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MUCCA PAZZA, OGM, CLONAZIONE...
Gli esperti,
la scienza e la legge
Il governo britannico autorizza la clonazione umana a fini terapeutici
e gli Stati uniti annunciano che faciliteranno le ricerche sulle
cellule embrionali. Queste decisioni hanno sollevato forti opposizioni,
soprattutto in Italia e in Francia e al Parlamento europeo ha prevalso,
seppur di stretta misura, l'opinione contraria alla clonazione sia
terapeutica che riproduttiva. Anche gli esperti non nascondono le
loro incertezze riguardo alle modalità di trasmissione all'uomo dell'encefalite
spongiforme bovina (Esb). Sono divisi anche sulla pericolosità degli
organismi geneticamente modificati (Ogm). Tuttavia, il principio
di precauzione, adottato dalla legge Barnier del 1995, si basa soprattutto
sull'opinione degli esperti. Non sarebbe forse più prudente, al contrario,
avvalersi di un maggior numero di pareri, compresi quelli di ricercatori
di altre discipline, e soprattutto coinvolgere settori diversi dell'opinione
pubblica?
di JACQUES TESTART *
«Principio di precauzione»: questa espressione, talvolta svilita,
è oggi al centro dei più vivaci dibattiti scientifici, tecnologici
ed etici. Nel 1995 tale principio è entrato a far parte del diritto
con la legge Barnier, che recita: «La mancanza di certezze non deve
ritardare l'adozione di misure concrete e adeguate, al fine di prevenire
danni gravi e irreversibili». Ultimamente, tuttavia, l'uso e la normativa
ne hanno imposto una concezione ristretta. Gli scienziati, cioè,
valutano i potenziali rischi di una nuova tecnologia soprattutto
rispetto alla salute dell'uomo e all'ambiente: i risultati di questa
valutazione costituiranno poi la base concreta su cui si fonderà
la decisione politica. Tra la scienza e la legge, non c'è quindi
nessun elemento intermedio, o quasi. I cittadini, in nome dei quali
questa innovazione dovrebbe essere introdotta, ne restano in larga
misura esclusi: sono l'anello mancante della catena.
Si obietterà che questo meccanismo non è diverso da quello che regola
altre decisioni, visto che i responsabili politici, rappresentanti
degli elettori, dovrebbero agire in nome del bene pubblico. Tuttavia,
la valutazione degli effetti che possono essere provocati da una
tecnologia «a rischio» non ha molto a che vedere con la costruzione
di un ponte, le attrezzature di un ospedale o l'esportazione di frutta
e verdura. In situazioni «classiche», l'incertezza, benché raramente
assente, è talmente ridotta che il giudizio degli esperti (ingegneri,
medici, economisti, ecc.) presenta un'affidabilità sufficiente per
permettere decisioni razionali.
Invece, per le tecnologie che possono danneggiare l'ambiente o le
specie domestiche, se non addirittura l'uomo, «l'atto della valutazione
non si basa più solo sulla validità della conoscenza, quale garanzia
scientifica della decisione, ma anche sulla capacità di tener conto
dell'indeterminato e di prefigurare un futuro incerto (1) ». Come
viene precisato in un recente rapporto al primo ministro, «l'esperto
non sa» e, ciò che è peggio, le sue opinioni «non sono esenti da
pregiudizi». Affermazione, questa, riproposta costantemente nel testo
(2), in particolare per controbattere all'argomento secondo il quale
gli organismi geneticamente modificati (Ogm) potrebbero ridurre la
biodiversità: il rapporto vede in questa posizione «una certa carica
ideologica» e sottolinea che «l'emergere dell'aids è una manifestazione
della biodiversità».
