Avvenire, 17 aprile 2001 UGO VOLLI Scienzati o politici, chi deve governare? Il conflitto fra scienza e politica cui si è assistito spesso negli ultimi mesi, a proposito dell'elettrosmog, del transgenico, perfino della cura dell'Aids, non è affatto una novità. Anzi, in un certo senso è una delle costanti fondamentali del pensiero occidentale. Il primo luogo in cui questo dibattito emerge con straordinaria forza e nitidezza è l'opera di Platone, su questo punto probabilmente fedele al suo maestro. Nel Gorgia, per esempio, il dibattito fra Socrate e il grande sofista siciliano riguarda la possibilità e l'opportunità di prendere decisioni secondo la scienza (dal latino scire, conoscere, legato alla radice indeuropea SKA, tagliare) o secondo l'opinione ( dal latino opinari, forse legato alla radice OP da cui vengono optare e ops, occhio; in greco doxa, da dokeo, mi sembra che ha generato anche dogma). "Se in una qualunque città si presentassero un retore e un medico - dice Gorgia (456 b-c) - e davanti all'assemblea o un altro organo collegiale ci fosse una discussione per essere assunto come medico pubblico, il medico non riuscirebbe a spuntarla da nessuna parte, ma sarebbe scelto quello capace di parlare, se proprio lo volesse. E anche se il retore dovesse competere con qualunque altro tecnico, il retore meglio di qualsiasi altro persuaderebbe la gente a scegliere lui: non c'è infatti argomento su cui il retore non saprebbe parlare davanti a una folla in modo più persuasivo di qualunque altro tecnico." Il risultato di questo dominio dell'opinione e della retorica appare a Platone disastroso, ma anche la sua soluzione - il governo dei filosofi, cioè dei sapienti o di coloro che almeno sanno come cercare la verità - è risultato subito impossibile. La doppia avventura siracusana, quando Platone si fece consigliere di un tiranno sanguinario nell'illusione di fare prevalere il suo sapere, si concluse tragicamente per il vecchio filosofo. Il nostro Novecento, con il disastroso dominio di ideologie che si sono volute "scientifiche" ha sottolineato quanto un preteso "governo della verità" possa essere pericoloso. E' stato Aristotele il primo a capire che "è quasi impossibile che molti possano attuare la miglior forma di governo", cioè che vi è un fattore di pluralità e di incertezza nel governo delle città (questo è il significato etimologico di politica: le cose che riguardano la città, la politikà, da polis, città, da cui deriva anche politeia, costituzione, regime costituzionale). Di conseguenza la prima virtù del politico è per Aristotele la fronesis, cioè la saggezza, la moderazione. Il pericolo non è oggi tanto un governo della scienza (se si fa forse eccezione per l'economia, che pretende nell'ideologia liberista di sottomettere tutti i valori al criterio unico del profitto). Semmai ci troviamo di fronte al rischio opposto, quello denunciato da Hanna Arendt in un articolo del 1967, "Truth and politics", che si trova in italiano in una breve raccolta di saggi, intitolata proprio Verità e politica (Bollati Boringhieri, Torino 1995). Arendt è allieva di Heidegger cui si deve il massimo sforzo filosofico del Novecento intorno alla nozione di verità, interpretato non come semplice corrispondenza fra linguaggio e realtà ma piuttosto etimologicamente come a-letheia ("non nascondimento") e cioè come il modo in cui innanzitutto la realtà è pensata e portata alla luce della conoscenza. In questo caso però, più che delle sempre discutibili "verità di pensiero", Arendt è preoccupata delle semplici "verità di fatto" che sono state sistematicamente manipolate dai regimi politici del Novecento, e non solo da quelli totalitari. La risposta della Arendt è quella classica della cultura occidentale: dev'esserci una netta separazione fra azione pubblica e sapere, lo Stato non deve avere verità ufficiali. E' la stessa conclusione cui arriva un saggio del '56 di un altro grande filosofo, Hans Georg Gadamer intitolato secondo la celebre frase di Ponzio Pilato: "Che cos'è la verità?" (Rivista di filosofia, XLVII, 3). Il governatore romano, secondo Gadamer, espone in questa risposta in anticipo una delle basi del moderno Stato laico, la consapevolezza che non esiste una "verità di Stato". Non possono essere le autorità pubbliche a stabilire la fondatezza della fisica quantistica o la data della scoperta dell'America: qui il campo è riservato agli scienziati - che naturalmente possono sbagliare ma devono correggersi fra loro. Popper ha mostrato come la scienza sia più un sistema per filtrare gli errori che per trovare direttamente la verità. E però certamente la sfera della politica consiste in decisioni da prendere, intorno a cui non vi è certezza. Anzi, il regime dell'incertezza e del rischio (su cui abbiamo già parlato) costituisce il terreno proprio della politica. Gorgia sbaglia non perché attribuisce uno spazio autonomo di decisione alla politica, come sembra credere Socrate; ma perché estende questo spazio al campo in cui agisce un sapere costituito, come la medicina. La pretesa di giudicare a furor di popolo che cosa è vero (per esempio se esista un effetto concerogeno delle radiazioni elettromagnetiche o dei prodotti transgenici), ignorando i dati scientifici o cercando di svalutare personalmente coloro che li espongono, non rientra nel campo della democrazia, ma della demagogia (dal greco demos, popolo e ago, conduco, trascino).