Dialogo on line tra Fiorella Operto [ * ], Gian Maria Borrello [ * ] e Tommaso Correale Santacroce [ * ]

Marzo - Aprile 2004

Questo Dialogo on line tra Fiorella Operto, Gian Maria Borrello e Tommaso Correale Santacroce si è svolto fra marzo e aprile 2004 e riguarda gli Argomenti "Post Human: robotica e intelligenza artificiale"; "Scienza e arte, arte e scienza" - si veda anche il post nella sezione "Argomenti" del 20 maggio 2004 "20 passi per un dialogo"

Puoi vedere anche gli articoli raggruppati sotto le categorie:

Post Human: robotica e intelligenza artificiale
e
Scienza e arte, arte e scienza

ASIMO, Honda's intelligent humanoid robot

(16.3.04)

Gian Maria Borrello

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La dottoressa Fiorella Operto fa parte del Consiglio Direttivo della Scuola di Robotica. Ho letto il materiale da Lei prodotto in occasione del recente convegno sulla "Roboetica" trovandolo estremamente utile (oserei dire "entusiasmante") e l'ho quindi invitata a partecipare all'attività del sito della Fondazione Bassetti. Questo dialogo-intervista è appunto un modo per iniziare la nostra collaborazione.

Fiorella, tu che da anni ti occupi di linguaggi e di divulgazione scientifica puoi spiegarci come coniughi la tua passione per diverse forme di comunicazione artistica con la robotica?
Vittorio Bertolini, che collabora con la Fondazione Bassetti, in un suo recente articolo apparso nel sito della Fondazione ha parlato di come la medicina possa essere (o meglio: debba essere) "arte". Chiedo quindi a te: la robotica è arte?

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(18.3.04)

Fiorella Operto

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Caro Gian Maria, ecco come e' andata. La mia formazione si e' sempre svolta a cavallo tra le scienze fisiche e quelle umane, le prime in segnatemi da mio padre fin da piccola, le seconde scelte come settore di studio e di professione. Questo per i posteri ;-)
Quanto ai rapporti tra tendenze artistiche, scoperte ed insight scientifici, vi e' un'ampia letteratura (questo blog potrebbe essere uno spazio interessante per "postare" la mia bibliografia!).

Veniamo alla Robotica. Questa e' una nuova scienza (secondo i robotici con cui sono in contatto, lo e'. Immagino che vi siano diversi altri punti di vista) interdisciplinare nata da: Meccanica, Automazione, Elettronica, Informatica, Cibernetica, Intelligenza Artificiale, e che attinge contributi da: Fisica/Matematica, Logica/Linguistica, Neuroscienze/Psicologia, Biologia/Fisiologia, Antropologia/Filosofia ed Arte/Design Industriale.
La Robotica e' ancora agli albori, non sappiamo veramente prevedere come si sviluppera' ne' quali dei suoi filoni applicativi avrà maggiore successo. Ma, e' proprio questo "stato nascente" che permette il confrontarsi, in seno a questa nuova scienza, delle piu' diverse specializzazioni. In un certo senso, lo spirito artistico combina (in senso chimico) spesso l'imprevedibile.


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(18.3.04)

Fiorella Operto

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Sul principio estetico nella scienza:

"Aesthetics in Arts, be it poetry or painting or music or dance or some other form, is a well-studied subject. The same cannot be said of sciences. However, many do accept that the pursuit of "basic science" brings insensitivity to and criteria of beauty, truth, harmony, order and pattern. A large number of scientists like Poincare’, Einstein, Heisenberg, Dirac and many other have eloquently expressed their deeply-held convictions on the relevance of aesthetic considerations in scientific pursuits. More recently, Professor Subramanyan Chandrasekhar, one of the leading scientists of our times, has written a remarkable book entitled "Truth and Beauty : Aesthetics and Motivations in Science. Chandrasekhar's book is a collection of seven lectures which fall into two categories : whereas the first four lectures deals with question of aesthetics and motivations in the pursuit of physical theories, the last three lectures are basically biographical in nature. In his deeply elegant, incisive essays Chandrasekhar presents an insight into three topics: (i) The quest for beauty and truth in the theories of Physics, (ii) The similarities and differences in the patterns of creativity of Shakespeare, Beethoven, and Newton, and (iii) The aesthetic base of Einstein's general theory of relativity. The author has looked into these items in the context of basic science alone. According to him, 'basic science seeks to analyze the ultimate constitution of matter and the basic concepts of space and time'. After analyzing in depth the motivations and the patterns of creativity in the works of Kepler, Michelson, Rutherford, Heisenberg, Dirac and others, Chandrasekhar says : "The motivation has always been systematization based on the scholarship.' He goes on to pose a question : 'To what extent are aesthetic criteria, like the perception of order and pattern, form and substance, relevant in the pursuit of science?"...

Chandrasekhar started his career in India before independence and then spent almost all his working life abroad. Because of his eminence, his views and opinions have always been taken seriously in India. It was felt that it would be interesting to have a discussion of the motivations of scientific work in India since independence. When a proposal for such a discussion was formally mooted in the S. N. Bose National Centre for Basic Science, it was said that Visva Bharati would be the right place for holding this meeting. For Chandrasekhar has also explored in detail some aspects of the creative faculty of great writers and artists. In Visva Bharati Rabindranath Tagore collected some brilliant artists; his admiration for natural sciences, imbibed in childhood, never diminished and towards the end of his life he wrote a beautiful account of the universe and the quantum theory in Bengali".



