IL MANIFESTO, 28 agosto 2001 Vite a rischio nell'era dei brevetti A rigor di logica L'ideale di una conoscenza libera da condizionamenti, porta con sé una inevitabile battaglia contro i brevetti sugli organismi viventi MARCELLO CINI --------------- Perché ce l'hanno tanto con gli ambientalisti? Con questa domanda concludevo l'articolo precedente - comparso su queste pagine il 25 agosto - suggerendo come il principio di precauzione, contro il quale si scagliano gli "scienziati", sia un falso obiettivo per distogliere l'attenzione dal vero nodo della questione, che - come cercherò di argomentare - è un altro. Vediamo meglio di che si tratta. La base concettuale del principio di precauzione è il fatto innegabile che siamo passati dalla società delle certezze alla società dell'incertezza. Viviamo ormai nella "società del rischio" (il testo già classico di Ulrich Beck con questo titolo risale alla metà degli anni '80). Chiunque segua anche superficialmente la sterminata letteratura sui temi della globalizzazione dell'economia, dell'individualizzazione del lavoro, della crisi delle tradizioni e della fine della natura come realtà esterna indipendente dalle azioni umane (dallo stesso Beck a Giddens e a Bauman, da Wallerstein a Reich, da Lash a Sennett) sa che stiamo vivendo una transizione epocale della cultura della modernità. Siamo passati da una fase nella quale era diffusa l'aspettativa che la crescita della conoscenza della realtà sociale e naturale avrebbe permesso di intervenire su di essa sempre più efficacemente e razionalmente in modo mirato e controllato, a una fase in cui la proliferazione di questi interventi è a sua volta origine di imprevedibilità e di insicurezza. Un aspetto centrale di questo passaggio è la diffusione a livello di massa della coscienza "che sono mutate - scrive Giddens - le cause e la portata del rischio." La differenza rispetto al passato, è che "il rischio prodotto è il risultato dell'intervento umano nelle circostanze della vita sociale e nella natura." Detto questo diventa chiaro che non sono gli ambientalisti cattivi che mettono (per pregiudizi ideologici o per loschi interessi) i bastoni fra le ruote agli scienziati chiedendo certezze che essi non possono dare. E' che gli scienziati chiudono gli occhi di fronte ai compiti che devono assolvere e alle responsabilità che si devono assumere nella società del rischio, credendo di vivere ancora nella società delle certezze. Che altro fa, del resto, Tullio Regge quando dice "il mondo scientifico deve attenersi ai fatti ed esporli, ma sono i politici a decidere" se non proclamare che solo i "fatti" accertati dagli scienziati sono la base per prendere le decisioni? Ma i "fatti" non sono neutri, perché, per definizione, i "fatti" che condizionano nel bene e nel male la vita delle persone diventano carichi di "valori". E lo diventano ancor di più quando condizionano in modo diverso la vita di persone diverse. Questo implica che, alle scelte dei problemi da affrontare, delle nuove direzioni da esplorare e soprattutto delle azioni da intraprendere, dovrebbero concorrere in modo esplicito e trasparente oltre agli scienziati con i loro dati, ai politici con le loro ideologie, alle imprese con i loro interessi, anche i soggetti sociali che di queste scelte dovranno subire le conseguenze, con la loro concretezza materiale, che esprime bisogni, condizioni di vita e aspettative per il futuro. Da questo punto di vista il principio di precauzione può assumere una formulazione meno generica e più incisiva. "In una società - spiega infatti Beck - che dibatte sulle conseguenze dello sviluppo tecnico ed economico, prima che le decisioni fondamentali siano prese, l'onere della prova per i futuri rischi e pericoli spetterebbe a quelli che li provocano e non più a quelli che sono danneggiati e messi in pericolo potenzialmente e di fatto". E' una proposta importante. L'adozione del principio dell'inversione dell'onere della prova potrebbe evitare, infatti, un uso eccessivo e al limite paralizzante del principio di precauzione, lasciando