un rifiuto della nostra storia psicobiologica, del corpo e delle sue istanze fondamentali, una svalutazione dell'inconscio e una negazione della femminilità»
Il protagonista del racconto, pur non rinnegando la scienza, sostiene il valore profondo della moderazione, che è anche figlia di un approccio umile al mondo. Di un approccio, cioè, che dovrebbe essere ispirato da origini antiche, visto che è frutto della nostra coscienza, della coscienza (anche dolente) di ciò che siamo, del nostro potere, anche distruttivo, così come dei nostri limiti. Moderazione e umiltà... un modo di essere che, in ultimo, potrebbe forse risultare di grande aiuto per un progresso responsabile.
Il progresso... ecco come il progresso appare drammatico agli occhi del protagonista: «... il mondo è in pericolo deviamo i fiumi dalla Siberia! Trasciniamo gli iceberg all'Equatore! Mettiamo in orbita mille satelliti armati di specchi, così che le nostre città siano sempre illuminate da un riverbero implacabile!... Follie... [...]. Tutto è contaminato, devastato.vedo solo tralicci contorti, stazioni di servizio annerite dagli incendi, aeroporti abbandonati, opifici fumosi, deflagrazioni silenziose ai margini dei deserti, dalle foreste pluviali salgono velenose spire di fumo.e tutto ciò per opera di anonimi servi industriosi, gnomi della tecnica, laboriosi insetti che ripiombano nel nulla dal quale sono usciti un momento per portare il loro trascurabile contributo allo sfacelo del mondo... e questo contributo, per quanto minuscolo, per quanto infimo, pure sommandosi a tutti gli altri minimi contributi corrode e corrompe e intacca....»
Ma è il finale che riserva la vera e ultima morale del racconto, perché la "salvezza" dell'uomo dalla sua "perdizione" verrà solo se egli saprà ascoltare, in silenzio, la voce del mare, segreto della vita.
Il senso del limite, se vogliamo: un limite, interno a noi stessi, che è anche il mistero di chi siamo e del perché siamo. Se questo "senso" è radicato nell'essere umano per motivi biologici (preumani?) --e da qui il rifiuto del corpo, l'anelito al Post Human a cui abbiamo già accennato-- esso può forse richiamare alla mente un "senso del limite" che abbiamo preso in considerazione, in queste pagine l'anno scorso, nella visione di un filosofo di matrice cattolica, Adriano Pessina, il quale però parla non tanto di "senso del limite", quanto piuttosto di "'senso' del possibile e orizzonte del limite nella civiltà tecnologica".
-- Adriano De Laurentis, "Paesaggio marino" -- (in www.delaurentis.it/)
Shosetsu
La riflessione esistenziale... ma torniamo al teatro: con "I cinque di Cambridge", una versione teatrale tratta dall'omonimo romanzo di John L. Casti, scrittore di scienza, che è stata curata da Luca Scarlini per il Festivaletteratura di Mantova del 1999. Nella nota al testo citata dalla Barbacci, Casti dice che il suo «non è proprio un romanzo, ma un'opera di fiction, anzi di quel nuovo genere che mi piace chiamare "fiction scientifica". La parola giapponese per questo tipo di lavoro è shosetsu, un termine molto più flessibile e ricco di 'romanzo'. Un'opera di questo genere, pur contenendo elementi di fiction, è qualcosa di più di una cronaca; è un'opera che tenta di trasferire in uno scenario fittizio le questioni intellettuali e conoscitive su cui si confrontano gli esseri umani impegnati nel modellare la scienza e la tecnologia del proprio futuro.»
I lettori di questo articolo troveranno una risposta a numerosi interrogativi (quali, per esempio, le trame delle tre opere teatrali) proprio nel saggio di Silvana Barbacci, dal quale desideriamo citare, da ultimo, le parole con cui (appunto) si conclude: «Di queste tre opere, in particolare "Il Cervello nudo", che nasce con la motivazione del teatro scientifico, mostra come il teatro possa ben coniugarsi con la scienza quando questa fa sorgere problemi che riguardano intimamente l'uomo, nel suo essere nel mondo e nella responsabilità del suo agire: in altre parole, quando la scienza diviene motivo di una riflessione più ampia, che trascende l'ambito dei suoi contenuti e si esprime nella domanda sul senso del mondo, della vita e della morte. Così il teatro torna ad essere il luogo di rappresentazione di quel nostro privato teatro interiore, che è la coscienza, dove queste domande si affacciano insieme ai pensieri, alle fantasie, ai sogni.»
Si vedano anche:
[*] Longo descrive un "Homo Technologicus" simbionte, un'evoluzione dell'uomo attraverso l'integrazione con la tecnologia; ma «uno degli inconvenienti più gravi a questo riguardo è la diversa velocità con cui si sviluppano la tecnologia, la nostra capacità di adattamento e le interfacce tra uomo e tecnologia (si tratta di direttrici evolutive spaiate [...]). Insomma il simbionte Homo technologicus fatica ad armonizzare le proprie componenti eterogenee e l'una rischia di soffocare l'altra. Gli antichi meccanismi del corpo (fisiopsicologici) soffrono per il contatto, anzi l'invasione, della tecnologia: la tecnologia è sempre un filtro, nel senso che potenzia (o addirittura rivela) certe capacità, ma ne indebolisce o sopprime altre, che magari sentiamo intimamente nostre e indispensabili. Ma la tecnoscienza è disposta a darci il tempo di cui avremmo bisogno per adattarci? O magari per rifiutarla? Ne dubito, proprio per l'accelerazione (da retroazione positiva) che anima l'innovazione: è proprio quest'accelerazione che a volte dà l'impressione che la tecnologia sia una componente autonoma o quasi del sistema complessivo, e questa autonomia percepita preoccupa molto chi vede nella tecnologia una minaccia all'identità dell'uomo.» (replica del 12 febbraio 2003; link al testo integrale del Forum)
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