La Repubblica, 1 aprile 2001
No alla clonazione umana, ma non fermiamo la ricerca di STEFANO RODOTA' --------------------------------------------------------------------- Continua, questa volta davanti al Congresso degli Stati Uniti, la discussione infinita sulla clonazione. Da quando sulla scena del mondo è comparsa la pecora Dolly, prova indiscutibile della possibilità di riprodurre un essere vivente, la clonazione è stata via via presentata come emblema del male assoluto o della libertà della scienza, come espressione inaccettabile della volontà di «giocare ad essere Dio» o come ampliamento legittimo delle nostre possibilità di scelta. Si presenta come una sfida estrema, continuamente rilanciata da veri e falsi ricercatori vogliosi di notorietà, da cacciatori di fondi, da rappresentanti di improbabili religioni. La vicenda della clonazione, proprio perché estrema, diventa esemplare. Segna l'abbandono della riproduzione sessuale, mette in discussione l'unicità della persona, dà corpo alle fantasia sulla "serializzazione" degli esseri umani, annuncia la superfluità del maschio. Difficile mettere ordine in questo groviglio di annunci, emozioni, problemi. Così, in un'ansia di semplificazione, si invoca una regola giuridica di divieto, della quale ha appena parlato anche il nuovo presidente degli Stati Uniti. Ma al diritto si chiede la ricostituzione d'un ordine turbato, non soltanto una regola. È questa la via giusta? Partiamo dalla situazione italiana, dove il vero fatto nuovo non è l'annuncio dell'imminente clonazione di un essere umano, ma la ratifica della Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina, che il Parlamento ha votato poco prima della chiusura dei suoi lavori. La Convenzione, infatti, è accompagnata da un Protocollo che, all'articolo 1, vieta appunto «ogni intervento volto a creare un essere umano geneticamente identico ad un altro essere umano, vivo o morto». Il divieto della clonazione, dunque, è ormai legge dello Stato italiano. Questo è un orientamento comune ai più diversi paesi, e che ha trovato espressione anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, firmata nel dicembre scorso a Nizza, nella quale è stato inserito un esplicito «divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani» (articolo 3). Si tratta di una norma approvata con qualche contrasto, poiché alcuni, per la pressione anche di ambienti cattolici, volevano che il divieto riguardasse la clonazione in quanto tale, e non solo la clonazione riproduttiva umana. Se questo fosse avvenuto, l'effetto sarebbe stato paradossale, e aberrante, perché avrebbe portato alla messa al bando di una tecnica comunemente adoperata nel mondo animale e vegetale, ed alla quale già si ricorre per cellule e tessuti umani, precludendo inoltre ogni possibilità di ricerca in materie di straordinaria importanza. Ma la proposta di bandire ogni forma di clonazione è emblematica. Dimostra come le discussioni sulla clonazione, anche in ambienti che si dovrebbero ritenere informati, siano ancora inquinate da approssimazioni e fumi ideologici, che spesso rendono difficili riflessioni serie, lontane da strumentalizzazioni propagandistiche come da rifiuti immotivati. La clonazione non è il diavolo. Nel rapporto esplicativo che accompagna il ricordato Protocollo si afferma esplicitamente la legittimità della «clonazione in quanto tecnica biomedica», importante per lo sviluppo della medicina. La conclusione è netta: «Le disposizioni del presente protocollo non devono essere interpretate come divieto delle tecniche della clonazione in biologia cellulare» (Rapporto esplicativo, n. 4). Il divieto della clonazione riproduttiva umana, quindi, non può essere invocato per impedire il ricorso a questa tecnica in altri settori di ricerca, come quello delle cellule staminali. Convenzione sulla biomedicina e Carta dei diritti fondamentali obbligano tutti, e non solo gli specialisti, ad abbandonare luoghi comuni e analisi ad orecchio. Ribadito e solennemente ufficializzato il divieto della clonazione degli esseri umani, è