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(18.3.04)

Gian Maria Borrello

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Bene, quindi il termine di congiunzione tra Arte e Scienza che hai messo in luce è l'Estetica. Estetica intesa nell'accezione etimologica: dal greco aisthetikós, cioè "conoscenza delle cose sensibili".
Grazie per le citazioni davvero interessanti (credo che varrebbe la pena fare un piccolo approfondimento in Rete: ne parlo con Tommaso Correale [ * ]).

Quello che ora, col tuo aiuto, mi piacerebbe indagare è il concetto di Arte come mezzo per evocare sensazioni. Mi vorrei soffermare, cioè, sulla finalità dell'Arte... per meglio dire sull'effetto che l'espressione artistica ha nei confronti di un essere umano (la parola "finalità" ha troppo a che fare con l'intenzione).

Qualche mese fa avevo preso in esame le opere di un'artista australiana, Patricia Piccinini: sono installazioni multimediali che esemplificano molto bene ciò a cui ora voglio riferirmi. Intendo cioè tentare di affrontare, insieme a te, la questione dell'espressione artistica intesa come via di accesso ad un certo tipo di riflessione. L'opera d'arte, proprio per sua essenza, può essere considerata come un mezzo di conoscenza che procede per intuizione e se l'effetto dell'opera d'arte può essere quello di "impressionare" --nel senso del termine inglese "to impress"-- chi la guarda o la ascolta o la tocca (in una parola, e con un termine che non mi piace molto: la fruisce)... se l'effetto può essere considerato questo (o anche questo), allora io credo che le opere della Piccinini riescano davvero a essere impressive. E credo anche --per venire a noi-- che possano esservi svariati altri esempi, tratti dalla letteratura e dal cinema (sono i primi che mi vengono in mente), nei quali possiamo individuare chiaramente diverse tematiche associate ai robot. Potremmo quindi parlare dei robot come argomento artistico, intendendo però l'espressione artistica nel senso su cui qui mi soffermo.
Suscita sensazioni e, conseguentemente (per lo più) riflessioni: questo fa l'artista (parlare di un suo ruolo sociale mi ripugna, anche se molti lo fanno).
Che ne pensi? Voglio dire: dopo aver dato un'occhiata alle opere di Patricia Piccinini (che, lo ripeto, cito a titolo esemplificativo e che come potrai leggere rifugge dal voler dare un vero e proprio messaggio, perché rimette allo spettatore la responsabilità finale della riflessione) tu, che ormai da parecchio tempo frequenti il mondo della robotica, quali aspetti di questa scienza pensi siano stati affrontati dal punto di vista artistico? Hai alcuni esempi da farci?

Alcuni riferimenti:

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(22.3.04)

Fiorella Operto

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Dal meeting (in corso a Genova, Palazzo Ducale: Modern Biology and Visions of Humanity, European Commission, 22-23 marzo 2004):

E. Agazzi: ricostruire l'immagine unitaria dell'uomo in epoca post modenità (ovvero, post Cartesio). Ogettivita'/soggettivita'. E' questo il dualismo? Non più. La soggettivita' NON copre tutta 'INTERIORITA' dell'uomo. Non "soggettivita'" umana dunque, per opporsi al "riduzionismo" in scienza, ma scienza e interiorita'. Come "parlare alla e parlare di" interiorita'. L'arte.

Carl Djerassi (attending the meeting. Professor of Chemistry at Stanford). He has produced not only 1,200 scientific articles, but also five novels and six plays. He describes his creative writing as "science-in-fiction".

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(22.3.04)

Gian Maria Borrello

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Se ben capisco, stai riportando degli spunti dal meeting di Genova un po' come se fossimo in "presa diretta". Ottimo! Questo è proprio un modo di utilizzare lo strumento che stiamo usando per questo dialogo.
Allora... sei stata un bel po' stringata, ma probabilmente questo spinge il lettore ad applicarsi per decifrare il messaggio. Bene: su Djerassi "no question". Su Agazzi... vediamo: credo di aver capito che si parla di una funzione dell'arte come forma di conoscenza, ma non mi è chiara la distinzione tra "soggettività" e "interiorità".

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(24.3.04)

Fiorella Operto

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Mi scuso della fretta. Due giorni fa ho inserito un appunto sul Dialogo, nell'intervallo del simposio "Modern Biology and Visions of Humanity", organizzato dalla Commissione Europea al Ducale di Genova
http://europa.eu.int/comm/research/conferences/2004/biology/index_en.html

Molto interessante la proposta per il panel Science Fiction, "The Cultural Spin-offs from the Life Sciences", con Carl Djerassi. Ma ancora troppo scarso l'impiego di mezzi di comunicazione della scienza, limitati alla relazione ed ad un invitante ma isolato dialogo tra Djerassi e la moglie, una lettura.

Peccato! Il tema proposto era stuzzicante. "If science were a religion, would science fiction be its mythology? (...) Suspended, as they are, between nature and culture, the life sciences provide fiction writers, dramatists and filmakers with a rich source of material for weaving their popular, science-inspired visionary tales".

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(24.3.04)

Gian Maria Borrello

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Il tema del convegno a cui stai assistendo cade a pennello rispetto alle tematiche trattate nel sito della Fondazione Bassetti.

Sto leggendo l'introduzione al convegno nella pagina che corrisponde al link che hai indicato col tuo ultimo intervento. E già trovo un innesto nel tema da cui eravamo partiti:

"For centuries, many have equated science with progress, and believed that the knowledge acquired through scientific inquiry is of a different, or higher, order to other forms of cultural, artistic or emotional understanding."


