Gli interventi di:
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Sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore di sabato 8
giugno è apparsa una finestra che rimandava ad una pagina web, "Il conflitto di
interessi tocca anche gli scienziati", della sezione cultura dell'edizione
on-line del quotidiano economico-finanziario. Già dal mese di maggio, nella Rassegna stampa della Fondazione Bassetti è stato toccato il
tema del conflittto di interesse nella scienza, rendendo disponibile su richiesta, oltre
ad altro materiale, proprio lo scritto di Giovanni Fava "Conflict of Interest and
Special Interest Groups. The Making of a Counter Culture" di cui nella pagina web de
Il Sole 24 Ore vengono riportati i brani iniziali.
Con ciò non intendiamo rivendicare una qualche sterile primazia, bensì sottolineare come
questa convergenza possa contribuire a sensibilizzare l'opinione pubblica rispetto a
determinati problemi.
Poiché però intenzione della Fondazione Bassetti è non solo di far emergere i problemi,
ma anche di suscitare attorno ad essi un costruttivo confronto di idee, sul tema del
"conflitto di interesse" apriamo un dibattito al quale possono partecipare
quanti pensano di avere qualcosa da dire.
Ulteriori elementi di approfondimento possono essere ricavati dalle Rassegne Stampa
commentate di Aprile - Maggio e di Maggio
- Giugno.
Vittorio Bertolini
( www.fondazionebassetti.org => info)
25 giugno 2001
From: Domenico LANFRANCHI
Subject: Conflitto di interessi e pubblica opinione
Tenderei a ricondurre il dibattito sul conflitto d'interessi nella scienza in quello che
mi sembra il più ampio problema delle "idee storte".
"Con l'idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici:
n'aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche ce n'era per
disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care."
In un certo senso siamo un po' tutti come la manzoniana donna Prassede: tutti, scienziati
compresi, abbiamo le nostre "idee storte", ci siamo molto affezionati e ci
dispiace abbandonarle, soprattutto se le sentiamo come nostre creature ("ogni
scarafone è bello a mamma sua"). Per fortuna dell'umanità molte "idee
storte" sono abbastanza innocue e servono solo per vivacizzare con qualche polemica
le pagine culturali dei giornali; altre purtroppo possono avere effetti catastrofici,
penso per esempio all'idea che l'AIDS non sia causato dal virus HIV, e ci pongono dei
problemi molto seri.
Il primo grosso problema è se sia possibile mettere a punto un sistema di procedure e di
controlli che consenta di individuare in modo chiaro, rapido e possibilmente definitivo le
"idee storte"; per quanto mi dispiaccia, temo che un simile sistema non esista,
o meglio le nostre conclusioni sono per lo più destinate ad essere solo probabili (talora
altamente probabili) e provvisorie: in linea di principio è sempre possibile attribuire
il risultato negativo di uno o più esperimenti alla mancata verifica di qualche ipotesi
sussidiaria e non al fallimento della nostra ipotesi. Questo limite strutturale della
ricerca scientifica onesta lascia purtroppo aperti degli spiragli a teorie e prassi che
poco o nulla hanno di scientifico (le "idee storte") e che non concedono alcuno
spazio a quei dubbi ed a quelle incertezze che della sana ricerca dovrebbero essere il
pane quotidiano. Mi sembra illuminante l'esempio dell'omeopatia: chiunque abbia studiato
un po' di chimica (e per diventare medici si sostiene un esame di chimica) dovrebbe
conoscere il numero di Avogadro e la relativa legge, da cui risulta che il numero di
particelle presente in una mole di una determinata sostanza è costante ed è pari a
6,022
x 1023. I medici omeopati che prescrivono rimedi con diluizioni che
giungono anche a 1:1090 hanno forse dubbi sull'efficacia dei loro preparati?