È tipico delle situazioni che sottostanno al principio di precauzione
manifestare un'irriducibile incertezza, perché nessuno, e sicuramente
non una mente razionale, è capace di predire il futuro, proprio mentre
il presente innesca meccanismi dalle conseguenze inedite. E infatti
la Commissione europea annuncia che «nella sua analisi di rischio
sarà guidata dal principio di precauzione nei casi in cui le basi
scientifiche siano insufficienti o quando esistano incertezze (3)».
Ma le incertezze scientifiche sono sempre più frequenti, sia che
si tratti di sapere se è pericoloso consumare carne bovina di provenienza
britannica (4), sia che si voglia rispondere alle preoccupazioni
provocate dalle piante transgeniche (5). Così la valutazione, anche
se effettuata dai migliori specialisti, non possiede le qualità abitualmente
riconosciute agli atteggiamenti scientifici, e meglio sarebbe parlare
di «valutazione di scienziati», piuttosto che di «valutazione scientifica».
Anche quando gli esperti fossero irreprensibili, insensibili all'ideologia
della tecnoscienza e alle pressioni del mondo degli affari, il loro
apporto potrebbe servire solo a delimitare il campo dell'ignoranza,
e questo per due motivi fondamentali. Innanzitutto, l'insufficienza
delle conoscenze necessarie ad analizzare problemi sempre più «spinosi»,
come per esempio il rischio di accettare donatori di sangue che abbiano
soggiornato in Gran Bretagna, territorio di elezione della «mucca
pazza». Poi, l'incapacità di sintetizzare informazioni provenienti
da valutazioni diverse e di ponderarle in modo adeguato e preciso
affinché concorrano a costruire un'immagine oggettiva della complessità,
come avviene nella valutazione delle cause e della previsione del
cambiamento climatico.
Egemonia del discorso scientifico
Poiché gli stessi esperti riconoscono l'esistenza di una zona di
incertezza, almeno in quanto costante residuale ineliminabile, sembra
incoerente riconoscere alla valutazione scientifica lo statuto di
conoscenza incontestabile e considerarla sufficiente all'elaborazione
delle decisioni politiche. Tuttavia è proprio questo che propone
la Commissione europea in un recente comunicato (6), in cui si ignora
del tutto il dibattito che attraversa la società. Questa deriva della
ragione semplificatrice, che dimentica la complessità dei fenomeni
analizzati, comincia nel momento in cui si concede la qualifica di
esperti esclusivamente allo scienziato, all'ingegnere, o anche all'economista,
trascurando tutti gli altri saperi che pure concorrono alla conoscenza.
Tra questi ci sono saperi professionali come la sociologia o l'ecologia,
ma anche saperi condivisi da tutti gli esseri umani: intuizione,
buon senso, estetismo, romanticismo, educazione, capacità di fare...
A meno che non si voglia affermare la competenza del politico anche
in ambiti quali sensibilità, emozione, umanità, rapporto con la natura,
gioia e dolore - tutte qualità che non hanno concorso alla sua nomina
o elezione - , tra valutazione tecnica e decisione di diffondere una
tecnologia resta, volutamente vuoto, un vasto campo di valori.
L'esclusione delle «sensibilità umane» dallo spazio situato tra l'armamentario
tecnico-scientifico e l'apparato decisionale rispecchia l'egemonia
del discorso scientifico, che arriva sino all'usurpazione della scienza
stessa. È quindi sorprendente leggere questo titolo su una pagina
del rapporto Kourilsky-Viney: «Gli Ogm non presentano rischi particolari
per il consumatore, ma questo deve essere libero nelle sue scelte».
Fine dei dubbi evocati nel testo stesso! Gli Ogm vengono ormai garantiti
come privi di rischio. E, per mettere meglio in evidenza che qualsiasi
resistenza sarebbe prova di un atteggiamento irrazionale, la libertà
di scelta - resa eventualmente possibile dall'etichettatura - è paragonata
a quella, rivendicata da alcuni cittadini, di consumare solo alimenti
kasher...