venuto il momento di liberarci da un modo di intendere il termine clonazione che, caricato di apprensioni e significati negativi, cerca di estendere biasimo e divieti anche a casi diversi dall'unico al quale il divieto può essere legittimamente riferito. Questo vuol dire che è pure venuto il momento di revocare un'ordinanza a suo tempo emessa dal ministro della Sanità Rosy Bindi, e recentemente rinnovata dal ministro Veronesi, che vieta appunto ogni forma di clonazione. Quell'ordinanza era fin dall'origine una risposta sbagliata ad una preoccupazione legittima. Lo è ancora di più oggi, perché l'avvenuta ratifica della Convenzione europea sulla biomedicina e del Protocollo hanno fugato ogni timore legato a possibili interventi di clonazione riproduttiva umana, e vi è quindi il rischio che divieti indiscriminati rafforzino atteggiamenti antiscientifici. L'ordinanza, inoltre, era e rimane uno strumento improprio, inidoneo a regolare questa materia, come ha rilevato la magistratura ordinando il dissequestro del toro Galileo (attenti al nome!), creato per clonazione in violazione di quanto prescritto dall'ordinanza, e per questo sottoposto a un provvedimento di sequestro. Definito in modo più preciso il campo della discussione, è comprensibile che la critica agli annunciati interventi di clonazione umana si sia ora concentrata sui rischi concreti legati a questi interventi, e non si limiti al solo esame di generali questioni di principio. Proprio ricordando l'esperienza della pecora Dolly, si è ripetutamente sottolineato come quell'esperimento sia riuscito dopo 277 tentativi e che numerosi animali clonati presentino poi, tra l'altro, problemi di sviluppo, malformazioni. Può considerarsi eticamente ammissibile e scientificamente accettabile l'avvio sull'uomo di interventi caratterizzati da rischi tanto elevati? Uno dei "padri" di Dolly, Ian Wilmut, ha scritto: «È già terribile veder nascere un animale malformato. Come si può pensare di mettersi nella situazione di produrre un bambino malformato»? Questi argomenti, oggi, appaiono decisivi. Ma quale dovrebbe diventare l'atteggiamento verso la clonazione il giorno in cui le difficoltà tecniche fossero superate? Ha giustamente osservato l'Economist che le preoccupazioni degli scienziati riguardano non tanto il fine ultimo, la clonazione di un essere umano, quanto piuttosto la pericolosità attuale delle tecniche disponibili. Per rispondere all'interrogativo radicale - clonare o non clonare gli esseri umani - l'attenzione dev'essere di nuovo rivolta, quindi, alle questioni di principio con le quali ci cimentiamo da anni. Ma, per discuterne, non possiamo ripetere meccanicamente gli argomenti del passato. Faccio un solo esempio. Per contestare la legittimità etica della clonazione, si è detto che essa, producendo copie di esseri umani già esistenti, viola l'unicità della persona. Ma proprio gli ultimi dati ci dicono che i geni del nostro genoma sono meno di quanto previsto, intorno a 30.000. Questa constatazione rafforza l'argomento, peraltro ben noto, che mette in evidenza come la nostra unicità non dipenda dal solo corredo genetico, ma sia il risultato di una complessa interazione tra geni, proteine e ambiente. Proprio la prevalenza della biografia sulla biologia costituisce e garantisce l'unicità della persona. E proprio il rapporto tra individuo e ambiente impedisce di ipotizzare una perenne dipendenza tra il modello e il suo clone, che costruisce la sua unicità in forme tali da differenziarlo dall'individuo dal quale deriva. Così ridimensionato l'argomento dell'unicità, altre questioni dovrebbero essere affrontate, in primo luogo quelle riguardanti il modo in cui l'individuo clonato percepisce se stesso ed è percepito dalla società, nella prospettiva della libera costruzione della personalità, che costituisce un diritto fondamentale di ogni persona. Ma, rassicurati per il momento dal divieto legislativo della clonazione riproduttiva umana, possiamo proseguire la discussione senza essere prigionieri di fantasmi o di mediocri operazioni pubblicitarie.