Il professor Djerassi interviene con una domanda

Brani tratti dal comunicato stampa
Le scienze biologiche nella società di oggi: biologia moderna e visioni dell'umanità

«Il 22 e 23 marzo si terrà a Genova capitale europea della cultura nel 2004 una conferenza unica nel suo genere, che riunirà scienziati e personalità di spicco del mondo delle arti, della cultura e della politica per discutere dell'influenza delle scienze della vita sulla formazione e la cultura nella società odierna. Nel corso della conferenza saranno esaminati i motivi per cui la scienza e la biologia ispirano fascino ma anche paura. Durante il Rinascimento e l'Illuminismo, le scoperte geografiche e le nuove arti e scienze permisero di ampliare le frontiere della conoscenza. Nella nostra epoca, invece, sono la biologia molecolare e la fisica contemporanea a fornire nuove spiegazioni sulla natura della vita e del cosmo. Ma esse generano anche scetticismo. La conferenza cercherà di spiegare perché. Al fine di rappresentare un ampio spettro di interessi e punti di vista, parteciperanno all'evento scienziati, filosofi, sociologi, psicologi, politici, scrittori, poeti e altri artisti. (...)

Come afferma il commissario Busquin, "il dibattito pubblico sul ruolo delle scienze e delle biotecnologie nella società di oggi è importante per comprendere le conseguenze della ricerca moderna e il suo impatto sull'impiego diffuso delle nuove tecnologie. Oggi non possiamo parlare di ricerca senza tenere conto di ciò che la scienza è o non è in grado di fare. Le conquiste nel campo scientifico e medico hanno drasticamente migliorato la qualità della vita, ma hanno suscitato al contempo numerosi dilemmi, a livello sociale e morale. L'impatto di tali conquiste sulla società e la cultura europee non può essere ignorato e sarà al centro dei dibattiti della conferenza". (...)

La scienza si è spinta troppo in avanti o non abbastanza?

Per molti secoli la scienza è stata considerata sinonimo di progresso e si è radicata la convinzione che le conoscenze acquisite grazie alla ricerca scientifica fossero di ordine differente, o più elevato, rispetto ad altre forme di conoscenza artistica o culturale. Allo stesso tempo, gli scienziati hanno posto l'accento sul carattere oggettivo delle loro scoperte che consentivano l'accesso a un ambito della "realtà" sottratto ai giudizi di valore e alle ideologie sociali. Ma sono in diversi a contestare queste interpretazioni. Possono veramente gli scienziati lavorare al di fuori del loro ambito socio-culturale? Quali sono i rischi che le scoperte in campo biologico vengano sfruttate a fini illeciti e in che misura la ricerca dovrebbe essere soggetta al controllo democratico?»

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(25.3.04)

Fiorella Operto

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Ecco un'altra segnalazione ghiotta. Ti (vi) consiglio di dare un'occhiata interessata e attenta all'autobiografia di Roald Hoffmann , in particolare alla conclusione, che qui riporto:

"In 1986-88 I participated in the production of a television course in introductory chemistry. "The World of Chemistry" is a series of 26 half-hour episodes developed at the University of Maryland and produced by Richard Thomas. The project has been funded by Annenberg/the Corporation for Public Broadcasting. I am the Presenter for the series which began to be aired on PBS in 1990, and will also be seen in many other countries.

My first real introduction to poetry came at Columbia from Mark Van Doren, the great teacher and critic whose influence was at its height in the 1950's. Through the years I maintained an interest in literature, particularly German and Russian literature. I began to write poetry in the mid-seventies, but it was only in 1984 that a poem was first published. I own much to a poetry group at Cornell that includes A.R. Ammons, Phyllis Janowitz and David Burak, as well as to Maxine Kumin. My poems have appeared in many magazines and have been translated into French, Portuguese, Russian and Swedish. My first collection, "The Metamict State", was published by the University of Central Florida Press in 1987, and is now in a second printing. A second collection, "Gaps and Verges", was also published by the University of Central Florida Press, in 1990. Articles on my poetry have appeared in Literaturnaya Gazeta and Studies in American Jewish Literature. I received the 1988 Pergamon Press Fellowship in Literature at the Djerassi Foundation, Woodside, California, where I was in residence for three years.

It seems obvious to me to use words as best as I can in teaching myself and my coworkers. Some call that research. Or to instruct others in what I've learned myself, in ever-widening circles of audience. Some call that teaching. The words are important in science, as much as we might deny it, as much as we might claim that they just represent some underlying material reality.

It seems equally obvious to me that I should marshal words to try to write poetry. I write poetry to penetrate the world around me, and to comprehend my reactions to it.

Some of the poems are about science, some not. I don't stress the science poems over the others because science is only one part of my life. Yet there are several reasons to welcome more poetry that deals with science.

Around the time of the Industrial Revolution - perhaps in reaction to it, perhaps for other reasons - science and its language left poetry. Nature and the personal became the main playground of the poet. That's too bad for both scientists and poets, but it leaves lots of open ground for those of us who can move between the two. If one can write poetry about being a lumberjack, why not about being a scientist? It's experience, a way of life. It's exciting.

The language of science is a language under stress. Words are being made to describe things that seem indescribable in words - equations, chemical structures and so forth. Words do not, cannot mean all that they stand for, yet they are all we have to describe experience. By being a natural language under tension, the language of science is inherently poetic. There is metaphor aplenty in science. Emotions emerge shaped as states of matter and more interestingly, matter acts out what goes on in the soul.

