Il Sole 24 Ore, Domenica 26 Novembre 2000 - scienza e filosofia

La storia veritiera, e tutt’altro che trionfalistica, di uno dei più
straordinari esperimenti biologici - Il diario dell’uomo che creò Dolly

di Sylvie Coyaud

La pecora Dolly ha 4 anni, 6 figli fatti all’antica e un paio di
biografie, però The Second Creation resterà attuale e utile finché si
discuterà della liceità di fare ricerca con cellule prelevate da
embrioni. Il libro è scritto a volte da Wilmut e Campbell insieme, a
volte un capitolo per uno, e Colin Tudge, uno scrittore di
divulgazione, cuce il tutto con pezze descrittive e raccordi
cronologici. Bill Richtie l’altro protagonista, non interviene ma è
molto citato.
Prima è riassunta la carriera dei due ricercatori, genetica
veterinaria senza lustro per Wilmut che, finiti i fondi per una
ricerca, si ritrova a fare un tedioso screening di embrioni animali.
Un girovagare da capellone per Campbell, tecnico di laboratorio nello
Yemen poi di nuovo in Inghilterra con borse effimere da un’università
all’altra. Leggendo lavori altrui, gli viene l’idea di far tornare
indietro nel tempo i geni nel nucleo di una cellula specializzata di
mammifero, di renderle di nuovo capaci di sviluppare cellule per i
diversi tessuti dell’organismo, quasi fossero ancora ai primissimi
giorni della divisione all’interno della membrana dell’ovulo
fecondato.
Poi c’è il lavoro di ingegneria genetica per ottenere pecore che nel
latte producano farmaci (il pharming, una crasi di pharmaceutics e
farming, allevamento) e una spiegazione dei procedimenti successivi
per ottenere Dolly, con una clonazione solo genomica visto che le due
cellule iniziali provengono da individui diversi. Un lavoro che
riprende le pratiche e le idee dei predecessori sullo sviluppo delle
cellule embrionali e dei metodi con i quali hanno tentato di
verificare la teoria su vari tipi di animali Spemann e Roux, Briggs e
King, e Gurdon che finalmente riesce a clonare delle rane.
Dolly è dovuta alla disperazione: non è clonare che interessa il
Roslin Institute e l’azienda che in parte lo finanzia, la Ppl, è il
pharming. Wilmut, Campbell e gli altri devono spicciarsi. Sono a
malapena tollerati, chissà se i soldi basteranno, e quindi tanto vale
usare cellule di mammella adulta, invece che embrionali, costano meno
e ce ne sono tante. La Ppl vuol depositare dei brevetti, i
ricercatori non possono parlare di quello che stanno facendo davanti
al distributore di bibite con i colleghi, questi si offendono, loro
sono frustrati, e il clima si fa sempre più teso. La percentuale di
fallimenti è enorme, ripetono con insistenza i due autori, smentendo
«l’era del controllo biologico» nel sottotitolo del libro: più di
trecento scarti per ogni embrione abbastanza vitale da essere
impiantato; dai quaranta impiantati nell’utero delle pecore
portatrici nasce solo Dolly. È costata anni di fatiche e un miliardo
e mezzo di lire e nel latte non produce nemmeno un farmaco vendibile.
Poco prima che esca l’articolo su «Nature» quindi, la direzione della
Ppl informa che non ci saranno altri fondi per riprovarci. I mass
media, incantati dalla pecora pronta a sgambettare verso l’obiettivo
per una manciata di crocchette, non vogliono sapere che è l’unica
sopravvissuta di una serie di morti e di mostri. Dalla comunità
scientifica, incredula e seccata dal battage, arrivano i sospetti
quasi insultanti di Zimmer e Sgaramella, poi smentiti da due gruppi
d’indagine indipendenti, su un punto che gli autori stessi
segnalavano nell’articolo di «Nature».