Che si siano presi la briga di dimostrare che Avogadro aveva sbagliato tutto? Che abbiano
riscritto la chimica? Niente di tutto questo: si preferisce fantasticare su ipotetiche
"memorie dell'acqua", piuttosto che dubitare dei propri assiomi (che forse a
questo punto andrebbero correttamente chiamati dogmi). Certo nessuno può escludere che
anche a quelle diluizioni sia possibile trovare una molecola del principio attivo, ma la
probabilità è paragonabile a quella che io ho di suonare una polacca di Chopin pestando
a caso i tasti di un pianoforte.
Il secondo grosso problema è quello della cultura e dell'informazione scientifica a
livello di opinione pubblica. Ad eccezione di poche riviste e delle pagine specialistiche
di alcuni quotidiani, la cultura scientifica nel nostro paese è a livello di
semianalfabetismo: nella cronaca dei nostri quotidiani si trova regolarmente il
"virus della salmonellosi" (recentemente anche del tetano, forse in un futuro
non lontano arriverà anche il virus della caduta dalle scale), gli aerei perdono 6000
metri di quota in 20 secondi (quanto è l'accelerazione di gravità?) ed è più probabile
morire colpiti da un meteorite che non dalla BSE (quante persone sono morte colpite da
meteorite negli ultimi secoli?). Qualsiasi bufala viene raccolta e rilanciata senza il
minimo vaglio critico, nessuna meraviglia se nascono manifestazioni di massa a favore
della cura Di Bella, o se la gente crede che una persona con elettroencefalogramma piatto
si possa risvegliare come se avesse fatto una pennichella. La mancanza di cultura
scientifica anche da parte dei responsabili dell'informazione favorisce poi la mentalità
complottistica e le argomentazioni ad personam: si dà per scontato che le "cure
alternative" siano efficaci, e che i loro meriti non vengano riconosciuti solo
perché c'è un complotto da parte della "medicina ufficiale" i cui esponenti
sono tutti pagati dalle multinazionali del farmaco. Senza cultura non ci può essere
democrazia, né tantomeno un controllo sociale democratico sulla scienza.
La mancanza nel nostro paese di una cultura scientifica diffusa (o forse di una cultura
scientifica tout court) ci obbliga a fidarci degli scienziati e del libero dibattito della
comunità scientifica. Non ci sono alternative. O meglio, sullo sfondo delle possibili
alternative mi si presenta sempre lo spettro di Trofim Lysenko, che riuscì a convincere
Stalin della bontà delle sue teorie ed a far liquidare (nei gulag) come "cultori di
una scienza idealista borghese priva di sbocchi pratici" i genetisti mendeliani. Come
si sa la genetica proletaria di Lysenko ebbe invece notevoli sbocchi pratici e si devono
alla sua applicazione in campo agricolo alcune delle più disastrose carestie di tutta la
storia sovietica.
Se uno scienziato deve convincere altri scienziati della validità delle sue ricerche,
probabilmente ricorrerà agli strumenti del metodo scientifico (almeno si spera che i suoi
interlocutori non siano troppo sensibili ad argomenti di altro tipo); se invece deve
convincere dei politici o il pubblico può diventare più forte la tentazione di ricorrere
ad argomentazioni retoriche (che ne sanno gli interlocutori del metodo scientifico?). Non
escludo che misure come l'obbligo da parte degli scienziati di dichiarare le proprie
consulenze ed i propri rapporti economici possano contribuire a migliorare la trasparenza
ed un governo più "democratico" della ricerca scientifica, ma tutto sommato non
mi sembra una misura risolutiva: a parte l'ovvia constatazione che tonnellate di
sciocchezze si dicono gratis, perché dobbiamo supporre che uno scienziato (per esempio
Boncinelli o Dulbecco) sia favorevole ad un certo programma di ricerca (per esempio sugli
OGM) in quanto ha un contratto di consulenza con un importante azienda del settore e non
invece che abbia stipulato quel contratto di consulenza perché convinto "in scienza
e coscienza" della validità di quel programma di ricerca?
