LE MONDE diplomatique - Settembre 2000



 

 

 

MUCCA PAZZA, OGM, CLONAZIONE...
Gli esperti, la scienza e la legge


Il governo britannico autorizza la clonazione umana a fini terapeutici e gli Stati uniti annunciano che faciliteranno le ricerche sulle cellule embrionali. Queste decisioni hanno sollevato forti opposizioni, soprattutto in Italia e in Francia e al Parlamento europeo ha prevalso, seppur di stretta misura, l'opinione contraria alla clonazione sia terapeutica che riproduttiva. Anche gli esperti non nascondono le loro incertezze riguardo alle modalità di trasmissione all'uomo dell'encefalite spongiforme bovina (Esb). Sono divisi anche sulla pericolosità degli organismi geneticamente modificati (Ogm). Tuttavia, il principio di precauzione, adottato dalla legge Barnier del 1995, si basa soprattutto sull'opinione degli esperti. Non sarebbe forse più prudente, al contrario, avvalersi di un maggior numero di pareri, compresi quelli di ricercatori di altre discipline, e soprattutto coinvolgere settori diversi dell'opinione pubblica?

di JACQUES TESTART *
«Principio di precauzione»: questa espressione, talvolta svilita, è oggi al centro dei più vivaci dibattiti scientifici, tecnologici ed etici. Nel 1995 tale principio è entrato a far parte del diritto con la legge Barnier, che recita: «La mancanza di certezze non deve ritardare l'adozione di misure concrete e adeguate, al fine di prevenire danni gravi e irreversibili». Ultimamente, tuttavia, l'uso e la normativa ne hanno imposto una concezione ristretta. Gli scienziati, cioè, valutano i potenziali rischi di una nuova tecnologia soprattutto rispetto alla salute dell'uomo e all'ambiente: i risultati di questa valutazione costituiranno poi la base concreta su cui si fonderà la decisione politica. Tra la scienza e la legge, non c'è quindi nessun elemento intermedio, o quasi. I cittadini, in nome dei quali questa innovazione dovrebbe essere introdotta, ne restano in larga misura esclusi: sono l'anello mancante della catena.
Si obietterà che questo meccanismo non è diverso da quello che regola altre decisioni, visto che i responsabili politici, rappresentanti degli elettori, dovrebbero agire in nome del bene pubblico. Tuttavia, la valutazione degli effetti che possono essere provocati da una tecnologia «a rischio» non ha molto a che vedere con la costruzione di un ponte, le attrezzature di un ospedale o l'esportazione di frutta e verdura. In situazioni «classiche», l'incertezza, benché raramente assente, è talmente ridotta che il giudizio degli esperti (ingegneri, medici, economisti, ecc.) presenta un'affidabilità sufficiente per permettere decisioni razionali.
Invece, per le tecnologie che possono danneggiare l'ambiente o le specie domestiche, se non addirittura l'uomo, «l'atto della valutazione non si basa più solo sulla validità della conoscenza, quale garanzia scientifica della decisione, ma anche sulla capacità di tener conto dell'indeterminato e di prefigurare un futuro incerto (1) ». Come viene precisato in un recente rapporto al primo ministro, «l'esperto non sa» e, ciò che è peggio, le sue opinioni «non sono esenti da pregiudizi». Affermazione, questa, riproposta costantemente nel testo (2), in particolare per controbattere all'argomento secondo il quale gli organismi geneticamente modificati (Ogm) potrebbero ridurre la biodiversità: il rapporto vede in questa posizione «una certa carica ideologica» e sottolinea che «l'emergere dell'aids è una manifestazione della biodiversità».
È tipico delle situazioni che sottostanno al principio di precauzione manifestare un'irriducibile incertezza, perché nessuno, e sicuramente non una mente razionale, è capace di predire il futuro, proprio mentre il presente innesca meccanismi dalle conseguenze inedite. E infatti la Commissione europea annuncia che «nella sua analisi di rischio sarà guidata dal principio di precauzione nei casi in cui le basi scientifiche siano insufficienti o quando esistano incertezze (3)».
Ma le incertezze scientifiche sono sempre più frequenti, sia che si tratti di sapere se è pericoloso consumare carne bovina di provenienza britannica (4), sia che si voglia rispondere alle preoccupazioni provocate dalle piante transgeniche (5). Così la valutazione, anche se effettuata dai migliori specialisti, non possiede le qualità abitualmente riconosciute agli atteggiamenti scientifici, e meglio sarebbe parlare di «valutazione di scienziati», piuttosto che di «valutazione scientifica».