Gli scienziati insistono molto sulla necessità di dettagliare i rischi
tecnologici, condizione che reputano necessaria per poterli riconoscere,
e la stessa Commissione di Bruxelles si richiama a «un processo decisionale
strutturato, fondato su dati scientifici dettagliati ed altre informazioni
obiettive». Così tanti riferimenti alla scienza e all'obiettività
lasciano intendere che, da qualche parte, qualcuno sa, ma anche che
ciò che si è incapaci di «dettagliare» non meriterebbe di essere
discusso. Tuttavia la Commissione avverte anche i decisori che «devono
essere coscienti del grado di incertezza legato ai risultati della
valutazione ottenuta in base alle informazioni scientifiche disponibili».
È come se si descrivesse una situazione idilliaca (la scienza deve
sapere, per principio), evocando al tempo stesso le attuali carenze
(il grado di incertezza), considerate temporanee, e rifiutando altri
argomenti che sfuggono totalmente alla scienza, anche se presentano
lo stesso grado di incertezza della valutazione scientifica.
L'instaurarsi del principio giuridico di precauzione ha escluso il
principio morale, spesso invocato nel corso dei due decenni precedenti
come «principio di responsabilità», per riprendere l'espressione
di Hans Jonas (7). Questo autore - che già allora guardava con preoccupazione
alle tecnologie del nucleare e del gene - ammetteva, tra le soluzioni
etiche, l'abbandono puro e semplice di un progetto, mentre l'attuale
precauzione porta piuttosto a differirlo o a regolamentarne le condizioni
d'uso.
Anche quando si arrivasse a supporre che un'innovazione tecnologica
sia esente da rischi potenziali secondo il principio di precauzione,
un tale verdetto non sarebbe sufficiente a giustificarne l'uso in
piena responsabilità. Soprattutto riguardo al futuro, che impone
altre preoccupazioni: quali effetti su sviluppo, natura, giustizia
sociale, occupazione, solidarietà regionale, relazioni Nord-Sud,
ecc.? Ma come accollarsi per troppo tempo un simile principio morale,
riproponibile all'infinito, quando la globalizzazione ci obbliga
ad una sempre maggior deferenza verso nuovi «valori»: competitività,
libero scambio, investimento, produttività, progresso tecnologico?
Nel registro delle «idee forti», alle quali non si può opporre niente
di intelligente, si trova questo incantesimo ricorrente, di un'affliggente
banalità: «Il rischio zero non esiste», semplice precauzione linguistica
contro le possibili conseguenze della mancanza di precauzione che
ci si appresta così ad accettare. Ma è proprio necessario rompere
le uova, se non c'è bisogno della frittata? Il discorso della valutazione,
limitato dalla preoccupazione di dimostrare il rischio - o, piuttosto,
il non-rischio - maschera l'assenza di domanda, o anche di interesse,
dei cittadini per l'oggetto del contenzioso. Questo accade per le
piante transgeniche, che alcuni industriali cercano di imporre -
ma, in realtà, chi le ha mai richieste? - con il sostegno attivo
della maggior parte degli esperti e la complicità di molti responsabili
politici. Se questi ultimi non ritengono di tradire i loro elettori,
è perché credono di agire per il bene comune contro inopportune resistenze,
e bisogna allora riconoscere che la loro azione è dettata più dalla
fede che dalla ragione.
Infatti, non è forse l'ideologia di un progresso garantito e irreversibile
che porta gente seria ad agire come se esistesse una qualche dimostrazione
dei vantaggi attribuiti alle colture transgeniche? Bisogna accontentarsi
dei vaghi (e scarsi) aumenti di produttività annunciati dagli industriali
- a partire da bilanci non esaurienti - per concludere che «le piante
transgeniche sono un affare!». Quand'anche risultati indiscutibili
dimostrassero che grazie agli Ogm si ottengono guadagni agricoli
netti, e non più soltanto promesse di guadagni, l'assenza di queste
informazioni nelle attuali istanze di valutazione dimostra che la
non-scientificità non è necessariamente solo dalla parte di «coloro
che si oppongono al progresso». E la cieca accettazione, da parte
dei politici, di queste valutazioni incomplete conferma il giudizio.