Quanto al finanziamento pubblico della ricerca lo ritengo fondamentale, soprattutto per
consentire quelle ricerche da cui non ci si possono ripromettere ritorni a breve scadenza
in termini di profitto, ma non mi sembra che per il resto ci siano differenze
significative rispetto alle ricerche finanziate da aziende private: il ricercatore deve
fare opera di convinzione su di un finanziatore pubblico e non su uno privato, su di un
politico piuttosto che su di un imprenditore, ma non sembra che questo comporti differenze
sostanziali nei rapporti (del resto Lysenko non operava in strutture pubbliche?).
Resta un'ultima importante considerazione da sviluppare ed è che tutto il discorso che
precede è volutamente schematico: abbiamo ipotizzato lo scienziato, il politico, il
cittadino come altrettanti soggetti diversi; ciò fa sì che la situazione ci si presenti
senza via d'uscita. Se invece ci prospettiamo una realtà sociale in cui non solo si
diffonde a tutti i livelli la cultura scientifica, ma gli scienziati avvertono sempre più
le responsabilità sociali ed etiche del loro ruolo e, cosa ancor più difficile, i
politici la smettono di fare i politicanti, disposti a sponsorizzare qualsiasi movimento
d'opinione purché offra la prospettiva di far guadagnare un pugno di voti (vedi caso Di
Bella), forse una via d'uscita si può intravedere. Si tratta però di un cammino lungo e
difficile che richiede molto lavoro ed una lotta dura e impegnativa contro la
disinformazione, la superficialità e l'approssimazione imperanti nel nostro paese.
25 giugno 2001
From: Luigi FOSCHINI
Subject: Alla ricerca dell'imprevisto
Quando si parla di conflitto di interessi nella scienza, si pensa subito ai rapporti tra la scienza applicata e lindustria, in particolare ai ricercatori nel settore biomedico e le industrie farmaceutiche. Leditoriale di G. A. Fava su Psychotherapy and Psychosomatics (70, 1-5, 2001), prende in considerazione i molteplici aspetti di questo tipo di conflitto di interessi.
È però necessario considerare altri aspetti del conflitto, forse non così evidenti come quelli citati, ma che possono colpire anche le branche della scienza pura. Per fare questo è necessario prendere in considerazione una definizione di conflitto di interessi più ampia e non ristretta a una "semplice" lotta tra sponsor. Fava cita una definizione di Margolis, secondo cui il conflitto di interesse - da distinguere dal conflitto di interessi - sarebbe quello in cui una persona ricopre due incarichi che non dovrebbero essere svolti simultaneamente. Questa può essere una buona base di partenza.
Nel 1985, A. R. Pickering e W. P. Trower scrissero un interessante articolo "Sociological problems of high-energy physics" (Nature 318, 243-245, 1985), in cui facevano notare che i progetti su grande scala di fisica delle alte energie introducevano dei problemi "sociologici" non indifferenti. È bene sottolineare subito che quanto scritto da Pickering e Trower per la fisica delle alte energie, si applica altrettanto bene a molti altri settori della fisica pura, ovunque ci siano collaborazioni su grande scala (per esempio, la costruzione di un satellite, lastrofisica).
Il problema fondamentale è che se negli anni sessanta un esperimento poteva essere ideato, condotto, e analizzato nellarco di qualche mese con al massimo, laiuto di qualche tecnico o giovane apprendista, gli esperimenti odierni coprono anche due decenni, con limpiego di centinaia di persone e risorse. Leffetto più devastante che una tale organizzazione si porta dietro è, per usare le parole di Pickering e Trower, "the frustration of individual initiative and creativity within large collaborations, and the consequent tendency to conservatorism and orthodoxy in communal practice". I due autori supportano la loro tesi con diversi argomenti:
Lorganizzazione dellesperimento suddivide i compiti in tanti obiettivi, che vengono assegnati alle varie università e/o istituti di ricerca, che a loro volta, li spezzano in micro-obiettivi che vengono assegnati a giovani dottorandi o post-doc. Questi ultimi acquisiscono una conoscenza estremamente dettagliata di una minuscola parte di un progetto enorme e diversificato, riducendo nel contempo la loro possibilità di dare contributi significativi, al di fuori della propria micro-area, allesperimento globale.