Anche quando gli esperti fossero irreprensibili, insensibili all'ideologia della tecnoscienza e alle pressioni del mondo degli affari, il loro apporto potrebbe servire solo a delimitare il campo dell'ignoranza, e questo per due motivi fondamentali. Innanzitutto, l'insufficienza delle conoscenze necessarie ad analizzare problemi sempre più «spinosi», come per esempio il rischio di accettare donatori di sangue che abbiano soggiornato in Gran Bretagna, territorio di elezione della «mucca pazza». Poi, l'incapacità di sintetizzare informazioni provenienti da valutazioni diverse e di ponderarle in modo adeguato e preciso affinché concorrano a costruire un'immagine oggettiva della complessità, come avviene nella valutazione delle cause e della previsione del cambiamento climatico.
Egemonia del discorso scientifico Poiché gli stessi esperti riconoscono l'esistenza di una zona di incertezza, almeno in quanto costante residuale ineliminabile, sembra incoerente riconoscere alla valutazione scientifica lo statuto di conoscenza incontestabile e considerarla sufficiente all'elaborazione delle decisioni politiche. Tuttavia è proprio questo che propone la Commissione europea in un recente comunicato (6), in cui si ignora del tutto il dibattito che attraversa la società. Questa deriva della ragione semplificatrice, che dimentica la complessità dei fenomeni analizzati, comincia nel momento in cui si concede la qualifica di esperti esclusivamente allo scienziato, all'ingegnere, o anche all'economista, trascurando tutti gli altri saperi che pure concorrono alla conoscenza.
Tra questi ci sono saperi professionali come la sociologia o l'ecologia, ma anche saperi condivisi da tutti gli esseri umani: intuizione, buon senso, estetismo, romanticismo, educazione, capacità di fare...
A meno che non si voglia affermare la competenza del politico anche in ambiti quali sensibilità, emozione, umanità, rapporto con la natura, gioia e dolore - tutte qualità che non hanno concorso alla sua nomina o elezione - , tra valutazione tecnica e decisione di diffondere una tecnologia resta, volutamente vuoto, un vasto campo di valori.
L'esclusione delle «sensibilità umane» dallo spazio situato tra l'armamentario tecnico-scientifico e l'apparato decisionale rispecchia l'egemonia del discorso scientifico, che arriva sino all'usurpazione della scienza stessa. È quindi sorprendente leggere questo titolo su una pagina del rapporto Kourilsky-Viney: «Gli Ogm non presentano rischi particolari per il consumatore, ma questo deve essere libero nelle sue scelte».
Fine dei dubbi evocati nel testo stesso! Gli Ogm vengono ormai garantiti come privi di rischio. E, per mettere meglio in evidenza che qualsiasi resistenza sarebbe prova di un atteggiamento irrazionale, la libertà di scelta - resa eventualmente possibile dall'etichettatura - è paragonata a quella, rivendicata da alcuni cittadini, di consumare solo alimenti kasher...
Gli scienziati insistono molto sulla necessità di dettagliare i rischi tecnologici, condizione che reputano necessaria per poterli riconoscere, e la stessa Commissione di Bruxelles si richiama a «un processo decisionale strutturato, fondato su dati scientifici dettagliati ed altre informazioni obiettive». Così tanti riferimenti alla scienza e all'obiettività lasciano intendere che, da qualche parte, qualcuno sa, ma anche che ciò che si è incapaci di «dettagliare» non meriterebbe di essere discusso. Tuttavia la Commissione avverte anche i decisori che «devono essere coscienti del grado di incertezza legato ai risultati della valutazione ottenuta in base alle informazioni scientifiche disponibili».
È come se si descrivesse una situazione idilliaca (la scienza deve sapere, per principio), evocando al tempo stesso le attuali carenze (il grado di incertezza), considerate temporanee, e rifiutando altri argomenti che sfuggono totalmente alla scienza, anche se presentano lo stesso grado di incertezza della valutazione scientifica.
L'instaurarsi del principio giuridico di precauzione ha escluso il principio morale, spesso invocato nel corso dei due decenni precedenti come «principio di responsabilità», per riprendere l'espressione di Hans Jonas (7). Questo autore - che già allora guardava con preoccupazione alle tecnologie del nucleare e del gene - ammetteva, tra le soluzioni etiche, l'abbandono puro e semplice di un progetto, mentre l'attuale precauzione porta piuttosto a differirlo o a regolamentarne le condizioni d'uso.