Tutto avviene come se la comune devozione all'impresa tecnologica
non ammettesse dubbi sui suoi vantaggi, e concedesse solo la fatica
di verificarne l'innocuità.
Un argomento specioso vorrebbe giustificare la polarizzazione della
valutazione sugli aspetti tecnici e misurabili del rischio, trascurando
gli effetti socioculturali delle tecniche come, nel caso delle piante
transgeniche, la qualità della vita, l'evoluzione delle attività
rurali verso l'industrializzazione, la concentrazione produttivistica,
ecc. Tali questioni sono spesso respinte perché, si sostiene, preesistevano
all'arrivo della tecnologia degli Ogm, dato che né la selezione delle
varietà né le leggi di mercato sono specifiche di questa tecnologia.
Ma ciò equivale a trascurare l'eventualità di un cambiamento qualitativo
dei parametri socioculturali sotto l'azione combinata dell'accelerazione
e dell'uniformazione delle tecniche. Le brutali fratture introdotte
dalla modificazione transgenica potrebbero provocare effetti molto
diversi da quelli prodotti dai lenti meccanismi dell'evoluzione naturale
o della selezione tradizionale.
Quando le azioni degli uomini accelerano effetti irreversibili, si
abbandona il campo della scoperta o del controllo per infilarsi in
una possibile rovina. Il che giustifica che la nuova tecnica sia
sottoposta ad un esame globale, per rendersi conto di tutto ciò che
non è riconducibile ai comportamenti tradizionali. Altrimenti, si
dovrebbe accettare anche il sistema Terminator (8) col pretesto che
non fa che migliorare l'efficacia commerciale dei selezionatori.
D'altronde, in piena logica liberale, il rapporto Kourilsky-Viney
fa notare che nessuno è obbligato ad acquistare semi di tipo Terminator!
Per minimizzare l'impatto delle tecniche Ogm sull'uomo e l'ambiente,
ci fanno notare che la transgenesi esiste già in natura: così, i
batteri del suolo da sempre scambiano geni resistenti agli antibiotici;
il grano moderno ha ricevuto frammenti di genoma dalla segale; i
mitocondri o i cloroplasti sono vestigia di batteri ingeriti da cellule
animali o vegetali; piante e animali hanno da tempo incorporato sequenze
genetiche di virus, ecc.
Tutto ciò è certamente esatto, ma non sono argomenti tali da giustificare
la disseminazione immediata, massiccia e irreversibile delle piante
transgeniche. Ed è anche per sfuggire alla diffidenza del pubblico
che gli industriali si orientano verso Ogm detti «di seconda generazione»:
si tratterebbe di ricorrere al vantaggio apportato da una mutazione
indotta attraverso il trasferimento di un gene interessante appartenente
alla specie migliorata piuttosto che di un gene estraneo, per meglio
avvicinarsi allo schema tradizionale della selezione varietale. Ma,
a causa della velocità imposta all'evoluzione del vivente da queste
innovazioni e della presenza di un apparato tecnico-commerciale potentissimo,
questi Ogm di seconda generazione conserveranno il carattere di fenomeni
nuovi, influenzando in modo irreversibile i rapporti tra uomo e natura
e quelli degli uomini tra loro.
Come arrivare a decisioni politiche ragionevoli, se alle incertezze
della scienza o alla soggettività della valutazione si aggiungono
le difficoltà di giudizio? Analizzando la «democrazia tecnica (9)»,
Michel Callon ricorda il ruolo degli scienziati nell'educare il pubblico
in una «lotta per la Luce contro l'oscurantismo». Spesso questa funzione
è interpretata in un senso messianico dagli ambienti scientifici
che si sentono incoraggiati da alcuni esempi, come il sondaggio sulle
piante transgeniche citato in un recente rapporto dall'Istituto nazionale
della ricerca agronomica (Inra) (10).