Anche a livello di ricercatore senior le cose non vanno meglio, perché le incombenze burocratiche e amministrative soffocano lattività di ricerca.
Una tale organizzazione si autoriproduce: le competenze acquisite, su cui poter costruire la propria carriera di ricerca, essendo estremamente specialistiche, riducono la possibilità di cambiamenti o semplici evoluzioni di interesse. Inoltre, questo "conservatorismo tecnologico" implica un conservatorismo nei temi di ricerca, cui si aggiunge presto la paura di fallire. Infatti, in questi esperimenti su grande scala sono in gioco non solo le carriere e le reputazioni dei capi, ma anche quelle di tutti i partecipanti ai progetti, che si possono ritrovare ad avere speso due decenni della propria vita dietro a un fantasma. Quindi, una volta completata la "macchina" si procede a investigare cose già note o di cui sia facilmente prevedibile il risultato, in modo da ottenere un successo garantito. Come argutamente scrisse il Premio Nobel per la fisica (delle particelle) Luis Alvarez, riferendosi alle pianificazioni in corso in questi esperimenti, "Our present scheduling procedures almost guarantee that nothing unexpected can be found".
Quanto sommariamente riassunto, si può applicare a molte branche della fisica pura, per esempio lastrofisica delle alte energie, dove la necessità di disporre di satelliti per losservazione richiede collaborazioni su grande scala, con problemi analoghi a quelli descritti sopra.
In questi casi, quando il timore per la propria carriera e/o la propria famiglia sovrasta e soffoca le esigenze della scienza, è lecito parlare di conflitto di interessi, che a questo punto può essere esteso a una definizione di questo genere: quando interessi estranei alla scienza stravolgono le scelte di ricerca, sottomettendole alle proprie esigenze.
Una possibile via di uscita da questa impasse, può essere quella dellautofinanziamento. Un articolo di Jon Cohen apparso su Science nel 1998, fornisce alcuni spunti di riflessione su una pratica che fatica a prendere piede ("Scientists who funds themselves", Science 279, 178-181, 1998). In questo caso, ci sono ricercatori che spendono una parte del proprio stipendio per autofinanziarsi la ricerca, ma non è da escludere neanche la possibilità di raccogliere contributi facendo qualche lavoretto saltuario, non propriamente connesso con la ricerca, ma che consenta di poter disporre di somme libere da qualunque condizionamento e quindi spendibili per la ricerca.
Daltra parte, occorre anche tenere presente altri fattori: i governi si trovano oggi a fronteggiare problemi sociali molto più urgenti e vitali, per cui non si può più chiedere loro di essere i finanziatori unici di certi progetti elefantiaci. Il nuovo millennio porta - o meglio, riporta - con se una nuova sfida per lo scienziato: trovare fondi per la ricerca che siano svincolati da richieste sulla ricerca stessa. Recuperare così qualcosa che è stato barattato da tempo in cambio di un comodo posto economicamente sicuro: la libertà e lindipendenza nella ricerca.
27 giugno 2001
From: Flaminio MUSA
Subject: Abusi presunti e abusi effettivi
Parlare di conflitti di interesse nella scienza mi sembra più un omaggio a certo gergo
politico che una sostanziale necessità di definire i rapporti fra scienza e società nel
mondo attuale in termini di trasparenza e correttezza. Se cè un conflitto di interesse
oggi, infatti, che riguarda la pratica scientifica, è fra l'interesse di chi attraverso
la "demonizzazione" (hard o soft a seconda dei casi) della pratica scientifica
intende far prevalere ideologie di controllo sociale e morale e l'interesse di chi, pur
con tutte le limitazioni del caso, vede nella conoscenza scientifica un progetto di
crescita, anche civile. E probabilmente il discorso sul conflitto d'interesse riflette,
almeno in parte, questa tentazione di piegare la ricerca scientifica ad interessi
ideologici.
