L'Unità, 7 APRILE 2000 ROBERTO GIOVANNINI "Attenti, ora serve una scienza etica" Polemico saggio di Bill Joy su "Wired" La Silicon Valley non ne vuole sapere proprio dei preoccupati richiami lanciati da uno dei suoi più prestigiosi esponenti. Le tesi del saggio di Bill Joy su "Wired" hanno avuto vasta risonanza in America, ma ben poca attenzione e soprattutto adesione effettiva hanno raccolto tra gli addetti ai lavori, ovvero esattamente i destinatari dell'appello lanciato dal "Chief scientist" di Sun Microsystems. Lo stesso Joy afferma che " non c'è stata una gran reazione di allarme nel settore. La gente normale sembra molto più in grado di capire quello che sta accadendo". Un tipo un po' particolare di reazione è quello di Hans Moravec, guru della robotica e amico di Joy, che prevede come inevitabile la graduale trasformazione della razza umana in forme di vita robotiche, e che considera questo evento come una fase naturale del processo di evoluzione. Per Moravec, l'allarme lanciato da Joy è fondamentalmente inutile: "Diventeremo tutti Robot - dice - è allo stesso tempo inevitabile e desiderabile". In ogni caso, la stragrande maggioranza della comunità scientifica vede la proposta di bloccare alcuni filoni della ricerca scientifica come "irrealistica" e "irresponsabile". "L'abbandono di certi filoni - afferma l'esperto di nanotecnologie Ralph Merkle - è impossibile e illusorio, specie se si considera che altri paesi possono sviluppare questa stessa tecnologia". Altri studiosi accusano Joy di non fare altro che ripetere cose già dette (e meglio) da altri in passato: "Tutte queste questioni dice il programmatore genetico John Koza - a partire dall'allarme per l'intelligenza artificiale e l'ingegneria genetica sono state già discusse nei primi anni '90. Quando iniziò il Progetto Genoma Umano, gli scienziati erano molto preoccupati per i rischi della clonazione". Insomma: cose dette, andiamo oltre. Dunque, nessuna esitazione, e nessuna preoccupazione. Anche perché oggi nella Silicon Valley la ricerca e realizzazione di nuovi prodotti significa soldi, e per la precisione è una vera e propria montagna di soldi, cui difficilmente le aziende e gli scienziati stessi intendono rinunciare. Non sembra preoccupato affatto della cosa Merkle, il nanotecnologo, secondo cui "la struttura basata sul mercato e la competizione che esiste attualmente ha lavorato più che bene, e non ci sono motivi per serie preoccupazioni. Sembra un po' prematuro abbandonarla proprio ora ... ". Resta il fatto, se non altro, che Joy fa discutere. Qualche giorno fa, all'Università di Stanford, Bill Joy ha partecipato insieme a un gruppo di studiosi e luminari - tra cui i suoi visionari colleghi Moravec (il roboticista) e Ray Kurzweil (scrittore e inventore) - a un forum sui rischi dell'innovazione tecnologica. Sala strapiena, attenzione alle stelle per un evento propagandato attraverso un tam tam via Internet. Qualcuno ha definito la serata "l'equivalente, per il mondo della tecnologia, di un concerto rock". Se a parlare fosse stato un ambientalista "estremista o un lama buddista, nessuno si sarebbe sorpreso. Anzi. Ma il colpo, l'attacco determinato (e angosciato) alla cultura dominante nella nostra società - che resta fondata sull'accettazione immediata, incondizionata e acritica delle nuove tecnologie, e su un'aspettativa di sviluppo inesauribile e progressivo arriva da uno dei principali esponenti del mondo della cultura scientifica e industriale occidentale: Bill Joy, 44 anni, "Chief Scientist" (capo scienziato), CEO, cofondatore e azionista della Sun Microsystems, uno dei colossi del software. Joy ha inventato microprocessori, ha contribuito alla creazione dei linguaggi Java e Jini, e tra le moltissime altre cose è stato nominato nel '97 da Clinton co-presidente di un Comitato di consulenza sull'"Information Technology". Ebbene, Bill Joy ha scritto sul numero di aprile del mensile "Wired" (8.04) un lunghissimo saggio, che ha sollevato molte polemiche e molte discussioni. Il titolo, chiarissimo, è "Why the future doesn't need us", "Perché il futuro non ha bisogno di noi".Dove "noi", siamo noi, donne e uomini: le potenti tecnologie del ventunesimo secolo - robotica, ingegneria genetica e nanotecnologie, che ci entusiasmano e ci fanno pensare a un avvenire prospero e felice, in realtà minacciano di far finire la razza umana sulla lista delle specie biologiche a rischio. Il ragionamento di Joy, sintetizzato, è questo: la rivoluzione delle tecnologie