Alla domanda «I pomodori normali non contengono geni, mentre quelli
geneticamente modificati ne possiedono. Questa affermazione è vera
o falsa?», in Francia soltanto il 32 % degli intervistati dava la
risposta giusta (contro il 46 % negli Stati uniti e il 52 % in Canada).
Da qui la deduzione che non si può chiedere niente a gente così incompetente...
È evidente che informare il pubblico è necessario, ma niente indica
che ciò porterà inevitabilmente all'accettazione delle piante transgeniche,
a meno di non confondere posizioni etiche con razionalità e conoscenza
scientifica. È anche per questo che Michel Callon insiste sull'importanza
di mobilitare le conoscenze dei profani per legittimare le decisioni.
È interessante, al riguardo, tornare al forum dei cittadini sugli
Ogm, organizzato in Francia dall'Ufficio parlamentare per le valutazione
delle scelte scientifiche e tecnologiche (Opecst), nel giugno 1998.
Secondo i sociologi autori del rapporto sopra citato, questo forum
ha permesso di dimostrare una «competenza specifica» dei profani,
i quali, grazie ad «una visione libera delle poste in gioco locali
(...) hanno le capacità cognitive per partecipare alle valutazioni
tecnologiche». Lo stesso rapporto sottolinea le carenze dei parlamentari
nell'assumere le proprie responsabilità rispetto alle nuove tecnologie:
solo «alcuni deputati, che diventano esperti tra gli esperti» si
calano in questi «pozzi di noia» che sono i dossier sul nucleare
o sugli Ogm, e il Parlamento, «riproducendo al suo interno lo iato
esistente nella nostra società tra esperti e non», tende a percepire
la legittimità dei forum dei cittadini «come una minaccia».
Probabilmente è questo status mentale che ha portato il deputato
Jean-Yves Le Déaut a rivedere l'entusiasmo con il quale aveva organizzato
lo stesso forum. L'anno successivo, egli stigmatizza come «del tutto
demagogica» qualsiasi volontà di «democrazia diretta, una sorta di
succedaneo dell'antica agora», e nel forum dei cittadini non vuol
vedere altro che «un parere in più, quello dei non-specialisti, accanto
a quello degli esperti, delle associazioni (e dei protagonisti) del
processo (11)».Come se l'opinione di un pubblico informato fosse
solo un dato tra tanti e non quello che dà un senso ai prodotti delle
valutazioni! Come scrive Denis Duclos, «il momento politico più importante
è quello in cui si discute del testo da rappresentare, e non soltanto
dei particolari di un certo atto, o della scelta degli attori, o
del loro salario (12)».
La partecipazione attiva dei cittadini
Per farsi carico di questo «momento politico decisivo», l'applicazione
del principio di precauzione riferito all'ambiente (come pure ad
altri campi) richiede la partecipazione attiva dei cittadini. È quindi
sorprendente constatare l'assenza di ogni riferimento al dibattito
pubblico nella comunicazione della Commissione europea sul principio
di precauzione, il che fa temere che le proposte del rapporto Kourilsky-Viney,
peraltro molto moderate, appaiano come il colmo dell'audacia nella
democratizzazione del principio di precauzione.
Una tale ambizione richiede invece ben altro che la gentile concessione
degli esperti, consistente nell'inserire alcuni innocenti in un comitato
tecnico in cui, presi in ostaggio, siano schiacciati dalla scienza
e dall'autorità degli scienziati. Si tratta di altro anche rispetto
a quel «secondo cerchio», consigliato dallo stesso rapporto: cittadini
«scelti», assistiti da scienziati - appartenenti al «primo cerchio»
- sarebbero autorizzati ad esprimere un'opinione.