Con questo non intendo affatto negare che in alcuni casi ci troviamo di fronte al "tradimento dei chierici", ma dubito che sia necessario farne una categoria di analisi apposita piuttosto che una casistica da riguardare sotto il profilo del codice penale.
G. Fava nel suo saggio afferma che il conflitto di interesse nasce "quando un individuo occupa due ruoli, uno dei quali lo pone in posizione di abusare dell'altro."
Appare come una definizione puntuale e precisa, che però presa alla lettera implica una condizione eccessivamente estensiva; infatti nella società moderna quanti sono gli individui che occupano due ruoli, uno dei quali è ricoperto in conseguenza delle competenze acquisite nell'altro e posti perciò "in posizione di abusare"? Un perito di tribunale è tale (o dovrebbe) in quanto ha acquisito precise competenze nel valutare determinate oggetti o situazioni. Nei comitati etici è obbligo la designazione di un farmacologo. Ma in ambedue i casi le competenze sono state acquisite in un dialogo con la società, hanno generato rapporti sociali e nessuno è in grado di garantire che gli esperti nel loro nuovo ruolo siano al di sopra delle parti.
Se accettassimo la definizione di G. Fava sic et simpliciter ci troveremmo nella condizione perciò di eliminare gli esperti da tutti gli organismi consultivi dove è necessaria la presenza di precise competenze tecnico-scientifiche.
Una definizione di conflitto di interesse, a mio parere, più esatta potrebbe essere "quando un individuo utilizza la posizione dominante assunta in un certo ambito per ottenere la posizione dominante anche in un altro ambito"; la questione però non muta di molto. Che un individuo possa abusare di una posizione (ma ciò è indipendente dal conflitto di interesse) non implica affatto che poi effettivamente ne abusi.
Il fatto è che ancora non abbiamo imparato a fare i conti con la logica dello scambio economico di beni immateriali; in altre parole se un istituto di ricerca (o un singolo scienziato) stipula un contratto con un'azienda privata sentiamo sempre puzza di zolfo. In questi rapporti economici, più che un contratto dove le parti definiscono reciprocamente diritti e doveri, vediamo sempre la presenza di uno scambio ineguale, in cui il ricercatore è posto nelle condizioni di doversi asservire completamente agli interessi dell'azienda privata.
In un articolo del manifesto si legge che Edoardo Boncinelli è consulente della Novartis (vedi commento alla rassegna stampa). E' facile comprendere che ciò è conseguenza del fatto che le sue competenze sono adeguate alla politica industriale della Novartis. E se Boncinelli fosse consulente di una qualche "bottega verde" il titolo dell'articolo del manifesto avrebbe avuto lo stesso tono scandalistico. Come nessuno parla di conflitto di interesse nel caso di ricercatori pro-biologico non vedo quale sia il passaggio logico che insinua il dubbio nel caso di ricercatore pro-ogm.
La ragione, probabilmente, più che nella logica va ricercata a livello o sociologico o di psicologia delle masse; globalizzazione e innovazione, anche se non sempre a livello conscio, hanno accentuato la percezione dell'insicurezza. Di fronte al rischio vengono perciò promosse le strategie della prevenzione. Ma la strategia della prevenzione è efficace solo nel caso di comportamenti di massa; ma quando l'abuso riguarda ambiti circoscritti è più efficace la strategia della repressione, che se condotta seriamente (certezza della pena ) è poi una efficace politica di prevenzione. Infatti molti abusi o comportamenti non ortodossi sono determinati e/o promossi dalla fondata speranza di farla franca.
Credo perciò che di fronte al conflitto di interesse occorra in primo luogo definirne gli ambiti di competenza: tra il ricercatore che falsifica i dati per favorire la commercializzazione di un farmaco pericoloso e un ricercatore che utilizza i media per una politica di persuasione di un certo filone a cui è interessato (economicamente, per carriera, per ingraziarsi la persona amata e chi più ne ha più ne metta) c'è una certa differenza.