Anche quando si arrivasse a supporre che un'innovazione tecnologica sia esente da rischi potenziali secondo il principio di precauzione, un tale verdetto non sarebbe sufficiente a giustificarne l'uso in piena responsabilità. Soprattutto riguardo al futuro, che impone altre preoccupazioni: quali effetti su sviluppo, natura, giustizia sociale, occupazione, solidarietà regionale, relazioni Nord-Sud, ecc.? Ma come accollarsi per troppo tempo un simile principio morale, riproponibile all'infinito, quando la globalizzazione ci obbliga ad una sempre maggior deferenza verso nuovi «valori»: competitività, libero scambio, investimento, produttività, progresso tecnologico?
Nel registro delle «idee forti», alle quali non si può opporre niente di intelligente, si trova questo incantesimo ricorrente, di un'affliggente banalità: «Il rischio zero non esiste», semplice precauzione linguistica contro le possibili conseguenze della mancanza di precauzione che ci si appresta così ad accettare. Ma è proprio necessario rompere le uova, se non c'è bisogno della frittata? Il discorso della valutazione, limitato dalla preoccupazione di dimostrare il rischio - o, piuttosto, il non-rischio - maschera l'assenza di domanda, o anche di interesse, dei cittadini per l'oggetto del contenzioso. Questo accade per le piante transgeniche, che alcuni industriali cercano di imporre - ma, in realtà, chi le ha mai richieste? - con il sostegno attivo della maggior parte degli esperti e la complicità di molti responsabili politici. Se questi ultimi non ritengono di tradire i loro elettori, è perché credono di agire per il bene comune contro inopportune resistenze, e bisogna allora riconoscere che la loro azione è dettata più dalla fede che dalla ragione.
Infatti, non è forse l'ideologia di un progresso garantito e irreversibile che porta gente seria ad agire come se esistesse una qualche dimostrazione dei vantaggi attribuiti alle colture transgeniche? Bisogna accontentarsi dei vaghi (e scarsi) aumenti di produttività annunciati dagli industriali - a partire da bilanci non esaurienti - per concludere che «le piante transgeniche sono un affare!». Quand'anche risultati indiscutibili dimostrassero che grazie agli Ogm si ottengono guadagni agricoli netti, e non più soltanto promesse di guadagni, l'assenza di queste informazioni nelle attuali istanze di valutazione dimostra che la non-scientificità non è necessariamente solo dalla parte di «coloro che si oppongono al progresso». E la cieca accettazione, da parte dei politici, di queste valutazioni incomplete conferma il giudizio.
Tutto avviene come se la comune devozione all'impresa tecnologica non ammettesse dubbi sui suoi vantaggi, e concedesse solo la fatica di verificarne l'innocuità.
Un argomento specioso vorrebbe giustificare la polarizzazione della valutazione sugli aspetti tecnici e misurabili del rischio, trascurando gli effetti socioculturali delle tecniche come, nel caso delle piante transgeniche, la qualità della vita, l'evoluzione delle attività rurali verso l'industrializzazione, la concentrazione produttivistica, ecc. Tali questioni sono spesso respinte perché, si sostiene, preesistevano all'arrivo della tecnologia degli Ogm, dato che né la selezione delle varietà né le leggi di mercato sono specifiche di questa tecnologia.
Ma ciò equivale a trascurare l'eventualità di un cambiamento qualitativo dei parametri socioculturali sotto l'azione combinata dell'accelerazione e dell'uniformazione delle tecniche. Le brutali fratture introdotte dalla modificazione transgenica potrebbero provocare effetti molto diversi da quelli prodotti dai lenti meccanismi dell'evoluzione naturale o della selezione tradizionale.
Quando le azioni degli uomini accelerano effetti irreversibili, si abbandona il campo della scoperta o del controllo per infilarsi in una possibile rovina. Il che giustifica che la nuova tecnica sia sottoposta ad un esame globale, per rendersi conto di tutto ciò che non è riconducibile ai comportamenti tradizionali. Altrimenti, si dovrebbe accettare anche il sistema Terminator (8) col pretesto che non fa che migliorare l'efficacia commerciale dei selezionatori.
D'altronde, in piena logica liberale, il rapporto Kourilsky-Viney fa notare che nessuno è obbligato ad acquistare semi di tipo Terminator! Per minimizzare l'impatto delle tecniche Ogm sull'uomo e l'ambiente, ci fanno notare che la transgenesi esiste già in natura: così, i batteri del suolo da sempre scambiano geni resistenti agli antibiotici; il grano moderno ha ricevuto frammenti di genoma dalla segale; i mitocondri o i cloroplasti sono vestigia di batteri ingeriti da cellule animali o vegetali; piante e animali hanno da tempo incorporato sequenze genetiche di virus, ecc.