Nel 1992, Jean-Jacques Salomon, ultimo presidente del Collegio per
la prevenzione dei rischi tecnologici, scriveva: «Di fronte ai poteri
di cui dispongono le lobby dei tecnici nelle moderne società, l'unico
modo per limitare i danni è quello di rafforzare le procedure di
informazione, consultazione e trattativa che garantiscono il funzionamento
democratico delle nostre istituzioni (13)».
Un dispositivo veramente democratico potrebbe essere costituito in
modo analogo a quello che avevamo proposto, senza successo, per il
Comitato nazionale di etica (14). Anche qui, si tratterebbe di riportare
gli esperti al loro ruolo esclusivo di informatori, e di scommettere
sull'intelligenza, l'intuizione e il buon senso di cittadini responsabili.
È in questo senso che la Commissione francese per lo sviluppo permanente
ha appena emesso un bando (15) che prevede la creazione di un Comitato
consultivo per la valutazione delle tecnologie (Ccet), costituito
da volontari estratti a sorte e considerati «candidi» - indipendenti
tanto dall'industria che dalla ricerca o dalle organizzazioni non
governative (Ong) - incaricati di elaborare, alla fine di un lavoro
specifico, un parere rappresentativo delle riflessioni dei cittadini.
Per elaborare il suo parere, il comitato dovrebbe avere il potere
di consultare tutte le parti, senza discriminazioni - esperti in
materie scientifiche e in scienze sociali ed umane, industriali,
economisti, associazioni, ecc. Per un processo di valutazione un'opzione
di questo genere sarebbe non solo la più democratica, ma anche la
più «scientifica», se si ammette come davvero scientifico un prodotto
della ragione che non dimentichi di non sapere tutto.
Certo, non si tratterebbe di abbandonare ai tormenti della tecnica
e della metodologia i malcapitati «candidi», disponibili a imparare
e ad assumersi responsabilità. Bisognerebbe garantire loro sia un
«moderatore» specializzato in relazioni sociali, sia un comitato
di orientamento - anch'esso indipendente - per proporre e riunire
gli elementi tecnici. In mancanza di consenso in seno al Ccet, si
potrebbero organizzare forum di cittadini, simultaneamente e in zone
geografiche diverse. Un procedimento decentrato che permetterebbe
una maggiore obiettività.
Mentre pareri convergenti sarebbero rappresentativi di un'opinione
chiara da parte del pubblico, il persistere di divergenze segnalerebbe
difficoltà irrisolte. Questa procedura potrebbe facilmente essere
trasferita sul piano regionale, dove i pareri di un comitato consultivo
europeo potrebbero essere messi a confronto con quelli dei forum
nazionali dei cittadini. I costi di gestione di queste strutture
dovrebbero essere assunti da un fondo creato appositamente e sostenuto
dai contributi dei promotori delle innovazioni tecnologiche.
In ogni caso, il politico vedrebbe finalmente giustificato il suo
ruolo decisionale. Non gli resterebbe che prendere in considerazione
altri parametri, in particolare geopolitici - come d'altra parte
avviene per qualsiasi decisione - , ma senza trascurare la portata
della sua azione nel tempo e nello spazio, cioè resistendo a molte
tentazioni già identificate (16).
In primo luogo quella della casistica, atteggiamento vecchio, ma
riesumato con compiacenza da chi privilegia il conciliabolo contro
la legge e ignora i principi morali rifugiandosi nei particolarismi
individuali. Poi quella della moratoria, che prepara l'accettazione
attraverso l'assuefazione, giocando sulla solubilità dell'etica nel
tempo. Infine la tentazione del ripiegamento all'interno delle frontiere,
che ragiona come se esistessero diversi tipi di umanità, e gli uomini
non abitassero lo stesso pianeta, per cui si decide senza preoccuparsi
di cosa avverrà altrove. Per essere veramente seri, e nella prospettiva
di uno sviluppo reale e duraturo, bisognerà accettare che il principio
di precauzione è una questione che riguarda tutti i cittadini del
mondo.
note:
* Direttore di ricerca all'Inserm (Institut national de la santé et
de la recherche médicale) e presidente della Commission française
du développement durable. Autore, in particolare, di: Le Désir du
gène, Flammarion, 1994; Des hommes probables. De la procréation aléatoire
à la reproduction normative, Seuil, Paris, 1999; Des grenouilles
et des hommes, Seuil, 2000.
