(Luglio 2000)
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Dare risposte a domande [ndr: la domanda era emersa nel dibattito on-line che si svolge nel Forum: «Ma a chi attribuire la responsabilità di determinare limiti all'agire? o chi riterrà di assumersela? e, in tal caso, perché?»] ponendo altre domande, è un approccio metodologicamente corretto solo quando ciò sia necessario per l'esigenza di stabilire una qualche chiarezza preliminare sia concettuale che linguistica.
Questo è (forse) un caso fra questi, allorquando ci si riferisca alle imprese e si evochino eventuali limiti "all'agire", di quest'ultime, domandandosi a chi spetti la responsabilità di porli e il "perché".
V'è da chiedersi prima di tutto il significato d'impresa, o almeno in quale significato venga adoperato rispetto al problema dei "limiti dell'agire". Questo, non solo giuridicamente, oggi appare un nomen dai contorni nebulosi e generici: tutti coloro che fanno attività con una qualche ricaduta economica, sono in vero impresa: lo dice il buon senso, lo stabiliscono le disposizioni fiscali, e lo esprimono con chiarezza le indicazioni prescrittive comunitarie che prevedono discipline omogenee per qualunque tipo d'attività di qualunque genere, che abbia appunto ricadute economiche (ad esempio la disciplina della pubblicità o dei contributi economici per nuove iniziative).
Impresa dunque è sia l'operatore economico in senso tradizionale, che il lavoratore autonomo (ricercatore, l'artista, il professionista), il professore universitario (sempre che faccia qualcosa di produttivo), l'organismo o.n.l.u.s., le Chiese, i Partiti, i Sindacati, ogni qualvolta vi siano aspetti di carattere economico.
Anche un Paese globalmente organizzato come produttore, può essere considerato come impresa; si pensi non solo alla Cina ma anche ad altri Paesi strutturati come Azienda.
Questo pone un problema: evocare "limiti all'agire" di qualcuno, è possibile se questo qualcuno è determinato o determinabile sia tipologicamente che geograficamente.
Se la premessa definitoria sopra posta è esatta, discende che i "limiti eventuali" all'agire delle imprese nel campo dell'innovazione, non possono essere di tipo legislativo tradizionale, ma di natura diversa da quelle a cui siamo sino ad ora abituati.
In altre parole, un altro passo avanti può essere compiuto, osservando che il "teatro" per eventuali "limiti all'agire" delle imprese, a questo punto, non può essere altro che il mercato, l'unico luogo "giuridico" cioè coercibile, nel senso di poter far rispettare divieti e di far mantenere gli impegni, nel quale le imprese, nel senso sopra proposto, vanno prima o poi ad operare.
Ma il mercato oggi è globalizzato, quindi sovra nazionale, quindi senza regole e più simile ad un mare in tempesta che ad una tranquilla fiera dove si scambiano merci contro denaro o denaro contro altro denaro.
Coniugare insieme mercato globale, innovazione, limiti all'agire e lo stabilire anche chi lo possa e debba fare, porta ad una possibile conclusione contenente più di un'alternativa:
1) o tutto rimane com'è adesso, e unicuique suum, sia nel bene che nel male, sia politicamente che economicamente e con la conclusione di sottostare all'egemonia diretta o indiretta del Paese o dei paesi più potenti sul piano politico, economico e militare, e ciascuno si scelga il Paese di riferimento che vuole;
2) oppure le "formiche" del pensare e dell'agire innovativo si mettano al lavoro, come si sta facendo in questo confronto, e propongano a sè e agli altri qualche risposta alle domande essenziali poste all'inizio.
3) i "limiti all'agire" innovativo possono essere, a mio avviso, solo di natura economico-giuridica, e girare, applicativamente, intorno al valore della libertà di concorrenza, che è la madre delle innovazioni e unica fonte "etica" alla quale attingere, se si crede.
Altrimenti si ricade nell'assolutismo dirigistico o in formule generiche tipo "etica" degli affari, che, prima o poi, finiscono inevitabilmente con l'avere o un sapore neo corporativo (tipo correttezza professionale, usi onesti del commercio, buona fede, gute Sitten) o alcun tipo d'efficacia.
4) Questi limiti possono, però, nascere solo da convenzioni internazionali fra i paesi sviluppati e in via di sviluppo, attribuiti in gestione ad un organismo sovranazionale ispirato ad una normativa incentrata sui principi antitrust, che abbia reale autonomia e disponga di potere d'intervento nei mercati senza farsi condizionare dagli interessi nazionali sottostanti a quell'impresa o a quell'altra, o addirittura svincolati da tutti come nel caso delle imprese multinazionali.
5) questa soluzione alla lunga può apparire ragionevole, attuabile ed è forse praticabile. Perché altrimenti al di fuori del recinto dei paesi a libera concorrenza e quindi naturalmente portati all'innovazione competitiva, nascerebbero innovazioni socialmente inaccettabili e queste potrebbero in assenza di un'autorità del genere, dilagare per il mercato globalizzato.
Con queste premesse invece prive della commerciabilità nel mercato globale queste possibili innovazioni si troverebbero come i pesci fuori dell'acqua e quindi nell'impossibilità di sopravvivere.
Si tratta di un nuovo possibile colonialismo di tipo giuridico, è una domanda legittima ma la risposta a me può essere, a mio avviso, di segno contrario.
Imporre a tutte le imprese -dagli operatori ai Paesi aziende- l'osservanza di divieti e attribuire a tutti i cittadini del mondo, la garanzia della libertà di scelta conseguente all'innovazione, può provenire soltanto da un organismo sovranazionale capace di governare un antitrust globalizzato, laico, senza preconcetti di alcun genere.
Per chiudere: nulla salus (innovativa) sine mercato e non vi è mercato se qualcuno, diverso da una autorità legittimata giuridicamente possa porre dei limiti fondati sui principi di libera concorrenza.
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