One thing is certainly not true: that scientists have some greater insight into the workings of nature than poets. Interestingly, I find that many humanists deep down feel that scientists have such inner knowledge that is barred to them. Perhaps we scientists do, but in such carefully circumscribed pieces of the universe! Poetry soars, all around the tangible, in deep dark, through a world we reveal and make.

It should be said that building a career in poetry is much harder than in science. In the best chemical journal in the world the acceptance rate for full articles is 65%, for communications 35%. In a routine literary journal, far from the best, the acceptance rate for poems is below 5%.

Writing, "the message that abandons", has become increasingly important to me. I expect to publish four books for a general or literary audience in the next few years. Science will figure in these, but only as a part, a vital part, of the risky enterprise of being human".

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(25.3.04)

Fiorella Operto

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Non ho mai assistito ad una rappresentazione di "Oxygen". Ho invece visto Copenhagen, che mi è molto piaciuto. Mi ha ispirato nell'intraprendere un analogo (non so se con analogo successo, però) esperimento in altro settore scientifico.


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(28.3.04)

Tommaso Correale Santacroce

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Lancio un po’ di collegamenti ai tanti aspetti proposti dal dialogo. Un po’ con la fionda, un po’ con l’accetta, a tracciare percorsi di pensiero.

1.
Ultimamente mi è capitato di leggere queste parole di Edoardo Sanguineti, grande esploratore della parola:
“vivendo per capire perché vivo,
scrivo anche per capire perché scrivo:
e vivo per capire perché scrivo,
e scrivo per capire perché vivo”

2.
Credo che si possa fare una distinzione tra gli artisti che utilizzano la conoscenza scientifica come ispirazione e artisti che la utilizzano (anche) come supporto per l’opera, come strumento “non tradizionale”. Il percorso artistico nei due casi risulta profondamente diverso e dai risultati estetici ancora più distanti.

Gli artisti che utilizzano la conoscenza scientifica come ispirazione, inoltre, possono essere distinti tra: coloro che si riferiscono a contenuti (come dare espressione visiva alla teoria della relatività di Einstein? Come descrivere in un pezzo teatrale lo scarto di metodologia che Galileo ha operato?) e coloro che indagano l’aspetto estetico (anche profondo) di certi fenomeni visibili (le galassie, lo scontro tra particelle...), prodotti dalle rilevazioni delle apparecchiature utilizzate dagli scienziati per i loro studi.

Sono distinzioni grossolane, quelle che sto facendo; però penso siano utili a capire come la relazione con la scienza, dal punto di vista di chi opera nell’arte, sia una questione anche estremamente pratica: “cosa ne faccio di questa informazione? Mi può servire per realizzare la mia opera?”

3.
Dalla presentazione di Oxygen al link già segnalato: «"Science is inherently dramatic ... " Djerassi says in his new book This Man's Pill (Oxford University Press), "... because it deals with the new and unexpected ... can 'science-in-theatre' also fulfill an effective pedagogic function on the stage or are pedagogy and drama antithetical?

Io credo che il teatro possa essere una possibilità pedagogica per comunicare le questioni scientifiche (sto lavorando ad uno spettacolo sulle prime osservazioni astronomiche di Galileo).
Per “Leben des Galilei” Brecht parlava di teatro didattico.
Ma penso che si debba considerare il teatro anche oltre il suo testo. Sarebbe riduttivo immaginare che, siccome il testo parla di un argomento scientifico allora, se spiegato bene, può essere didattico.
È la vita dei personaggi, la rappresentazione di quell'evento o di quel principio che può dare qualcosa di più di una lezione spiegata bene da un ottimo insegnante. Allora forse si può parlare di arte del teatro... altrimenti restiamo nel campo dell’insegnamento e delle sue tecniche.

4.
Tempo fa sul sito si è parlato di Billy Klüver perché le opere che ha realizzato si pongono proprio all’inizio della riscoperta di questa possibilità: utilizzare le conoscenze tecniche delle innovazioni scientifiche come strumento per esprimersi. Non per esprimere concetti scientifici, ma qualunque argomento, anzi: gli argomenti contemporanei, quelli che si riferiscono ad una società su cui la scienza e la tecnologia hanno una ricaduta diffusa ma poco segnalata. Argomenti che con strumenti tradizionali (pennello, parola, violino...) non si sarebbero potuti portare con la dovuta efficacia.

5.
I robot e l’arte o l’arte e i robot.
Anche qui: cosa consideriamo robot? Uno strumento che realizza una serie di operazioni che conducono ad un risultato? Allora è uno strumento. E in quanto tale utile a realizzare anche un’opera d’arte. Ma l’opera in quanto concezione e comunicazione (di informazioni o di emozioni...) potrebbe essere decisamente distante dalle questioni scientifiche.
Consideriamo un robot un oggetto? Quindi un elemento (attivo) che può far parte o può esso stesso essere una opera d’arte.

Fare robot in sé può essere un fare arte? Perché no?

6.
La Piccinini ha realizzato sculture veramente impressionanti: le ho viste a Venezia... qualcosa che muove un misto di fascino e ribrezzo, di riconoscibile e di mostruoso, di ignorabile e scandaloso, di amoroso e disdicevole.
Sto parlando soprattutto delle sculture, di una veridicità impressionante, di esseri inesistenti ma apparentemente possibili, perché costruiti con forme e proporzioni ed elementi che possiamo ritrovare nella nostra memoria (visiva e onirica).
Quello che sento come centrale è la leva che producono sulla concezione del “diverso”. Si parte dal pensiero delle manipolazioni genetiche e si ricade sulla realtà dell’handicap e dell’emarginazione.
Riconoscere un affetto possibile in un'area affettiva imprevista, un mondo di vita possibile dove si pensa che le relazioni siano invivibili.