Wilmut è vanitoso, dice, prende gusto a intervenire in pubblico,
davanti alla cinepresa è affabile quanto Dolly. Campbell invece se la
dà a gambe. Nella riflessione finale sugli sviluppi e sulle terapie
che Dolly promette e sui loro aspetti etici, entrambi si dichiarano
contrari alla clonazione di esseri umani. Per i troppi cadaveri, per
la troppa macelleria necessaria a una nascita, e perché deluderà le
aspettative.
Colpisce che due ricercatori diventati famosi facciano un quadro
negativo della ricerca biotech legata ai mercati finanziari. In una
postilla, Colin Tudge allude al fatto che Campbell e Wilmut lavorano
oggi in luoghi diversi ma su ricerche simili e sono rivali nella gara
alla brevettazione; quindi non si parlano più. Ma colpisce ancora di
più quanto poco si sa di certi meccanismi fondamentali. Quelli che si
vanno scoprendo sorprenderanno parecchio i lettori. Per esempio, i
veri cloni non si somigliano. Nell’inserto fotografico, oltre a Dolly
in posa che ricorda Elisabetta II nei ritratti ufficiali, si vedono
Tweed e Taffy, due dei quattro arieti ottenuti con cellule fetali di
uno stesso embrione creato in vitro, geneticamente identici. Uno ha
le corna che crescono in avanti ben staccate dal cranio, a manici di
cesta; e l’altro, all’indietro e così strette al cranio da dargli
un’aria impomatata da Rodolfo Valentino. Uno ha le zampe anteriori
dritte e grassottelle e l’altro le ha storte e ossute. Su un muso c’è
una macchia bianca e sull’altro no. Al Roslin dicono che sono diversi
anche per carattere: Cedric e Cyril caricano i fotografi se usano il
flash, Tweed e Taffy no. Non solo influisce sui geni l’«ambiente
materno», diverso per ogni pecora portatrice, ma — «come troppi
biologi ignorano», scrive Campbell — prima che l’ovulo fecondato
interagisca con l’ambiente materno, durante la divisione iniziale in
2, 4, 8 cellule, i geni si rimescolano e sebbene dal processo i
cromosomi escano interi e debitamente appaiati, non sono uguali.
Perché, non si sa. Non si sa perché le cellule si diversifichino, che
cosa ne smorzi almeno temporaneamente la totipotenza in pluripotenza
o multipotenza — la capacità di replicarsi e insieme di modificarsi —
o spenga certi geni per sempre. Non si sa come avvenga il fenomeno
che ha fatto scattare la scintilla in Campbell. Nel tumore del fegato
per esempio non proliferano soltanto cellule "impazzite" di fegato,
si trova di tutto: cellule di unghia, capello, cartilagine, osso. Il
libro è pieno di informazioni simili che smentiscono i manuali. Se i
biologi sanno così poco, è facile capire che facciano pressione sui
governi per poter lavorare sulle cellule embrionali o staminali, per
saggiarne la totipotenza, pluripotenza e multipotenza, non solo per
sete di fama e di soldi, che qui sembrano avvelenare la vita di
tutti.
Anche se la scrittura è modesta, The Second Creation è eccezionale
nella saggistica divulgativa attuale, così smaliziata: trasuda
autenticità. Riferisce quello che accade in laboratorio con la stessa
schiettezza di Jim Watson nella Doppia elica (Garzanti). Ma è meno
trionfale. Wilmut e Campbell devono fare i conti con l’industria e la
finanza e non ci sono preparati, si sono formati nell’epoca in cui
avere rapporti con il business era mal visto. Hanno nostalgia del
distributore di bibite davanti al quale tutti si parlavano.
Ian Wilmut, Keith Campbell e Colin Tudge, «The Second Creation. The
age of biological control, by the scientists who cloned Dolly»,
Headlines Press, Londra, Farrar, Strauss and Giroux, New York, pagg.
362, s.i.p.