Il Manifesto, 13 febbraio 2001 Una questione di principio Arroganti certezze E' scontro tra i sostenitori del "principio di precauzione", proprio del pensiero ecologista, e quelli del "principio di certezza" MARCELLO CINI Millecentosessantaquattro scienziati, ricercatori e professori universitari contro il ministro delle politiche agricole e forestali. Un bel match. Da un lato un ministro dell'agricoltura che si copre di ridicolo confessando che si è sbagliato perché ha confuso la "sperimentazione in campo agricolo" con la "sperimentazione in campo aperto" e dall'altra un'aggregazione di tecnici di discipline diverse tenuta insieme soltanto da una ideologia - l'ideologia dell'oggettività e della neutralità della ricerca scientifica e tecnologica rispetto al contesto sociale - ormai incapace di suggerire vie da percorrere e strategie da adottare per affrontare i problemi sociali sempre più acuti e pressanti provocati dal potere acquisito dalle tecnoscienze di manipolare il mondo della vita e l'universo della mente umana. Per quanto riguarda il primo non ho niente da aggiungere. Sarebbe stato bene se avesse dignitosamente riconosciuto che uno sbaglio così, se di sbaglio si è trattato, un ministro non lo può fare. Avrebbe evitato di dare l'occasione ai mezzi di comunicazione di massa per scatenare l'opinione pubblica contro quella componente essenziale della sinistra che fa riferimento al pensiero ecologista. Tanto più se, come afferma oggi, voleva soltanto far rispettare una direttiva europea che vieta la sperimentazione all'aperto per evitare la contaminazione delle culture naturali. Per quanto riguarda i secondi invece vorrei argomentare più in dettaglio il mio punto di vista. Non mi interessa qui gettare, come fa il ministro, dubbi, peraltro leciti visto il gran numero di firmatari, sulla competenza nel campo specifico degli Ogm di molti di loro, né insinuare che alla base della protesta possa esserci, accanto a giuste rivendicazioni di ragionevole autonomia rispetto a ingerenze arbitrarie di politici a caccia di notorietà, anche la difesa, meno nobile, di interessi economici, di carriera e di potere. Ammettiamo pure, dunque, che tutti questi miei colleghi - e alcuni lo sono veramente - siano animati da una convinzione profonda e sincera che i problemi dell'umanità si possano risolvere soltanto lasciando completa libertà di scelta ai ricercatori di ogni settore sugli obiettivi, i metodi e i mezzi da destinare alla ricerca, mantenendo nelle loro mani il potere di giudicarne la validità, l'efficacia e le priorità. Ma come facciamo ad essere sicuri che le loro scelte siano le migliori possibili dal punto di vista dei soggetti sociali inevitabilmente e pesantemente coinvolti, che non sono una generica "umanità", ma popoli, classi, categorie economiche, comunità culturali, individui, che si trovano oggi e si troveranno domani a doverne subirne le conseguenze, nel bene e nel male? Si risponde a questa domanda dicendo: sono i politici che devono decidere come utilizzare i nostri risultati; lasciate però ai ricercatori la libertà di scegliere dove e come raggiungere la conoscenza di quei fatti certi e di quelle relazioni oggettive di causa ed effetto che devono fornire le basi per quelle decisioni. Ebbene, questa divisione di compiti non funziona. Non funziona perché esclude in partenza proprio quei "fatti intrisi di valori" che segnano la vita dei soggetti sociali che in teoria dovrebbero essere tutelati. Gli "scienziati" infatti, per definizione, si occupano solo di quei fatti dei quali possono acquisire la certezza. Per quanto riguarda la salute, per esempio, si limitano a dire: "non ci sono evidenze certe che la tal cosa sia dannosa". I "decisori" a loro volta utilizzano queste certezze come base di partenza per realizzare gli obiettivi da perseguire sulla base dei loro "valori". Dicono: "visto che la tal cosa non è dannosa possiamo utilizzarla per il bene comune". E le incertezze? Chi si occupa delle incertezze? Chi si occupa dei costi che forse noi stessi, ma certamente qualcun altro, già oggi o in un futuro più o meno prossimo, dovrà pagare per i benefìci che le certezze delle tecnologie di punta possono riversare nell'immediato su di noi? Perché di questi costi nessuno parla? Perché nessuno si domanda, per esempio, se la creazione, la produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell'ambiente naturale di migliaia di forme di vita manipolate geneticamente non causeranno un danno irreversibile alla biosfera, facendo dell'inquinamento genetico una minaccia per il pianeta ancora più grave dell'inquinamento nucleare e chimico? Oppure si domanda che conseguenze potrebbe avere per l'economia globale e per la società ridurre il pool genetico del mondo allo stato di proprietà intellettuale brevettata sotto il controllo esclusivo di un ristretto numero di multinazionali? O ancora si chiede quale sarà la condizione umana in un mondo dove i bambini vengono progettati geneticamente - certo, per il loro bene - e dove le persone vengono identificate, classificate e discriminate