Tutto ciò è certamente esatto, ma non sono argomenti tali da giustificare la disseminazione immediata, massiccia e irreversibile delle piante transgeniche. Ed è anche per sfuggire alla diffidenza del pubblico che gli industriali si orientano verso Ogm detti «di seconda generazione»: si tratterebbe di ricorrere al vantaggio apportato da una mutazione indotta attraverso il trasferimento di un gene interessante appartenente alla specie migliorata piuttosto che di un gene estraneo, per meglio avvicinarsi allo schema tradizionale della selezione varietale. Ma, a causa della velocità imposta all'evoluzione del vivente da queste innovazioni e della presenza di un apparato tecnico-commerciale potentissimo, questi Ogm di seconda generazione conserveranno il carattere di fenomeni nuovi, influenzando in modo irreversibile i rapporti tra uomo e natura e quelli degli uomini tra loro.
Come arrivare a decisioni politiche ragionevoli, se alle incertezze della scienza o alla soggettività della valutazione si aggiungono le difficoltà di giudizio? Analizzando la «democrazia tecnica (9)», Michel Callon ricorda il ruolo degli scienziati nell'educare il pubblico in una «lotta per la Luce contro l'oscurantismo». Spesso questa funzione è interpretata in un senso messianico dagli ambienti scientifici che si sentono incoraggiati da alcuni esempi, come il sondaggio sulle piante transgeniche citato in un recente rapporto dall'Istituto nazionale della ricerca agronomica (Inra) (10).
Alla domanda «I pomodori normali non contengono geni, mentre quelli geneticamente modificati ne possiedono. Questa affermazione è vera o falsa?», in Francia soltanto il 32 % degli intervistati dava la risposta giusta (contro il 46 % negli Stati uniti e il 52 % in Canada).
Da qui la deduzione che non si può chiedere niente a gente così incompetente...
È evidente che informare il pubblico è necessario, ma niente indica che ciò porterà inevitabilmente all'accettazione delle piante transgeniche, a meno di non confondere posizioni etiche con razionalità e conoscenza scientifica. È anche per questo che Michel Callon insiste sull'importanza di mobilitare le conoscenze dei profani per legittimare le decisioni.
È interessante, al riguardo, tornare al forum dei cittadini sugli Ogm, organizzato in Francia dall'Ufficio parlamentare per le valutazione delle scelte scientifiche e tecnologiche (Opecst), nel giugno 1998.
Secondo i sociologi autori del rapporto sopra citato, questo forum ha permesso di dimostrare una «competenza specifica» dei profani, i quali, grazie ad «una visione libera delle poste in gioco locali (...) hanno le capacità cognitive per partecipare alle valutazioni tecnologiche». Lo stesso rapporto sottolinea le carenze dei parlamentari nell'assumere le proprie responsabilità rispetto alle nuove tecnologie: solo «alcuni deputati, che diventano esperti tra gli esperti» si calano in questi «pozzi di noia» che sono i dossier sul nucleare o sugli Ogm, e il Parlamento, «riproducendo al suo interno lo iato esistente nella nostra società tra esperti e non», tende a percepire la legittimità dei forum dei cittadini «come una minaccia».
Probabilmente è questo status mentale che ha portato il deputato Jean-Yves Le Déaut a rivedere l'entusiasmo con il quale aveva organizzato lo stesso forum. L'anno successivo, egli stigmatizza come «del tutto demagogica» qualsiasi volontà di «democrazia diretta, una sorta di succedaneo dell'antica agora», e nel forum dei cittadini non vuol vedere altro che «un parere in più, quello dei non-specialisti, accanto a quello degli esperti, delle associazioni (e dei protagonisti) del processo (11)».Come se l'opinione di un pubblico informato fosse solo un dato tra tanti e non quello che dà un senso ai prodotti delle valutazioni! Come scrive Denis Duclos, «il momento politico più importante è quello in cui si discute del testo da rappresentare, e non soltanto dei particolari di un certo atto, o della scelta degli attori, o del loro salario (12)».
La partecipazione attiva dei cittadini Per farsi carico di questo «momento politico decisivo», l'applicazione del principio di precauzione riferito all'ambiente (come pure ad altri campi) richiede la partecipazione attiva dei cittadini. È quindi sorprendente constatare l'assenza di ogni riferimento al dibattito pubblico nella comunicazione della Commissione europea sul principio di precauzione, il che fa temere che le proposte del rapporto Kourilsky-Viney, peraltro molto moderate, appaiano come il colmo dell'audacia nella democratizzazione del principio di precauzione.
