Sole 24 Ore (Domenicale), 11 febbraio 2001 "L'onorevole non crede alla scienza" di Riccardo Viale LItalia con il decreto legge 381 del 1998 ha assunto come soglia massima di esposizione ai campi ad alta frequenza (ad esempio quelle delle antenne per i telefoni cellulari) una quantità elettromagnetica da 45 a 90 volte inferiore a quello adottato da tutti gli altri paesi del mondo e raccomandato dallUnione europea. Come mai questa discrepanza? Su che differente criterio o evidenza scientifica si sono basati i nostri legislatori per normare in modo così difforme rispetto agli altri paesi? Nellera della mucca pazza e dei cibi transgenici sono sempre più frequenti domande come le precedenti. Esse hanno a che fare con la "scientific governance" ovvero con il ruolo degli esperti scientifici nella formazione delle decisioni pubbliche in varie materie, dalla salute, allambiente, alla sicurezza tecnologica. In termini più generali esse fanno riferimento ai criteri con cui i membri di una data società e in particolare delle sue istituzioni, promuovono, valutano e utilizzano la conoscenza scientifica. Lesempio iniziale è chiarificatore della posta in gioco. Il legislatore aveva davanti due scelte: o seguire le raccomandazioni dellIstituto Superiore della Sanità (Iss) e delle maggiori agenzie sanitarie internazionali che ritenevano non esserci alcuna evidenza scientifica tale da porre un limite così restrittivo o conformarsi a quanto proposto dallIstituto Superiore sulla Prevenzione e Sicurezza del Lavoro (Ispesl) il quale, trincerandosi dietro il principio di precauzione, riteneva preferibile eliminare ogni rischio potenziale. Da una parte abbiamo una istituzione scientifica lIss, relativamente impermeabile alle pressioni di carattere sociale e politico che decide di attenersi ai principi propri della comunità scientifica e in particolare a quello dellevidenza empirica controllabile e replicabile a livello intersoggettivo. Dallaltra un istituto, lIspesl più permeabile a variabili esogene di tipo sociale, come quelle sindacali e ambientaliste, che non accetta il sapere scientifico "certificato" come unico punto di riferimento conoscitivo. Il primo propone una politica del rischio scientifico basato sul "principio di certezza", cioè accettazione solo dellevidenza scientifica riconosciuta come stabile nella comunità; il secondo opta, invece, per il "principio di precauzione", cioè utilizzo di qualsiasi informazione, anche se prodotta in modo non standard o che non configuri un fenomeno empirico stabile, come spunto per definire nuove soglie di rischio. Il legislatore optando per la seconda opzione fa una chiara scelta epistemologica. Rifiuta di considerare la scienza istituzionale, cioè quella espressa nelle principali riviste scientifiche internazionali, come unica sorgente di sapere sui fenomeni del mondo fisico e biologico. Accetta quindi, implicitamente, che la scelta delle sorgenti di conoscenza e le modalità di produzione della stessa siano guidate da ragioni di natura sociale e culturale. Sposa, in definitiva, un approccio epistemologico che non riconosce il primato della razionalità scientifica e propende verso le tesi "costruttiviste". Il caso precedente pone una serie di quesiti. È giusto e secondo che criteri di giustificazione quel tipo di decisione? Come dovrebbero comportarsi i membri della società, delle sue istituzioni politiche ed economiche nel promuovere, valutare e utilizzare la conoscenza e, in special modo, quella scientifica? È questo il tema di riflessione di una nuova specializzazione epistemologica, denominata epistemologia sociale. Come succede per la disciplina madre vi sono modi radicalmente differenti per interpretare la sua missione. Vi è la corrente costruttivista, impersonificata in Steve Fuller e nella rivista da lui creata Social Epistemology, che sposa le tesi relativiste e post-moderne dellepistemologia e sociologia contemporanea. In quanto tutta la conoscenza è una costruzione sociale, cioè è determinata dalle contingenze di valori, obbiettivi, necessità di un dato contesto socio-culturale allora scopo dellepistemologo sociale è interpretare questo processo genetico, riuscendo, quando ciò fosse possibile a decostruirlo nelle sue variabili cruciali. Obbiettivo di questo lavoro è smascherare le componenti prescrittive di tipo razionalista e realista annidate nella società, nella politica come nelle istituzioni della cultura e della ricerca. Va da se che la politica scientifica e tecnologica ispirata a questa corrente dellepistemologia pone il suo baricentro non sulle scelte di una autonoma comunità scientifica, ma sulle ragioni contingenti di natura sociale e politica. Alvin Goldman si pone agli antipodi di tutto ciò. La sua epistemologia sociale, da alcuni chiamata anche analitica, parte da una concezione realista, che lui conia veritista, della conoscenza. Scopo della scienza, ma in generale di tutto il sapere empirico (come quello delluomo della strada nella soluzione dei problemi quotidiani o del giudice in cerca di prove), è la generazione attendibile di rappresentazioni vere sul mondo. La verità della rappresentazione non è tanto giustificata sul lato "a valle" della verificazione, quanto su quello "a monte" dellattendibilità - percettiva e cognitiva, oltre che metodologica - della sua generazione. Se la conoscenza ha questo scopo, allora missione dellepistemologia sociale è indagare, valutare e prescrivere istituzioni politiche, gruppi sociali, tradizioni e valori culturali in grado di promuovere il perseguimento di questo fine epistemologico. Lepistemologia sociale ha, quindi, una funzione prescrittiva, oltre che valutativa. Essa può informare e guidare le "policy" rivolte alla produzione e utilizzo della conoscenza empirica (come nella generazione e valutazione dellevidenza probatoria in unaula di tribunale). Ha quindi un ruolo fondativo nella politica della scienza. Ad esempio se si vuole garantire la finalità veritistica nel sistema della ricerca scientifica, si dovrà salvaguardare lautonomia scientifica dalle influenze inquinanti di tipo ideologico e politico; si dovrà garantire il massimo della libertà e competizione conoscitiva tra scienziati, cercando di neutralizzare eventuali "cartelli" o monopoli; si dovrà, anche con laiuto del Web, sviluppare un vero mercato trasparente della conoscenza in grado di valutare, senza tante asimmetrie informative, le ipotesi più innovative e il lavoro dei "new comers". Alvin I. Goldman, «Knowledge in a Social World» Oxford 2000, Clarendon Press. Special Issue on Alvin Goldmans «Knowledge in a Social World. (2000). Social Epistemology». Vol. 14, 4, pagg. 236-334.