agli innovatori il compito di documentare fino a che punto, e nei confronti di chi, le loro proposte non produrrebbero danni. Il passaggio al principio dell'inversione dell'onere della prova potrebbe presentare dunque vantaggi sia per chi propone l'immissione sul mercato di un nuovo prodotto sia per chi si trovi a doverne subire le conseguenze dirette o indirette. Il primo infatti saprebbe quali oneri, anche economici deve mettere in conto. I secondi si troverebbero ad essere tutelati meglio nei loro diritti. Dubito molto, tuttavia, che le multinazionali dell'alimentazione, dell'energia e dei farmaci ci stiano. E' molto più facile e meno oneroso continuare a fare il proprio comodo, magari accusando gli ambientalisti di provocare disastri. Il problema, in ogni caso, è quello del controllo. Chi lo esercita e in che modo? Qui si incontra il vero nodo della questione. Che consiste nel riconoscere come nella società del capitale globale i "fatti" degli scienziati assumano direttamente valore economico. E dunque come gli scienziati, inevitabilmente, vengano ad assumere in essa ruoli diversi. Ci sono ancora, non c'è dubbio, scienziati che nella loro classica torre d'avorio scrutano la natura con la testa fra le nuvole per carpirne disinteressatamente i segreti, ma sono sempre di meno. Appartengono ormai a una specie in via di estinzione, come il panda. La maggior parte, invece, si trova in qualche modo coinvolta in problemi di denaro. Prima questione: le ricerche costano, e costeranno sempre di più. Chi le paga, e a che scopo? Seconda questione: i brevetti. Cosa si può brevettare? Chi intasca le royalties? Quando si parla di soldi, in genere, gli scienziati si innervosiscono, quasi che si mettesse in dubbio la loro integrità morale oltre che la loro correttezza professionale. E' come se fosse un argomento sconveniente. Ma possiamo ben dire che c'è (o dovrebbe esserci) una differenza fra i ricercatori dipendenti o i consulenti di imprese private legati al segreto industriale e gli operatori degli enti pubblici di ricerca che dovrebbero rispondere dei loro programmi alla collettività che li finanzia, o per lo meno concordare con i suoi rappresentanti le scale di priorità da rispettare. Chi può negare che i primi hanno come dovere contrattuale quello di massimizzare i dividendi dei propri azionisti e i secondi, come minimo, dovrebbero attenersi alle norme deontologiche mertoniane dell'universalismo e del comunitarismo? Come si fa a metterli insieme, in una categoria ideale al disopra delle parti come se fossimo ancora tutti nei panni dei fondatori della Royal Society? Nel suo articolo su Le Scienze Regge mi accusa di "aprire le porte ai ciarlatani" mettendo in discussione "il meccanismo attuale di controllo". Ma di quale controllo parla? Chi controlla chi? L'unico controllo efficace sarebbe quello di istituire albi professionali separati per le due categorie. Ognuno è libero di stare da una parte o dall'altra, ma deve dirlo. Non è una proposta stravagante. Tutti si scandalizzerebbero se nei processi penali, invece di tenere ben distinti i ruoli dell'avvocato e del pubblico ministero che presentano i loro "fatti" di fronte a un giudice terzo, le stesse persone pretendessero di scambiarsi a piacimento le parti visto che tanto sono tutti uomini di legge, e di mettersi d'accordo tra loro comunicando il risultato agli interessati a cose fatte. Forse sarebbe il caso di riconoscere che le controversie in cui ormai si mescolano tassi di inquinamento e quotazioni di borsa, danni alla salute e consulenze miliardarie, posti di lavoro e possibili catastrofi debbono essere trattate con garanzie istituzionali un po' più certe e trasparenti di quella che deriva dalla fiducia che - come ci dice Regge - "la scienza non è infallibile, ma, perlomeno, ammette i propri errori, li denuncia e li analizza apertamente". Ultimo anello, ma non in ordine di importanza, della catena che lega la scienza alla società del capitale globale è il brevetto. Le argomentazioni che gli "scienziati" usano per giustificare, anzi per raccomandare