in base al loro genotipo? Lo scontro vero dunque, a parte le gaffes di un ministro, è tra i sostenitori del "principio di precauzione", che sta alla base del pensiero ecologista, e i sostenitori del "principio di certezza", che costituisce il collante ideologico dei firmatari dell'Appello per la libertà della ricerca. Ma come si fa a non capire che senza il principio di precauzione corriamo tutti verso il disastro? Dice Hans Jonas: "Una volta era facile distinguere fra tecnica benefica e tecnica dannosa, considerando semplicemente l'impiego dei suoi strumenti. I vomeri, si diceva, sono buoni, le spade, cattive. Ma qui salta all'occhio il tormentoso dilemma della tecnica moderna: a lungo termine i suoi "vomeri" possono essere dannosi quanto le sue "spade". E prosegue: "In questo caso sono loro, i benefici 'vomeri' e i loro simili, il vero problema." I casi di "vomeri" che si rivoltano sono sotto gli occhi di tutti. Non sarebbe stato meglio essere più cauti nell'utilizzare le farine animali come mangime anche se non c'era la "certezza" che fossero dannose? Non sarebbe meglio essere più cauti prima di utilizzare organi, tessuti, cellule di animali e piante in sostituzione di quelli umani visto che non è escluso - così almeno sostiene J. Harper nel libro The River pubblicato nei Penguin Books - che l'Aids umano abbia avuto origine dall'uso del plasma di gorilla? E, per venire agli Ogm, perché ignorare che l'uso esteso di piante transgeniche resistenti ai pesticidi e agli erbicidi potrebbe creare - così almeno sostengono alcuni scienziati che non condividono l'ottimismo di prammatica fra i loro colleghi - nuovi ceppi resistenti sia di "supererbe infestanti" che di "superinsetti"? Si obietta, da parte dei sostenitori delle ragioni degli scienziati, che se si dà retta al principio di precauzione, si paralizza tutto. Ma, ancora una volta, l'argomento è capzioso. Chi cerca trova, dice il detto popolare. Ma se non si cerca non si trova. Se non si fa ricerca sui rischi possibili (e non solo sugli effetti immediati e diretti) delle biotecnologie non si potrà mai sapere se la precauzione diventa ossessione maniacale o è invece saggia prudenza. Ma questa ricerca non si fa. Come si fa a ignorare che soltanto l'uno per cento dei fondi destinati dal Dipartimento americano all'agricoltura alla ricerca biotecnologica viene stanziato per l'accertamento dei rischi? E dei progetti italiani che sarebbero stati bloccati dal ministero compromettendo, si dice, il futuro della ricerca biotecnologica nel nostro paese, quanti sono quelli che studiano i rischi possibili? Non ho la competenza per rispondere a questa domanda, ma dubito molto che siano la maggioranza. E se questo mio dubbio fosse confermato, non sarebbe più utile, per il nostro paese e per l'Europa, imboccare questa strada invece di correre dietro agli Stati Uniti col fiato corto? E qui veniamo al nocciolo della questione. Scriveva non molto tempo fa Giorgio Bocca, che di tutto si può accusare tranne che di simpatie per gli ecologisti: "Qual'è la logica, quali sono i principi del sistema tecnoscientifico? Di creare problemi che esso solo è in grado di risolvere, e se non li risolve di nasconderli con false promesse. Questo deve essere un periodo in cui la impotenza del sistema deve essere più sentita, perché le false promesse e le false informazioni ci piovono addosso, fittissime." E concludeva: "[tutto questo] rafforza l'idea che uno dei principi fondamentali del sistema sia quello di attenersi a ciò che rende e di trascurare ciò che non dà guadagni". "Attenersi a ciò che rende" è dunque la parola d'ordine che, nonostante le buone intenzioni degli scienziati più disinteressati, fa girare il mondo delle tecnoscienze, cioè il mondo della ricerca. Rivendicare l'autonomia della ricerca dalla politica è perciò un obiettivo illusorio, perché la ricerca è immersa fino al collo nel tessuto sociale e dipende sempre più dalle forze che lo plasmano e dalle tensioni che lo attraversano. C'è piuttosto un'altra via per rendere più libera la ricerca: renderla pubblica tagliando il cordone ombelicale che la lega al processo di accumulazione del capitale globale. Perché, per esempio il mondo della ricerca non dà l'esempio battendosi per vietare la brevettabilità degli organismi viventi e delle loro modificazioni? Non è la ricerca in sé che impone di "attenersi a ciò che rende e di trascurare ciò che non dà guadagni" ma il brevetto. Se non si capisce che è il brevetto a colmare l'abisso naturale che separa la materia inerte da quella vivente, si continuerà a discutere a vanvera sul lecito e sull'illecito, e nessuno potrà fermare la valanga. Ammettere la brevettabilità dei risultati delle manipolazioni genetiche significa essere d'accordo con il responsabile del trasferimento delle tecnologie presso il Dna Plant Technology di Oakland, in California, che dice: "il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti". Quanti scienziati sono disposti ad ammettere di non essere niente di più che un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti?