L'UNITA', 7 luglio 2001
PIETRO GRECO 
Sua maestà la tecnologia
Chi ha paura della scienza?
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Oggi e domani a Spoleto scienziati, semiologi e filosofi a confronto
su come il progresso può costruire il nostro futuro/Il dibattito
sull'impatto delle scoperte nella nostra vita si sta consumando non
solo tra gli addetti ai lavori ma anche nella società

Scende in piazza il "popolo di Seattle", contro la globalizzazione e
i suoi feticci tecnologici. Scendono in piazza gli scienziati
italiani, per rivendicare "libertà di ricerca". Si mobilitano i
giovani. Si schierano gli intellettuali. Ha ragione il semiologo
Paolo Fabbri: l'evoluzione della scienza ha rotto un lungo periodo di
apatia e sta determinando un ritorno di massa alla politica.

Il "movimento" ha caratteri frammentari e persino contraddittori. Ad
alcuni, infatti, l'evoluzione, a tratti impetuosa, della scienza
(anzi, della tecnoscienza) suscita un sentimento di paura. Ad altri,
invece, evoca l'annuncio di sorti magnifiche e progressive. A tutti,
però, l'evoluzione della scienza e della tecnologia propone e quasi
impone di pensare il futuro. "Pensare il futuro" e "La paura della
scienza" sono proprio gli argomenti che Spoletoscienza, la
manifestazione organizzata nella città umbra dalla Fondazione
Sigma-Tau, offre rispettivamente oggi, sabato 7 luglio, e domani,
domenica 8 luglio, al suo pubblico ormai tradizionale. Del futuro da
costruire con la scienza parleranno Giulio Giorello, John Maddox,
Aldo Schiavone e, appunto, Paolo Fabbri. Della paura suscitata dalla
scienza parleranno Enrico Bellone, Pietro Corsi, Daniel Kevles e
Sebastiano Maffettone.

Nessuno degli otto relatori è un nemico dichiarato della scienza.
Anzi, sono tutti portatori di densa cultura scientifica. Tuttavia i
toni del discorso e le declinazioni del tema saranno diversi. A
tratti molto diversi. I relatori sono espressione di un dibattito
reale. Vivo. Che si consuma nel mondo scientifico proprio come nel
resto della società. Così che vale la pena tentare di verificare se
ci sia un filo rosso in grado di legare le analisi sulla percezione
sociale della scienza al progetto, politico, di costruzione del
futuro.



L'alleanza degli irrazionalismi

La scienza è, di gran lunga, la cultura principale su cui si fonda la
dinamica economica, sociale e quindi politica del nostro tempo. Non
fosse altro perché da almeno un secolo il sistema di innovazione
tecnologica attinge con metodo scientifico alle conoscenze prodotte
dagli scienziati. Tuttavia la conoscenza scientifica suscita paure.
Anzi, suscita una congerie di paure forse mai così variegata e
diffusa. A essere spaventati non sono solo i gruppi sociali
tradizionalmente permeabili all'irrazionalismo popolare. E neppure le
componenti più conservatrici del mondo religioso (cattolico,
protestante, islamico). Nuovi irrazionalismi, popolari e di élite,
stanno emergendo e penetrano in gruppi sociali una volta quasi
impermeabili alla paura del progresso: i movimenti giovanili, anche
di sinistra, e gli intellettuali. Alcuni dei quali giungono a negare
ai risultati prodotti dalla scienza la dignità di "autentica"
conoscenza. Questi vecchi e nuovi irrazionalismi antiscientifici
stanno iniziando a riconoscersi e persino ad allearsi: e già alcuni
temono che questa inedita alleanza possa diventare cultura egemone e
costruire il "medioevo prossimo venturo".

Perché? Probabilmente le ragioni sono molte. Una la indica, con la
solita lucidità, lo storico della fisica Enrico Bellone: la cultura
scientifica, fondata sul ragionamento critico prima ancora che sulla
produzione di nuove conoscenze, rompe gli ordini naturali e sociali
costituiti. E' rivoluzionaria. E di converso, da Galileo in poi,
suscita veementi reazioni di rigetto. Tuttavia questa è una delle
ragioni. Non l'unica. Un'altra ragione risiede, forse, nel fatto che
la sociologia del lavoro scientifico sta cambiando. All'inizio del XX
secolo lo scienziato operava, come tale, all'interno di piccole
comunità chiuse formate da suoi pari. Le decisioni rilevanti per lo
sviluppo del lavoro scientifico venivano prese tutte all'interno di
queste comunità, dove imperava la regola mertoniana del disinteresse.
Oggi, come rileva John Ziman, un fisico teorico che sa di sociologia
della scienza, questo quadro è cambiato. Non esiste più una comunità
scientifica rigorosamente chiusa. Lo scienziato opera, come tale,
all'interno di comunità sempre più allargate e sempre più sfumate. E
le decisioni derivanti per lo sviluppo del suo lavoro vengono prese
non solo insieme ai colleghi suoi pari, ma insieme a una congerie di
figure estranee alla comunità scientifica: politici, burocrati,
manager, membri di organizzazioni non governative, opinione pubblica.
In queste comunità allargate non vale più la regola mertoniana del
disinteresse. Lo scienziato non lavora solo per produrre "conoscenza
in sé". Ma è costretto a lavorare anche per produrre "conoscenza
utile". Laddove il significato di utilità viene di volta in volta
definito in un complesso e dinamico compromesso con politici,
burocrati, manager, membri di organizzazioni non governative,
opinione pubblica.