la brevettazione di ogni prodotto da immettere sul mercato ottenuto utilizzando i risultati della ricerca condividono l'ideologia di William Tucker, un oscuro ma efficace biotecnologo di Oakland secondo il quale "il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti." E' una affermazione discutibile sotto molti punti di vista. Ma qui mi limito a un paio di osservazioni. La prima è di carattere storico. Come è noto, infatti, fino alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1980, che ha concesso il primo brevetto su di un batterio geneticamente modificato, la materia vivente non poteva essere brevettata. Non solo. Si potevano brevettare solo le invenzioni (il risultato dell'ingegno), ma non le scoperte (ciò che esiste in natura). Nemmeno gli elementi transuranici (il plutonio ne è il più noto) che pure non esistono stabili in natura, sono mai stati brevettati, poiché sono comunque trasformazioni artificialmente indotte in elementi naturali. A maggior ragione la regola dovrebbe valere per gli organismi geneticamente modificati, dato che si tratta sempre, di modificazioni artificiali di organismi naturali. Il capovolgimento di questa regola è dunque soltanto uno dei tanti fatti compiuti che hanno segnato l'espansione del capitalismo a partire dalla sua nascita, nell'Inghilterra del '600, quando, con la recinzione delle terre comunali, alcuni privati intraprendenti si appropriarono di quello che prima apparteneva alla comunità. La seconda osservazione riguarda la natura della barriera che separa la materia inerte dalla materia vivente. Sorvolo su quella etica, anche se fondamentale, perché esula dal nostro discorso. Ma mi soffermo brevemente sui suoi aspetti epistemologici e ontologici. La logica che sta dietro alla interpretazione delle proprietà della materia inerte è riduttiva: dalla conoscenza dei componenti elementari e delle loro interazioni si risale alle proprietà del sistema. Quella che occorre adottare per spiegare le proprietà della materia vivente è una logica evolutiva: essa si basa sul riconoscimento dei due momenti indipendenti e complementari che ne sono all'origine: quello della generazione aleatoria della diversità a livello genotipico e quello della selezione da parte dei vincoli (esterni ed interni al sistema) a livello fenotipico. Questo implica che l'adozione di un criterio riduzionista (per esempio la credenza ancora diffusissima nella validità della formula "un gene=un carattere") per la progettazione del vivente può condurre a errori macroscopici e gravissimi. Dal punto di vista ontologico poi, la barriera stabilisce una differenza fondamentale tra i due mondi: l'assenza o la presenza di autonomia. Una volta fabbricati gli artefatti biologici sono autonomi: prevederne il futuro diventa problematico e riacchiapparli una volta che se ne sono andati in giro per il mondo addirittura impossibile. C'è dunque una contraddizione clamorosa nelle tesi degli scienziati, i quali da un lato sostengono, con Robert Merton, che la scienza, per raggiungere una conoscenza oggettiva deve essere disinteressata e libera da ogni condizionamento, ma dall'altra sono incondizionatamente a favore del condizionamento della ricerca da parte del mercato. A rigor di logica, se fossero coerenti con la loro premessa, che è al tempo stesso epistemologica e deontologica, essi dovrebbero aderire alla campagna degli ambientalisti per l'abolizione della brevettabilità degli organismi viventi. Invece, non solo non lo fanno, ma, considerano dannoso questo obiettivo. Nel suo articolo già citato, Regge mi accusa addirittura di fare l'interesse delle multinazionali riproponendolo. Al contrario, la parola d'ordine "La vita non si brevetta" non va liquidata come "utopistica", nonostante che essa sia, evidentemente, lontana e difficile da realizzare: è infatti l'unico modo per ristabilire la fondamentale differenza fra il mondo delle merci materiali, sottoposto alle leggi del mercato, e il mondo della conoscenza che potrebbe essere fruibile da tutti senza che l'individuo singolo ne venga privato.