dell'informazione degli anni' 90 ha portato con sé uno strano e "ottuso" entusiasmo nei confronti della tecnologia e delle sue implicazioni. La vecchia angoscia per il pericolo dell'Olocausto atomico, che ci aveva accompagnato per quasi tutta la seconda metà del secolo, sembra sparita del tutto e anche se periodicamente si riaccende il dibattito sui rischi e pericoli insiti in un progresso tecnologico "costruito" e alimentato da meccanismi puramente economici, totalmente "scollegato" invece da una ricerca di tipo etico sui valori che debbono guidare e ispirare questo processo. Fin qui, come dire, sono considerazioni molto ragionevoli e largamente condivise, anche se si tratta di tesi che di rado vengono discusse all'interno del mondo che quel progresso tecnologico sta costruendo. Ma c'è un passaggio in più, che rende il discorso di Bill Joy decisamente inquietante e meritevole di interesse. Attenti, ci dice: il progresso scientifico sta avvenendo con una velocità talmente spedita da rendere possibile e concretamente realizzabili imprese che un tempo erano confinate al mondo dei racconti di fantascienza. Ad esempio, la robotica. Joy racconta molto candidamente la sua storia di informatico, alle prese con computer e sistemi che tutto possono fare, fuorché pensare e agire "autonomamente". Si è pensato a lungo che la crescita esponenziale delle capacità dei semiconduttori, (la cosiddetta legge di Moore) dovesse incontrare intorno al 2010 un qualche limite fisico. Ma il recente rapido e radicale progresso nell'elettronica molecolare ("stampare" circuiti piazzando singoli atomi e molecole) e nelle nanotecnologie (costruire macchine piccolissime, con pezzi fatti di molecole) fa ritenere che nel 2030 sarà possibile costruire macchine un milione di volte più potenti dei pc di oggi. Mettendo insieme questa capacità di "pensare", con i progressi delle scienze fisiche, della nanotecnologie e del la genetica, dice Joy, si ottiene un prodotto totalmente nuovo, e fantascientifico: la capacità - oggi riservata alla natura - di produrre macchine o organismi in grado di autoreplicarsi. Insomma, oggi l'uomo può "scatenare un enorme potere di trasformazione". Un potere che può essere adoperato per il bene, certo. Robot possono svolgere i lavori "sporchi", e con arti robotici possiamo allungare e migliorare la nostra vita; potremo forse "downloadare" la nostra coscienza in macchine, e vivere in eterno; l'ingegneria genetica potrà aiutare a curare malattie oggi mortali. Ma allo stesso tempo, "ognuna di queste tecnologie mette in moto una sequenza di piccoli, singolarmente sensibili progressi, che porteranno all'accumularsi di un grande potere, e dunque, di un grande pericolo". Il pericolo nasce da un atteggiamento della nostra cultura. La nostra attitudine verso il nuovo è fatta di una immediata e incondizionata accettazione del cambiamento e dell'innovazione. Tutto sommato, l'uomo occidentale è riuscito a mantenere questo approccio anche quando più alto era il rischio legato alle tecnologie di distruzione di massa (bombe atomiche, batteri, e così via). Armi strapotenti, ma complesse da creare e difficili da manipolare; oggi, al contrario, armi, legate o derivanti dalle tecnologie GNR (genetiche, nanotecnologie, robotiche) possono essere prodotte anche da singoli. Sono quelle che Joy definisce armi di distruzione di massa "knowledge-enabled", cioè "attivate dalla conoscenza". Armi futuribili (ma non irrealizzabili nel medio periodo) che potrebbero ad esempio distruggere l'intera biosfera, trasformando tutto ciò che è vivente in una "gelatina grigia". La cosa che più crea angoscia a Joy, è l'evidente rifiuto da parte degli scienziati di ogni tentativo di riconquistare un controllo sulla tecnologia, il loro atteggiamento passivo, il loro abdicare alla responsabilità morale di assumere scelte responsabili, la generale rinuncia a cercare di pensare "il lungo periodo". Al contrario, spiega nel saggio su "Wired", "il perseguimento scientifico della verità dev'essere temperato da considerazioni sul costo umano del progresso". Bisogna imitare - è la conclusione - gli scienziati atomici del dopoguerra: impegnarsi in prima persona per cercare di cambiare le cose, e arrivare al deliberato abbandono dì alcune applicazioni di queste tecnologie. Nonostante i costi economici e sociali, accettando controlli efficaci e generalizzati per rendere effettivo il bando, e chiedendo agli scienziati di sottoscrivere un rigido codice etico di comportamento.