Il concetto di utilità ha forti componenti politiche. Ecco perché la
scienza sta catalizzando sia un ritorno delle masse alla politica,
come rileva Paolo Fabbri, sia una inedita politicizzazione interna,
come dimostra una serie impressionante di fatti. Che vanno dalla
inedita "conquista della piazza" da parte degli scienziati italiani e
svizzeri, alla accesa discussione che in questo momento coinvolge
l'intera comunità scientifica mondiale sulla libertà di accesso,
formale e sostanziale, alla informazione scientifica. Questo
dibattito cruciale, sia detto per inciso, è stato stimolato non da un
gruppo di scienziati neomarxisti, ma da Harold Varmus, l'ex direttore
dei National Institutes of Health degli Stati Uniti: la più grande e
potente comunità biomedica del mondo.

Di più. L'avvento, soprattutto nel campo dell'informatica e delle
biotecnologie, di "scienziati imprenditori", che perseguono nel
medesimo tempo lo scopo di produrre conoscenza e lo scopo di ricavare
direttamente utili economici dalla conoscenza prodotta, rende ancora
più ambiguo il concetto di "conoscenza utile".



I mattoni per costruire il futuro

Insomma, il cambiamento del modo di lavorare degli scienziati rende
più ambiguo il riconoscimento del "valore della conoscenza". E parte
di questa ambiguità va ad alimentare la paura della scienza. Gli
uomini di scienza e la società intera devono pertanto impegnarsi con
priorità assoluta a sciogliere questa ambiguità, se vogliono evitare
che la paura della scienza e il tramonto della ragion critica ci
precipiti tutti nel "medioevo prossimo venturo".

Ma sgonfiare le paure e frantumare l'alleanza in formazione tra la
congerie di irrazionalismi vecchi e nuovi è solo una parte, e neppure
la più dura, del lavoro che attende chi si sente impegnato a
costruire una sistema di relazioni sociali fondata anche sulla
ragione. L'altra parte è quella, propositiva, di pensare il futuro,
per costruirlo.

La scienza può aiutarci a costruire un futuro desiderabile. Anzi, le
conoscenze scientifiche sono mattoni indispensabili per erigere
questo edificio. Ma anche in questo caso è d'obbligo sciogliere il
nodo decisivo del valore da dare alla conoscenza. Il valore che
sembra prevalere oggi è quello, pragmatico, che alla conoscenza
riconosce il mercato. Un valore utilitaristico: dobbiamo cercare di
conoscere quello che ci può tornare immediatamente ed economicamente
utile.

John Maddox, il vulcanico ex direttore di Nature, la più nota rivista
scientifica del mondo, individua tre grandi temi su cui concentrare
la ricerca scientifica: la riconciliazione tra la relatività generale
e le meccanica quantistica in fisica; l'origine della vita in
biologia; il funzionamento del cervello e l'origine della mente nel
campo delle neuroscienze. La priorità da dare a queste tre piste di
ricerca emerge dal loro valore culturale. Tuttavia c'è un rischio,
niente affatto trascurabile. Le piste di ricerca indicate da Maddox
hanno un valore, appunto, culturale. Sono scienza di base. Con scarso
valore (immediato) di mercato. Il rischio è che se continua a
prevalere l'approccio pragmatista e utilitarista alla ricerca,
perseguito e persino teorizzato dal pensiero liberista, gli obiettivi
di Maddox e l'intera ricerca di base passino in secondo piano.
Vengano dimenticate. Ciò, come sostiene Enrico Bellone, sarebbe la
fine della scienza.

Ma, se vogliamo costruire un futuro desiderabile, anche nel campo
della scienza applicata il riconoscimento del valore della conoscenza
non può essere delegato al mercato. Lo ha dimostrato la recente
vertenza tra le grandi multinazionali e il governo del Sud Africa sui
farmaci anti-Aids. Lo dimostra la presenza dei "farmaci orfani". Il
mercato non è in grado di distribuire gli "utili della conoscenza"
all'80% della popolazione mondiale.

Per costruire il futuro coi mattoni della scienza occorre dunque
(ri)associare al valore di mercato della conoscenza altri valori: i
valori dello sviluppo umano. E occorre che noi tutti, uomini di
scienza e cittadini comuni, cominciamo a riflettere, come ci invita a
fare lo storico della biologia Pietro Corsi, con maggiore profondità
e senso critico: "sul rapporto tra scienza pubblica e scienza
privata, sui sistemi di controllo e verifica; sulla loro adeguatezza
in merito alle decisioni che dobbiamo prendere". t questo, forse, uno
dei temi decisivi per il futuro della cultura scientifica. E per il
nostro futuro.