Una tale ambizione richiede invece ben altro che la gentile concessione degli esperti, consistente nell'inserire alcuni innocenti in un comitato tecnico in cui, presi in ostaggio, siano schiacciati dalla scienza e dall'autorità degli scienziati. Si tratta di altro anche rispetto a quel «secondo cerchio», consigliato dallo stesso rapporto: cittadini «scelti», assistiti da scienziati - appartenenti al «primo cerchio» - sarebbero autorizzati ad esprimere un'opinione.
Nel 1992, Jean-Jacques Salomon, ultimo presidente del Collegio per la prevenzione dei rischi tecnologici, scriveva: «Di fronte ai poteri di cui dispongono le lobby dei tecnici nelle moderne società, l'unico modo per limitare i danni è quello di rafforzare le procedure di informazione, consultazione e trattativa che garantiscono il funzionamento democratico delle nostre istituzioni (13)».
Un dispositivo veramente democratico potrebbe essere costituito in modo analogo a quello che avevamo proposto, senza successo, per il Comitato nazionale di etica (14). Anche qui, si tratterebbe di riportare gli esperti al loro ruolo esclusivo di informatori, e di scommettere sull'intelligenza, l'intuizione e il buon senso di cittadini responsabili.
È in questo senso che la Commissione francese per lo sviluppo permanente ha appena emesso un bando (15) che prevede la creazione di un Comitato consultivo per la valutazione delle tecnologie (Ccet), costituito da volontari estratti a sorte e considerati «candidi» - indipendenti tanto dall'industria che dalla ricerca o dalle organizzazioni non governative (Ong) - incaricati di elaborare, alla fine di un lavoro specifico, un parere rappresentativo delle riflessioni dei cittadini.
Per elaborare il suo parere, il comitato dovrebbe avere il potere di consultare tutte le parti, senza discriminazioni - esperti in materie scientifiche e in scienze sociali ed umane, industriali, economisti, associazioni, ecc. Per un processo di valutazione un'opzione di questo genere sarebbe non solo la più democratica, ma anche la più «scientifica», se si ammette come davvero scientifico un prodotto della ragione che non dimentichi di non sapere tutto.
Certo, non si tratterebbe di abbandonare ai tormenti della tecnica e della metodologia i malcapitati «candidi», disponibili a imparare e ad assumersi responsabilità. Bisognerebbe garantire loro sia un «moderatore» specializzato in relazioni sociali, sia un comitato di orientamento - anch'esso indipendente - per proporre e riunire gli elementi tecnici. In mancanza di consenso in seno al Ccet, si potrebbero organizzare forum di cittadini, simultaneamente e in zone geografiche diverse. Un procedimento decentrato che permetterebbe una maggiore obiettività.
Mentre pareri convergenti sarebbero rappresentativi di un'opinione chiara da parte del pubblico, il persistere di divergenze segnalerebbe difficoltà irrisolte. Questa procedura potrebbe facilmente essere trasferita sul piano regionale, dove i pareri di un comitato consultivo europeo potrebbero essere messi a confronto con quelli dei forum nazionali dei cittadini. I costi di gestione di queste strutture dovrebbero essere assunti da un fondo creato appositamente e sostenuto dai contributi dei promotori delle innovazioni tecnologiche.
In ogni caso, il politico vedrebbe finalmente giustificato il suo ruolo decisionale. Non gli resterebbe che prendere in considerazione altri parametri, in particolare geopolitici - come d'altra parte avviene per qualsiasi decisione - , ma senza trascurare la portata della sua azione nel tempo e nello spazio, cioè resistendo a molte tentazioni già identificate (16).
In primo luogo quella della casistica, atteggiamento vecchio, ma riesumato con compiacenza da chi privilegia il conciliabolo contro la legge e ignora i principi morali rifugiandosi nei particolarismi individuali. Poi quella della moratoria, che prepara l'accettazione attraverso l'assuefazione, giocando sulla solubilità dell'etica nel tempo. Infine la tentazione del ripiegamento all'interno delle frontiere, che ragiona come se esistessero diversi tipi di umanità, e gli uomini non abitassero lo stesso pianeta, per cui si decide senza preoccuparsi di cosa avverrà altrove. Per essere veramente seri, e nella prospettiva di uno sviluppo reale e duraturo, bisognerà accettare che il principio di precauzione è una questione che riguarda tutti i cittadini del mondo.