Non dobbiamo dimenticare infatti che di fronte al possibile abuso più che i codici di comportamento (che a ben guardare non sono altro che sistemi sofisticati di salvaguardia degli addetti ai lavori) vale l'etica della responsabilità.
Il cammino dell'inferno è lastricato di buone intenzioni; non può essere allora che a volte una cattiva motivazione possa portare al paradiso?
Se insieme all'acqua sporca non vogliamo buttare anche il bambino, più che preoccuparci di ipotetici abusi, dobbiamo concentrare l'attenzione nel colpire gli abusi effettivi.
30 giugno 2001
From: Vittorio BERTOLINI
Subject: I primi interventi
La sintesi è un dono divino, ma purtroppo non a tutti è dato di essere cari agli dei,
specialmente se la fortuna ci ha concesso di superare con ampio margine il traguardo della
giovinezza. Mi scuso perciò con gli amici Domenico LANFRANCHI, Luigi FOSCHINI e Flaminio
MUSA se la sintesi dei loro interventi più che semplificatrice sarà semplicistica.
Tutti e tre gli interventi hanno in comune il tratto di fare slittare l'analisi del
conflitto di interesse nella direzione del ruolo della cultura scientifica nella società
moderna, e la risposta pressoché unanime, pur tenendo conto delle diverse esperienze
culturali e professionali, è che nonostante la tecnoscienza sia alla base del nostro
vivere quotidiano, l'opera degli scienziati è vista il più delle volte con molto
pressapochismo, se non diffidenza.
LANFRANCHI, insegnante di filosofia in una scuola media superiore, pone l'accento sulla
mancanza di una conoscenza dei principi di base delle singole discipline, ma anche dei
principi della sperimentazione. Chi ricorda la prassi sperimentale del prof. Di Bella, non
può non concordare che più che con i canoni della "Good Clinical Practice" era
confrontabile con il gioco del piccolo chimico. Se uno scienziato deve convincere dei
politici o il pubblico, può diventare più forte la tentazione di ricorrere ad
argomentazioni retoriche (che ne sanno gli interlocutori del metodo scientifico?).
FOSCHINI, ricercatore del Cnr, valuta come una ricerca scientifica legata a grandi
progetti e di lunga durata, genera nei ricercatori interessi estranei alla scienza che
stravolgono le scelte di ricerca, sottomettendole alle proprie esigenze. E' una forma di
conflitto di interesse pienamente giustificabile sul piano umano, ma nella pratica aumenta
il divario fra una opinione pubblica sollecitata a grandi aspettative e una ricerca lenta
a produrre risultati concreti. Ma qui andrebbe valutata anche la responsabilità dei
media, alla ricerca dello scoop ad ogni costo, e dei politici, i cui tempi di attesa sono
molto più brevi di quelli di realizzazione di un progetto di ricerca.
Sul problema delle politiche di persuasione o di promozione delle proprie ricerche nei
confronti di chi conta, opinione pubblica, sponsor industriali e politici, si sofferma
Flaminio MUSA, medico impegnato nel volontariato della prevenzione. Comunque
nell'intervento di Musa, improntato ad un pragmatismo consapevole, è da sottolineare
l'affermazione che il conflitto di interesse è più da combattere con dei deterrenti che
con politiche della prevenzione. E' una posizione su cui si può discutere, ma nell'ottica
delle sue considerazioni ha una significativa validità.
Tutti e tre gli interventi sfiorano il tema del rapporto della scienza con il mondo
politico, dal finanziamento pubblico al conflitto di interessi di tipo ideologico. Sono
temi che meritano dagli amici che hanno già preannunciato il loro intervento, ma anche da
chi è già intervenuto, un proficuo approfondimento. A questo proposito può essere
interessante l'articolo di Ugo Volli "Scienziati
o politici, chi deve governare?" apparso su Avvenire il 17 aprile.