E di fronte ad un robot androide?
Che differenza c’è fra realizzare un robot di informazioni, un robot con l’aspetto di una lavatrice e un robot che mima la forma e i movimenti di un uomo? Come si sente chi lo realizza?

Dove il creatore di robot sente un suo spazio d’espressone artistica?

Rambaldi, che ho citato nel mio (purtroppo lentissimo) blog, ha sempre pensato, a ragione, che le sue creature facessero parte del mondo artistico. Ma solo per la finalità per cui venivano realizzate? O anche per l’abilità nel pensarle e realizzarle (l’arte più o meno artigianale)? O forse per qualche altra ragione possono essere iscritte fra le opere d’arte?

7.
Credo che la distinzione tra soggettività e interiorità sia una nuova frontiera della più volte proposta domanda: ma quale può essere la distinzione tra un uomo e un androide che funziona nello stesso modo, che pensa, decide e percepisce?
La questione dell’oggetto pare, da questo punto di vista, superata.

L’oggetto che diventa uno specchio dell’uomo. Uno specchio tridimensionale, entrato nel mondo reale. Si racconta sempre dell’uomo che finisce dentro lo specchio... mai dell’immagine dello specchio che si stacca e ci mostra nella nostra stessa realtà.

8.
L’affettività verso un oggetto. Una costellazione di elementi che ci circondano e penetrano nel profondo del genere umano.
L’animismo e il feticismo. La pietra e la casa. La montagna e il totem.
Lo status rappresentato da ciò che possediamo e ci circonda. Le bambole e i peluche. L’automobile e il cellulare.
I sogni di oggetti che si animano.

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(28.3.04)

Gian Maria Borrello

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Citazione di Sanguineti: volevi suggerire che come per Sanguineti fra vita e scrittura vi è un significativo intreccio, così lo stesso può essere per un pittore o uno scultore, eccetera, così come per uno scienziato che... magari è anche artista?

Fai riferimento allo scarto di metodologia di Galileo rispetto al passato chiedendoti: "come rappresentarlo?". Bene, ho pensato che lo stesso può valere se all'espressione "scarto di metodologia" sostituiamo "innovazione metodologica".

Sulle innovazioni scientifiche come strumento per esprimersi ho qualcosa da dire, ma lo faccio in un prossimo post perché devo recuperare un testo che scrissi parecchi anni fa.

Riguardo al "cosa consideriamo robot" oserei fare un parallelo con la Piccinini (di nuovo) e in particolare con gli esseri da lei inventati (quanto inventati?) generati dalla bioingegneria. A prescindere dal chiedersi che tipo di esseri siano (sono vita? non lo sono? sono individui?) dobbiamo ("dobbiamo" nel senso che ce lo impone anche la nostra natura, la nostra morale interiore inconscia) porci il problema di quale rapporto (affettivo?) avere con essi. Qualcosa di analogo, mi sembra, è il messaggio veicolato da Spielberg nel suo film sull'intelligenza artificiale (c'è un essere artificiale che tanti nessi presenta col "nostro" Pinocchio). Alla fine mi verrebbe da dire: viene prima il chiedersi che cosa sia un robot o l'ascoltare (l'essere capaci di ascoltare?) l' "esprit de finesse" che viene dal nostro io interiore? Io vedo questo messaggio negli sguardi dei due scienziati in "Science Story", che ho citato in precedenza. E credo che questo sia anche ciò che pensa anche Tommaso quando parla di «Riconoscere un affetto possibile in un'area affettiva imprevista, un mondo di vita possibile dove si pensa che le relazioni siano invivibili.»

(in fondo, quello che voglio dire è che lo sforzo morale imposto viene dal trovarsi dentro al problema più ancora che dal "porselo"... qualcosa di simile a quello che tu Tommaso dici riferendoti allo specchio che irrompe nel "nostro mondo" mettendoci al cospetto di tante immagini... sfaccettature?... di "noi stessi": è lo specchio che irrompe, che noi lo vogliamo o no... è la biotecnologia che irrompe, che noi lo vogliamo o no, è l'innovazione tecnologica che irrompe: che noi lo vogliamo, o meno, poco conta)

Molto bello il "ponte" che Tommaso ha teso con lo specchio che "entra nel mondo reale": suggerisco ai lettori di questo dialogo di cliccare sull'immagine in alto a destra nella sezione Argomenti del sito FGB (il clic porta ad alcune digressioni proprio su questo tema).
[Ndr: l'immagine era nel punto indicato solo nel periodo in cui si è svolto il dialogo]

"Artificial Intelligence: AI", di Steven Spielberg (link all'Internet Movie Database)


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(30.3.04)

Fiorella Operto

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"Ti ho mai chiesto io, Artefice, di modellarmi uomo dalla creta? Ti ho sollecitato io di liberarmi dall'oscurita'?"
(Milton, Paradiso Perduto. Ovvero,dialogo tra un robot e il suo ingegnere)

"Decisi di non pensare e lasciar muovere le gambe come un automa"
(Italo Calvino. Ovvero, propriocezione di un robot)

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(1.4.04)

