Tempo Medico, 22 novembre 2001
Il rischio di non comunicare
(Recensione di Risk communication and public health e Il Rischio ambientale)
di Margherita Fronte [ * ]

A lungo sottovalutata sia dai ricercatori sia dagli amministratori, la questione della comunicazione del rischio rivolta ai cittadini entra oggi a far parte di dibattiti pubblici e conferenze per specialisti. E seminari, focus gruop, o assemblee sui temi della comunicazione sono ormai appuntamenti frequenti nelle agende di chi, fino a qualche anno fa, doveva (o voleva) preoccuparsi soltanto di fornire dati statistici ed epidemiologici o di prendere le decisioni amministrative e politiche su casi specifici.

Due libri, uno inglese e uno italiano, fanno il punto della situazione, cercando di piantare qualche paletto sul terreno accidentato e ancora poco codificato di una disciplina nuova.

risk-communication-and-public-health.jpg (5183 byte)Risk communication and public health (Oxford Univeristy press, 1999, 272 pagine) raccoglie gli interventi di un convegno organizzato dal Dipartimento della salute britannico, nel novembre del 1997. L’impronta d’Oltremanica appare evidente nei casi concreti che il libro prende in esame (in particolare, quello dell’encefalopatia spongiforme bovina o altri episodi che si sono verificati sul territorio britannico). Ma, come osservano i due curatori - Peter Bennett, del Dipartimento della salute, e Sir Kenneth Calman, dell’Università di Durham - l’impostazione teorica e i suggerimenti sono validi anche in altre realtà. A cominciare da quello, elementare soltanto per chi ha già sviluppato una sensibilità al rapporto con il pubblico, di non sottovalutare il ruolo dello scienziato e dell’amministratore come comunicatori. «A chi si occupa di gestione del rischio le reazioni dei cittadini sembrano a volte bizzarre, se paragonate alle stime che emergono dai lavori scientifici» scrivono i due curatori nella prefazione. Ma «la percezione del rischio è un riflesso della fiducia che il pubblico ha nelle istituzioni politiche e scientifiche» chiarisce qualche capitolo più avanti Ian Langford, del Centro di ricerche sociali ed economiche sull’ambiente globale di Norwich. Il tema fa da filo conduttore nel testo, ma l’importanza di instaurare un rapporto corretto con il pubblico diventa palese soprattutto nei resoconti degli episodi reali.

Proprio dall’esame di quanto è accaduto in passato, infatti, si possono trarre alcuni insegnamenti. Gli studi sulla percezione del rischio permettono, per esempio, di stabilire quali fattori intrinseci all’episodio in esame possono influenzare la diffidenza del pubblico nei confronti delle istituzioni che, per ruolo, hanno il compito di proteggere la salute della popolazione. La differenza fra rischio imposto e rischio volontario, il fatto che le conseguenze sulla salute siano reversibili o meno, e che si manifestino nel breve o nel lungo periodo, sono tutti fattori che ricercatori e istituzioni non possono controllare. Per contro, l’atteggiamento del pubblico e dei media nei confronti della minaccia più invisibile e meno conosciuta dalla scienza dipende fortemente dalle dichiarazioni delle autorità e degli scienziati, dalla chiarezza e dall’onestà dei dati che vengono resi pubblici, dalla possibilità di esprimere le proprie preoccupazioni di fronte a chi deve gestire la situazione, e dal livello di partecipazione dei cittadini nei processi decisionali. Così, mentre in passato la comunicazione del rischio era vista come un processo a senso unico, in cui "chi sa" informa "chi non sa" sulla situazione, oggi si tende piuttosto a considerarla come uno scambio di idee fra chi ha il compito di gestire il rischio e chi di una gestione errata può essere vittima.

il-rischio-ambientale.jpg (5258 byte)Per questo, nel libro Il Rischio ambientale (ed. il Mulino, Bologna 2001; 212 pagine, 22.000 lire), Bruna De Marchi, Luigi Pellizzoni e Daniele Ungaro preferiscono parlare di "partecipazione". Per gli autori, sociologi dell’Università di Trieste, l’espressione "comunicazione del rischio" è un’«etichetta infelice e riduttiva, essendo stata coniata in anni in cui tale attività veniva concepita come un passaggio a senso unico di informazioni quantitative dagli esperti al pubblico, i primi nel ruolo di attivi docenti, il secondo in quello passivo di discente».

Il libro affronta la questione dal punto di vista storico, oltre che sociologico. L’excursus iniziale delinea l’evolversi della diffidenza dell’uomo nei confronti della tecnologia e della scienza (con una data di inizio fondamentale che corrisponde all’esplosione della prima bomba atomica) e il passaggio dalla fiducia nel progresso alla diffidenza che caratterizza quella che i tre autori definiscono "la società del rischio" moderna, dominata dalla diffidenza e dall’incertezza su rischi ambientali, che sono per lo più un prodotto diretto del progresso tecnologico. Parallelamente si assiste alla modifica dell’atteggiamento di chi studia e gestisce i rischi, da uno stato iniziale in cui la comunicazione avviene soltanto attraverso "i numeri giusti", alla consapevolezza che quei numeri vanno spiegati, allo sforzo di minimizzare le preoccupazioni del pubblico facendo paragoni con altri rischi già accettati in passato o attraverso l’imbonimento e così via. Fino alla forma più moderna in cui ai cittadini viene riconosciuto un ruolo attivo nei processi decisionali, «vuoi perché essi possano effettivamente offrire un fattivo contributo» puntualizzano gli autori, «vuoi perché non se ne può fare a meno».

Il tema della comunicazione si intreccia così a quello più ampio della gestione del rischio. Pietra miliare nei processi che hanno portato a una visione più moderna, in cui gli effetti sanitari vanno prevenuti invece che riparati, è la formulazione, all’inizio degli anni settanta, del principio di precauzione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Fulcro centrale del principio, mantenuto nelle formulazioni degli anni successivi, è l’indicazione secondo cui l’assenza di certezza scientifica - alibi fin troppo comodo per chi è nella posizione di dover proteggere i cittadini da un effetto che potrebbe non verificarsi mai - non può ritardare l’adozione delle misure che sarebbero giudicate necessarie se la certezza fosse raggiunta.

___________________

[*] Margherita Fronte è giornalista scientifica presso l'Agenzia Zadig di Milano.
Back