30 giugno 2001
From: Francesco COPERCINI
Subject: Il conflitto di interessi: un approccio storico
Vorrei tentare seppure in modo molto sintetico e nei limiti delle mie modeste capacità,
un accostamento di tipo storicistico al problema del "conflitto d'interessi"
nella scienza.
La questione, così come prospettata, è la questione di ogni conflitto d'interessi,
situazione in cui un soggetto si trova contemporaneamente portatore di almeno due
posizioni reciprocamente inconciliabili, per cui necessariamente sacrificherà una a
vantaggio dell'altra.
Nella fattispecie si prospetta il caso ad esempio di istituzioni private (sovente imprese
con fini di lucro) che compiono, attraverso personale alle loro dipendenze, attività di
ricerca scientifica in settori di pubblico interesse.
Ci si chiede se coloro che svolgono ricerca in quei settori lo facciano in modo libero o
piuttosto condizionato e se per tali istituzioni private sia possibile conciliare sempre e
comunque il pubblico interesse con il proprio.
A mio parere la risposta è in ambedue i casi negativa ma è sempre stato così?
Io non lo credo.
Il pensiero scientifico, nei secoli scorsi, ha contribuito ad elaborare un complesso di
rappresentazioni, un'immagine (quella scientifica per l'appunto) del mondo riservata ad un
elite di sapienti, in quanto alla più parte del genere umano le sue proposizioni
risultavano alquanto incomprensibili.
Le idee scientifico-filosofiche erano per lo più destinate a circolare in tali ambienti
nel più totale disinteresse da parte dei poteri tanto pubblici quanto privati, ai quali
non interessava incentivare la ricerca in alcun modo ma semmai vigilare a che idee,
pericolose per la conservazione dell'ordine sociale esistente, si diffondessero.
Osservava tuttavia un pensatore italiano, negli anni '60, che soprattutto a partire dal
secolo scorso si è assistito ad una radicale trasformazione del concetto di scienza e
delle aspettative sociali verso di essa.
Oggi le sue proposizioni più che per concorrere alla creazione di una particolare
"imago mundi", costituiscono un complesso di saperi volto ad assecondare il
progreso tecnologico industriale.
Dallo scienziato non ci si attende più un corpus di conoscenze solo in via eventuale
utilizzabili a fini tecnico produttivi, da lui ci si aspetta la partecipazione più piena
al miglioramento dei sistemi di produzione di massa, dei quali di fatto diviene un
ingranaggio, per quanto prezioso.
Risulta chiaro quindi che in questa situazione il singolo ricercatore non può essere
libero, in quanto il cosa fare ed il come farlo gli saranno di volta in volta suggeriti
dal management.
Se, come oggigiorno, la scienza si confonde con la tecnica e la ricerca
tecnico-scientifica diviene in via diretta o indiretta materia per istituzioni private è
naturale che si produca un conflitto d'interessi.
L'interesse del privato confligge e finisce con il prevalere tanto su quello conoscitivo
"puro" quanto su quello a che le migliori risorse tecniche siano di generale
fruizione.
Osservava del resto Severino come ormai siamo entrati nell'era del dominio della tecnica,
in cui addirittura la democrazia sarebbe a rischio di fronte alla libertà sconfinante
nel'arbitrio che si dovrebbe concedere ai tecnocrati perchè ci consentano di permanere
nell'attuale stato di benessere materiale.
Se questa dipendenza è vera, perchè lo Stato, istituzione in crisi nelle forme e nella
sostanza, non si riappropria in termini di mezzi e risorse, anche della gestione diretta
della ricerca almeno in quei settori qualificabili di pubblico interesse?
Se è vero che il nostro benessere dipenderà sempre di più dalla capacità di mantenere
un elevato tasso di tecnologia in svariati settori, non comprendo perchè lasciarne
indiscussi attori, alcuni enti privati, che fra l'altro e legittimamente perseguono anche
altri obbiettivi.
A dispetto di ciò le quote d'investimento in Italia sono sempre più basse.
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