Fiorella Operto

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Il nostro Tri@logo segue diverse direzioni. Non ho l'animo della sintesi, sicché aggiungerò legna al camino. Ho letto un interessante saggio "Dal Golem all’intelligenza artificiale: la scienza in teatro per una riflessione esistenziale", di Silvana Barbacci, Master in Comunicazione della Scienza al Sissa di Trieste, sul teatro scientifico, storia e opere principali. Contiene una bella sintesi di R.U.R, Rossum’s Universal Robots di Karel Capek, dove per la prima volta si impiega il termine "robot" in senso moderno. Io credo interessante leggere le opere in originale, o almeno in precisi compendi. Davvero spaventosa l'analogia tra gli incubi robotici di RUR e gli incubi storici che da lì a poco si sarebbero avverati.
Discutendo con gli scienziati robotici che hanno partecipato al Simposio sulla Roboetica, lo scorso gennaio, in particolare i giapponesi e gli statunitensi, abbiamo avuto, tangibile e pressante, il senso della preoccupazione sulla relazione tra umanoidi e umani, NON come generale problema astratto ma particolare e pratico elemento da affrontare. Ho compreso dal vivo come gli ingegneri da soli non siano attrezzati ad affrontare questo problema. Ecco perché, MOLTO PRATICAMENTE, occorre l'apporto di tutta la società.
Per tornare ai classici (nostri classici), il rinascimento tedesco del 19mo secolo innalzò gli artisti a istituzioni morali. Di lì a poco la Germania avrebbe espresso ben altre tendenze, ma credo che la strada non fosse del tutto sbagliata.

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(2.4.04)

Gian Maria Borrello

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Fiorella dice: «abbiamo avuto, tangibile e pressante, il senso della preoccupazione sulla relazione tra umanoidi e umani, NON come generale problema astratto ma particolare e pratico elemento da affrontare».

Ecco, questo è ciò che intendevo dire anch'io col mio precedente intervento parlando del trovarsi "dentro" alla questione: non la stiamo analizzando "da fuori", quasi fosse un'ipotesi teorica, perché la bionica (forse questo termine, per quel che voglio dire, è più adatto di "robot", parola che, a torto o a ragione, a molti richiama alla mente sempre i "robottini" giocattolo o quelli dei film come "Guerre Stellari")... la bionica --dicevo-- è una realtà ormai consolidata e gli organismi artificiali (con tutto ciò che di ambiguo questo termine può avere) sono già tra noi, e lo stesso vale per il mix tra l'organico e la "ferraglia" (chip sottocutanei, ecc.).

Bene, sappiamo che c'è qualcosa di ancestrale che emerge a livello psicologico nel trapiantare il cuore di un essere umano in quello di un altro, così come lo stesso avviene, per ragioni forse in parte diverse, per esempio nel trapianto di mano; in termini simili può porsi la questione del rapporto con l' "altro da noi" quando questo "altro" non rientri nei classici canoni di riconoscimento atti a definirlo "essere", "individuo", "persona", "animale" o... "cosa"... Dovremmo capire che tale questione è quindi attualissima. E, infatti, gli artisti (che sono poi, in senso idealtipico, coloro che che "vedono prima") ormai da tempo la rappresentano. Forse meno gli ingegneri o chi con queste cose ci lavora (e il perché è anche comprensibile) e forse è anche giusto che sia così, perché penso sia utile anche non parlarne con enfasi (e invece questo è un rischio che l'artista sconta).

E' questo che tu, Fiorella, intendi quando dici: «Ho compreso dal vivo come gli ingegneri da soli non siano attrezzati ad affrontare questo problema.» ?

Comunque, quello che voglio sottolineare è che "la sensazione", "la percezione", l' "intuizione per sintesi" subentrano prima dell'analisi per "canoni di riconoscimento" (quelli a cui ho fatto riferimento appena sopra), e sono approcci col mondo da non sottovalutare (anche se da prendere con le pinze). E' anche --direi-- un problema di etica: fino a che punto dare rilievo alle opinioni, fondate spesso sull'ineffabile, di coloro che non si occupano di bionica o di robotica, ma che con la bionica e con la robotica ci hanno (o ci avranno) presto a che fare?

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(2.4.04)

Gian Maria Borrello

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Jean Tinguely: Life and Work

(su Amazon.com)
Riguardo all'uso delle innovazioni scientifiche come strumento per esprimersi, di cui parlava Tommaso, ho la mia opinione.

Ne ho parlato parecchi anni fa in Rete e questo è il testo di allora che ho "riesumato".

Però, prima che lo leggiate, vorrei portare la vostra attenzione su un punto: la mia opinione riguarda non la tecnologia applicata nel momento espressivo (perché qui, poi, è questione di intendersi: l'uomo da sempre fa ricorso alla tecnologia), bensì la tecnologia che interviene nel momento creativo. Ciò ha che fare con la mia concezione di artista come "architetto di sensazioni". Il percorso del mio ragionamento risulterà anche abbastanza chiaro leggendo le didascalie che troverete sulla destra del testo.

Domanda secca (e volutamente anche un po' provocatoria): così come si parla di "responsabilità dello scienziato" si può parlare di "responsabilità dell'artista" nell'esprimere l'innovazione?


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(3.4.04)

Tommaso Correale Santacroce

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Altri frammenti di pensiero per un tema che si sviluppa come le nuvole.

1. Credo anch’io che il divario tra insensibilità dell’oggetto e sensibilità della percezione, segnalato nelle due citazioni di Milton e Calvino, possa essere uno dei distinguo in esame. L’altro, già posto, è quello tra soggettività e interiorità.

2. Mi piace l’idea di segnalarvi un fumetto che della relazione tra uomo, mutazione genetica e robotica, esplora, con la sfrenatezza che solo un fumetto può regalare, le più inimmaginabili possibilità: Nathan Never della Bonelli Editore.