(1) Bernard Kalaora, «Global expert: la religion des mots, Ethnologie
française, XXIX, 1999, 4.
(2) Philippe Kourilsky e Geneviève Viney, Rapport au premier ministre
sur le principe de précaution, Parigi, ottobre 1999.
(3) Commissione europea, comunicazione sulla salute dei consumatori
e la sicurezza alimentare, 30 aprile 1997. Com (97) 183 finale, Journal
officiel des communautés européennes (Joce), C 97/202 del 30 aprile
1997.
(4) Leggere «Etiquetage et traçabilité ne sont pas une panacée»,
Libération, 26 novembre 1999.
(5) Leggere Jacques Testard, «La biotecnologia semina ai quattro
venti», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 1997.
(6) Commissione europea, comunicazione sul ricorso al principio di
precauzione, 2 febbraio 2000 Com (00) 153 finale, Joce, C 2000/58
del 2 febbraio 2000.
(7) Hans Jonas, Il principio di responsabilità: un'etica per la civiltà
tecnologica, Einaudi, 1993. Leggere Jacques Decornoy, «Trompe-l'oeil
et fausses ruptures», Le Monde diplomatique, ottobre 1991.
(8) Si tratta di un montaggio genetico che impedisce la fertilità
delle piante nate da semi transgenici... e obbliga, ogni anno, all'acquisto
di nuovi semi. Di fronte all'indignazione suscitata da questa «innovazione»,
la ditta Monsanto è stata costretta a rinunciare (provvisoriamente?)
alla sua commercializzazione. Leggere Jean-Pierre Berlan e Richard
C. Lewontin, «Un racket confisca la materia vivente»; François Dufour,
«Gli scienziati pazzi dell'agroalimentare», e José Bové, «La via
contadina all'agricoltura», Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente
di dicembre 1998, luglio 1999 e ottobre 1999.
(9) Michel Callon, «Des différentes formes de démocratie technique»,
Annales des Mines, n° 9, Parigi, 1998.
(10) Pierre Benoît Joly, Gérard Assouline, Dominique Kréziak, Juliette
Lemarié, Claire Marris e Alexis Roy, L'innovation controversée: le
débat public sur les Ogm en France, l'Inra, Grenoble, gennaio 2000.
(11) Jean-Yves Le Déaut, Choix tecnologiques, débat public et décision
politique. L'opinion publique face aux plantes transgéniques, Albin
Michel, Parigi, 1999.
(12) Denis Duclos, «La pluralità, esigenza universale», Le Monde
diplomatique/il manifesto, gennaio 2000.
(13) Jean-Jacques Salomon, Le Destin technologique, Balland, Parigi,
1992.
(14) Leggere «Procréation médicalement assistée: l'éthique et la
loi», Etudes, Parigi, n° 3816, dicembre 1994. E «De l'expertise à
la compétence», Transversales Science Culture, n° 32, marzo-aprile
1995.
(15) Commission française du développement durable, «Avis sur le
rapport au premier ministre di François Kourilsky e Geneviève Viney:
le principe de précaution», marzo 2000.
(16) Des hommes probables. De la procréation aléatoire à la reproduction
normative, Seuil, Parigi, 1999. Leggere Patrick Viveret, «Una sfida
all'umanesimo», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2000.
(Traduzione di G.P.)
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