note:

* Direttore di ricerca all'Inserm (Institut national de la santé et de la recherche médicale) e presidente della Commission française du développement durable. Autore, in particolare, di: Le Désir du gène, Flammarion, 1994; Des hommes probables. De la procréation aléatoire à la reproduction normative, Seuil, Paris, 1999; Des grenouilles et des hommes, Seuil, 2000.

(1) Bernard Kalaora, «Global expert: la religion des mots, Ethnologie française, XXIX, 1999, 4.

(2) Philippe Kourilsky e Geneviève Viney, Rapport au premier ministre sur le principe de précaution, Parigi, ottobre 1999.

(3) Commissione europea, comunicazione sulla salute dei consumatori e la sicurezza alimentare, 30 aprile 1997. Com (97) 183 finale, Journal officiel des communautés européennes (Joce), C 97/202 del 30 aprile 1997.

(4) Leggere «Etiquetage et traçabilité ne sont pas une panacée», Libération, 26 novembre 1999.

(5) Leggere Jacques Testard, «La biotecnologia semina ai quattro venti», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 1997.

(6) Commissione europea, comunicazione sul ricorso al principio di precauzione, 2 febbraio 2000 Com (00) 153 finale, Joce, C 2000/58 del 2 febbraio 2000.

(7) Hans Jonas, Il principio di responsabilità: un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, 1993. Leggere Jacques Decornoy, «Trompe-l'oeil et fausses ruptures», Le Monde diplomatique, ottobre 1991.

(8) Si tratta di un montaggio genetico che impedisce la fertilità delle piante nate da semi transgenici... e obbliga, ogni anno, all'acquisto di nuovi semi. Di fronte all'indignazione suscitata da questa «innovazione», la ditta Monsanto è stata costretta a rinunciare (provvisoriamente?) alla sua commercializzazione. Leggere Jean-Pierre Berlan e Richard C. Lewontin, «Un racket confisca la materia vivente»; François Dufour, «Gli scienziati pazzi dell'agroalimentare», e José Bové, «La via contadina all'agricoltura», Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente di dicembre 1998, luglio 1999 e ottobre 1999.

(9) Michel Callon, «Des différentes formes de démocratie technique», Annales des Mines, n° 9, Parigi, 1998.

(10) Pierre Benoît Joly, Gérard Assouline, Dominique Kréziak, Juliette Lemarié, Claire Marris e Alexis Roy, L'innovation controversée: le débat public sur les Ogm en France, l'Inra, Grenoble, gennaio 2000.

(11) Jean-Yves Le Déaut, Choix tecnologiques, débat public et décision politique. L'opinion publique face aux plantes transgéniques, Albin Michel, Parigi, 1999.

(12) Denis Duclos, «La pluralità, esigenza universale», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2000.

(13) Jean-Jacques Salomon, Le Destin technologique, Balland, Parigi, 1992.

(14) Leggere «Procréation médicalement assistée: l'éthique et la loi», Etudes, Parigi, n° 3816, dicembre 1994. E «De l'expertise à la compétence», Transversales Science Culture, n° 32, marzo-aprile 1995.

(15) Commission française du développement durable, «Avis sur le rapport au premier ministre di François Kourilsky e Geneviève Viney: le principe de précaution», marzo 2000.

(16) Des hommes probables. De la procréation aléatoire à la reproduction normative, Seuil, Parigi, 1999. Leggere Patrick Viveret, «Una sfida all'umanesimo», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2000.
(Traduzione di G.P.)