3. Ci sono due linee ricorrenti nei romanzi con esseri creati in laboratorio: una energia scardinante, come trattenuta e liberata, che si scatena contro il creatore e la società (Pinocchio, Frankenstein...) e che poi si quieta o muore per inadeguatezza; e una sofferenza dovuta al venire ad essere (Milton, Golem...) che, allo stesso modo finisce per condurre alla fine. Si tratta comunque di inadeguatezza dell’essere creato e, insieme, di orrore del creatore per l’azione compiuta.

4. La realizzazione di qualcosa di nuovo tramite tecnologia (senza un processo legato ad una teoria scientifica ad esempio, ma anche ad una visione dell’essere), spesso porta ad una imprevedibilità delle reali potenzialità.
Le possibilità vengono scoperte facendo, provando.
Gli effetti speciali digitali nei film, prima che venissero utilizzati per il contenuto forte della pellicola, venivano utilizzati per la loro superficie estetica. La consapevolezza non della loro potenzialità, ma delle reali possibilità è venuta con l’utilizzo massiccio, con investimenti potenti.
È proprio l’unico metodo possibile? Al momento è come se le nostre possibilità creative fossero più avanti delle capacità cognitive.
Un po’ come essere bimbi con un pastello in mano: tra la decisione di cosa disegnare e l’interpretazione di ciò che lo scarabocchio mostra, c’è sempre uno scarto. La visione dello scarabocchio da parte di altri è ancora differente, vede altre cose.

Ma i robot possono essere intesi come scarabocchi? Si realizzano solo tramite una alta conoscenza in tanti campi... ma quanto riusciamo ad afferrare il loro significato nel mondo che viviamo?

5. Come coinvolgere in uno staff di realizzatori di robot, dei filosofi e degli psicologi?
Cogito ergo sum. Descartes. Res Cogitans e Res Estensa.

6. Inanimato e animato.

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(4.4.04)

Gian Maria Borrello

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Ho letto il saggio di Silvana Barbacci indicatoci da Fiorella e l'ho trovato entusiasmante perché è tanto sintetico quanto articolato nell'esporre tre diverse prospettive su quell'unico (ma non univoco) argomento che è "scienza e teatro". Ma su questo testo conto di soffermarmi in un altro momento. [Ndr: il 14 aprile è stato pubblicato, nella sezione Argomenti, un articolo di commento al saggio di Silvana Barbacci]

Quello che qui vorrei dire ora è che la lettura delle presentazioni che la Barbacci fa delle prime due opere teatrali di cui parla, cioè "R.U.R, Rossum’s Universal Robots" di Karel Capek e "Il cervello nudo" di Giuseppe O. Longo, mi hanno rammentato un'idea che cova in tanti approcci artistici (o in tante interpretazioni di approcci artistici) al problema del rapporto tra il potere dell'essere umano e suo destino. Quest'idea è che la "salvezza" dall'abisso a cui pare che siamo predestinati a causa dell'hybris che dalla nostra genesi assorbe finalisticamente il disperato anelito di dare un senso alla nostra esistenza... questa salvezza verrebbe dal "principio femminile". La fata di Pinocchio? Pensiamoci (c'è un simbolismo anche nel fatto che la fata sia turchina così come l'abito della Madonna...). Pensiamo alle numerose analogie e a come una lettura di molte fiabe, leggende, romanzi, opere artistiche che scelga una prospettiva che ponga in primo piano la distinzione di genere, maschile e femminile, dei protagonisti e dei personaggi sia estremamente significativa. Persino in campo religioso.

Riflettiamo anche su questo: colui che in questi miti o leggende crea l'essere "artificiale" (golem o robot che sia o che vogliamo chiamarlo) è sempre un mago o uno scienziato maschio.
Ora, andando un passo oltre, io mi chiedo ancora (e in questo interrogarmi mi rivolgo anche in particolar modo a Fiorella): siffatta visione della storia può forse dipendere dal fatto che tali miti, leggende, racconti sono stati "partoriti" da cervelli maschili, menti che rispondono a un inconscio bisogno di salvezza materna, di ritorno alle origini? Oppure, oltre a (o a prescindere da) questa interpretazione di pisicanalisi spiccia, c'è dell'altro? In altre parole: c'è un'effettiva diversa presenza e un effettivo diverso apporto, percepibile nella storia, del principio maschile e di quello femminile?
E comunque sia: qual è l'apporto delle donne all'immaginifico di genere golemico (mi viene in mente Mary Shelley, ma ce ne sono altre certamente) e in che cosa esso si distingue dall'immaginifico golemico maschile?
(in nuce a queste domande c'è anche un possibile approccio al tema della responsabilità nell'innovazione che mi sembra non sia stato molto praticato nel sito della FGB: non trovate anche voi?)

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(14.4.04)

Fiorella Operto

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Tommaso ha scritto:
«Ma i robot possono essere intesi come scarabocchi? Si realizzano solo tramite una alta conoscenza in tanti campi... ma quanto riusciamo ad afferrare il loro significato nel mondo che viviamo?

