Perché questo Percorso
|
Riferimenti |
|
Alcuni brani tratti dall'articolo di Testart (grassetti nostri):
«
(...) per le tecnologie che possono danneggiare l'ambiente o le specie domestiche, se non addirittura l'uomo, l'atto della valutazione non si basa più solo sulla validità della conoscenza, quale garanzia scientifica della decisione, ma anche sulla capacità di tener conto dell'indeterminato e di prefigurare un futuro incerto (...)
(...) È tipico delle situazioni che sottostanno al principio di precauzione manifestare un'irriducibile incertezza, perché nessuno, e sicuramente non una mente razionale, è capace di predire il futuro, proprio mentre il presente innesca meccanismi dalle conseguenze inedite. E infatti la Commissione europea annuncia che «nella sua analisi di rischio sarà guidata dal principio di precauzione nei casi in cui le basi scientifiche siano insufficienti o quando esistano incertezze (...)
(...) Poiché gli stessi esperti riconoscono l'esistenza di una zona di incertezza, almeno in quanto costante residuale ineliminabile, sembra incoerente riconoscere alla valutazione scientifica lo statuto di conoscenza incontestabile e considerarla sufficiente all'elaborazione delle decisioni politiche. Tuttavia è proprio questo che propone la Commissione europea in un recente comunicato [Ndr: la Comunicazione del febbraio 2000], in cui si ignora del tutto il dibattito che attraversa la società. Questa deriva della ragione semplificatrice, che dimentica la complessità dei fenomeni analizzati, comincia nel momento in cui si concede la qualifica di esperti esclusivamente allo scienziato, all'ingegnere, o anche all'economista, trascurando tutti gli altri saperi che pure concorrono alla conoscenza. (...)
(...) Gli scienziati insistono molto sulla necessità di dettagliare i rischi tecnologici, condizione che reputano necessaria per poterli riconoscere, e la stessa Commissione di Bruxelles si richiama a «un processo decisionale strutturato, fondato su dati scientifici dettagliati ed altre informazioni obiettive». Così tanti riferimenti alla scienza e all'obiettività lasciano intendere che, da qualche parte, qualcuno sa, ma anche che ciò che si è incapaci di «dettagliare» non meriterebbe di essere discusso. (...)
(...) È come se si descrivesse una situazione idilliaca (la scienza deve sapere, per principio), evocando al tempo stesso le attuali carenze (il grado di incertezza), considerate temporanee, e rifiutando altri argomenti che sfuggono totalmente alla scienza, anche se presentano lo stesso grado di incertezza della valutazione scientifica.
L'instaurarsi del principio giuridico di precauzione ha escluso il principio morale, spesso invocato nel corso dei due decenni precedenti come «principio di responsabilità», per riprendere l'espressione di Hans Jonas. Questo autore - che già allora guardava con preoccupazione alle tecnologie del nucleare e del gene - ammetteva, tra le soluzioni etiche, l'abbandono puro e semplice di un progetto, mentre l'attuale precauzione porta piuttosto a differirlo o a regolamentarne le condizioni d'uso.
Anche quando si arrivasse a supporre che un'innovazione tecnologica sia esente da rischi potenziali secondo il principio di precauzione, un tale verdetto non sarebbe sufficiente a giustificarne l'uso in piena responsabilità. Soprattutto riguardo al futuro, che impone altre preoccupazioni: quali effetti su sviluppo, natura, giustizia sociale, occupazione, solidarietà regionale, relazioni Nord-Sud, ecc.? Ma come accollarsi per troppo tempo un simile principio morale, riproponibile all'infinito, quando la globalizzazione ci obbliga ad una sempre maggior deferenza verso nuovi «valori»: competitività, libero scambio, investimento, produttività, progresso tecnologico?
Nel registro delle «idee forti», alle quali non si può opporre niente di intelligente, si trova questo incantesimo ricorrente, di un'affliggente banalità: «Il rischio zero non esiste», semplice precauzione linguistica contro le possibili conseguenze della mancanza di precauzione che ci si appresta così ad accettare. Ma è proprio necessario rompere le uova, se non c'è bisogno della frittata? Il discorso della valutazione, limitato dalla preoccupazione di dimostrare il rischio - o, piuttosto, il non-rischio - maschera l'assenza di domanda, o anche di interesse, dei cittadini per l'oggetto del contenzioso. Questo accade per le piante transgeniche, che alcuni industriali cercano di imporre - ma, in realtà, chi le ha mai richieste? (...)
(...) «Come arrivare a decisioni politiche ragionevoli, se alle incertezze della scienza o alla soggettività della valutazione si aggiungono le difficoltà di giudizio? Analizzando la «democrazia tecnica», Michel Callon ricorda il ruolo degli scienziati nell'educare il pubblico in una «lotta per la Luce contro l'oscurantismo». Spesso questa funzione è interpretata in un senso messianico dagli ambienti scientifici (...)
(...) È evidente che informare il pubblico è necessario, ma niente indica che ciò porterà inevitabilmente all'accettazione delle piante transgeniche, a meno di non confondere posizioni etiche con razionalità e conoscenza scientifica. È anche per questo che Michel Callon insiste sull'importanza di mobilitare le conoscenze dei profani per legittimare le decisioni. (...)
(...) È sorprendente constatare l'assenza di ogni riferimento al dibattito pubblico nella Comunicazione della Commissione europea sul principio di precauzione (...)
(...) Di fronte ai poteri di cui dispongono le lobby dei tecnici nelle moderne società, l'unico modo per limitare i danni è quello di rafforzare le procedure di informazione, consultazione e trattativa che garantiscono il funzionamento democratico delle nostre istituzioni (...)
(...) Anche qui, si tratterebbe di riportare gli esperti al loro ruolo esclusivo di informatori, e di scommettere sull'intelligenza, l'intuizione e il buon senso di cittadini responsabili.
(...) [è] davvero scientifico un prodotto della ragione che non dimentichi di non sapere tutto. (...)
»