5. Come coinvolgere in uno staff di realizzatori di robot, dei filosofi e degli psicologi?
Cogito ergo sum. Descartes. Res Cogitans e Res Estensa.»
I robot possono essere anche scarabocchi, se la loro funzione è tale.
In un film, può occorrere un robot macchietta, un robot mostro, un robot "Gesù" (come nel film Passion di M. Gibson). In genere, i robot assumono la forma data dalla loro funzione: se devono navigare e operare in fondo al mare, saranno pesci-robot (non necessariamente nella forma ma nella "fisiologia"). Se devono camminare in terreni scoscesi, esapodi, ragni. E così via. Un po' come è successo ai nostri arti, per esempio, a causa dell'evoluzione. Ma se, come accade oggi, l'evoluzione robotica è più ragionata di quella naturale, allora sì che occorrono psicologi, neuroscienziati e filosofi, non solo per produrre l'intelligenza dei robot ma forse anche per indirizzarne, appunto, l'evoluzione. Sempre nella speranza che non si ribellino.



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(24.4.04)

Tommaso Correale Santacroce

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Quindi con i robot ci troviamo di fronte a qualcosa che potenzialmente può pervadere ogni cosa (fisica). Non solo una “copia” dell’uomo ma di ogni cosa. Una copia del mondo reale.
Quanto siamo nel campo della fantascienza con una dichiarazione simile?
Nel famoso “Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Fanucci editore, 2000) di Philip K. Dick si parla, appunto, della differenza di possedere un animale artificiale o uno naturale. Fra loro sono quasi indistinguibili se non per la relazione che vi si può instaurare e, soprattutto, per la coscienza di avere a che fare con un prodotto artificiale o naturale.
Nella distinzione tra pecora artificiale e pecora naturale, cosa entra di più in gioco? L’auto suggestione di avere a che fare con qualcosa di “vero” contro qualcosa di “finto” o si immagina che una pecora naturale dia più calore emozionale, partecipi di più dal punto di vista dell’affetto?
Il ruolo delle "emozioni": estremo rifugio, debole e delicato, di chi volesse a tutti i costi sottolineare un primato umano nel mondo reale. Eppure è proprio il termine con cui diventa possibile accettare una nuova esistenza "sensibile". Se scoprissimo che i mattoni possiedono sentimenti, certo il loro ruolo (già nobile) nel mondo cambierebbe! Eppure, le emozioni sono proprio ciò che l'uomo ha di meno descrivibile e afferrabile. La medicina ha ormai strumenti solidi a cui far ricorso sia per descriverle che per gestirle; ma la loro essenza le avvicina alla più complessa delle operazioni fatte dal nostro essere (e utilizzo volutamente questo termine e non "cervello", "mente" o "corpo").

Parliamo di robot che “fanno questo o quello”. I fatto che un robot venga realizzato per fare una precisa azione non ci stupisce più di tanto. Siamo ancora legati alle azioni umane: realizziamo qualcosa “per far si che...”. Eppure se uniamo questa naturalezza a “macchine pensanti” ci viene un po’ di inquietudine: un androide realizzato per un fine specifico ci spaventa.

Qui si torna al discorso dell’aspetto. Un robot androide, che dunque mima la forma e i comportamenti umani, funziona un po’ come un riflesso tridimensionale della nostra immagine. L’idea che possa compiere solo determinate azioni e non altre mette in gioco questioni non da poco: libertà e responsabilità. Se queste questioni le sommiamo anche all’idea che un sistema robotico di questo tipo possa apprendere e evolversi, incontriamo altri stridori.

Copia del mondo reale. Copia o qualcosa di più? Altro mondo. Dipende dall’autonomia.
Si spalanca il grande tema del doppio. Paventato dalle questioni della clonazione, antico nelle speculazioni filosofiche legate all’immagine allo specchio. Naturale nei misteri dei gemelli.

Due note tratte dai quotidiani: robot da utilizzare in guerra in sostituzione dei soldati sono allo studio in America (e immagino non solo lì); mentre in Giappone viene sperimentata una modalità di pet therapy per anziani e malati, in cui al posto del cucciolo viene utilizzato Aibo, il robottino della Sony a forma di cane (su quest’argomento c’è un articolo nel sito enel.it).
Ma penso che queste due segnalazioni siano due fra centinaia possibili.

Non credo sia un caso che parlando di queste cose, più volte ci si trovi a riferirsi a prodotti cinematografici. Il cinema, la finzione sullo schermo e nei televisori, si è fatta via via più sofisticata, fino a confondere le acque tra quel che è realtà e quel che non lo è. L’effettiva impossibilità per una persona comune, ma credo spesso anche per uno scienziato, di poter conoscere (se non almeno comprendere) i confini di ciò che l’uomo può fare, realizzare, compiere, rende possibile la domanda “secondo te questo che vedi è vero o no?”.
Con la robotica, la finzione bidimensionale del cinema si può proiettare nella terza dimensione.


«Corpo e genio sono simboli e attori del disordine, si oppongono dunque al continuo tentativo dell’uomo di impartire ordine e regola al mondo eccessivo e caotico nel quale viene a trovarsi. Con l’aiuto della ragione, della razionalità computante, l’uomo cerca sempre infatti di ricostruire la realtà, sostituendo al mondo dato, troppo florido e rigoglioso, un mondo più asettico e meno violento, un mondo misurato e dominabile che gli consenta di sopravvivere.» Di questa frase di Longo, ripresa dalla Barbacci nel saggio già citato e poi anche nell’articolo pubblicato nella sezione Argomenti, mi preme sottolineare i termini “misurato e dominabile”. Il mondo misurato non necessariamente è dominabile, ma forse misurato sta anche nel senso di “azione di dimensioni non eccessive”. Allora l'altro termine, "dominabile" sta per "controllabile" (non necessariamente "opprimibile"). Un po' come pensare ad un mondo senza più imprevisti e azioni imprevedibili. Secondo questa linea di idee sarebbe un mondo senza innovazioni?

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