Il Manifesto, 8 maggio 2001
Quando la scienza si arrabbia
"Ingegneria genetica. Scienza e business delle biotecnologie", un
saggio provocatorio di Mae Wan Ho, biochimica di origine malese, per DeriveApprodi
YURIJ CASTELFRANCHI
Negli anni del Manifesto di rivolta femminile, con onestà e
lungimiranza straordinaria, Carla Lonzi diceva dei suoi testi: "Il rischio di questi
scritti è che vengano presi come punti fermi teorici, mentre riflettono solo un modo
iniziale per me di uscire allo scoperto, quello in cui prevaleva lo sdegno". E
davvero è così: l'indignazione incita alla rivolta, a cercare nuove strade, stimola la
decostruzione dei paradigmi. Arrabbiarsi è utile, epistemologicamente ed euristicamente.
Ma deve fungere da spinta evolutiva, non da seme attorno a cui cristallizzare le idee e la
rabbia.
Qualcosa di simile accade oggi nell'accaloramento mediatico che viviamo attorno al tema
delle biotecnologie. Immaginate Isaac Newton sotto l'albero. Immaginate la mela
precipitargli in testa. Immaginate se lui, infuriato, abbattesse la pianta e si
allontanasse imprecando. Ora guardate al mondo accademico italiano. Di fronte a un evento
degno di nota come la forte opposizione europea alle biotecnologie (una pigna sulla
testa), alcuni non reagiscono con quella curiosità intellettuale e quell'umiltà
metodologica che lo scienziato vanta di avere di fronte al fenomeno. Al contrario, si
indignano e si infuriano. Si sentono ingiustamente colpiti. Non vedono riconosciuto il
proprio ruolo di operai del progresso. La gente è ignorante e paurosa - decidono -
irrazionale, odia la scienza senza capirne l'importanza. L'Europa rischia il ritardo nella
corsa alla tecnoscienza - aggiungono - e, di qui, il baratro. Ecco allora, su quotidiani,
riviste e tubi catodici, un agitarsi di biologi, medici, fisici illustri che si esibiscono
in editoriali e feuilleton che trasudano paternalismo, snobismo, vittimismo
rancoroso. Incapaci di superare il momento dell'indignazione per passare a quello
dell'elaborazione teorica su cosa stia accadendo, sequestrati dalla propria rabbia,
emettono considerazioni poco utili sull'indegnità morale del sistema mediatico o sullo
stato deplorevole dell'alfabetizzazione scientifica degli italiani.
Naturalmente, lo stesso accade sull'altro fronte: alcuni fra gli oppositori del biotech,
alla complessità di un discorso in cui non possono non intrecciarsi politica, etica,
economia, preferiscono il tepore piacevole e lineare della rabbia, oppure la retorica all
purpose, da supermercato, della New Age (la Natura è sacra, violare
"l'ordine" porta all'Apocalisse, ritrovare equilibri antichi, viceversa, alla
pace universale dell'Era dell'Acquario). Entrambi gli approcci sono vittime di un
semplicismo pericoloso e di un autoritarismo più o meno inconsapevole.
Per questo diverte e impressiona il libro di Mae Wan Ho, Ingegneria genetica - Scienza e
business delle biotecnologie (pp. 352, L. . 40.000), edito da DeriveApprodi (che sta
mettendo su un catalogo agguerrito e coraggioso). Sabina Morandi nell'introduzione parla
di "quel misto di pragmatismo scientifico e utopismo visionario, così raro dalle
nostre parti che è la caratteristica più affascinante del libro" e della
"inverosimile ambizione di tenere insieme una gran quantità di approcci e di livelli
di analisi". Ed è proprio così. Mae Wan Ho è una biochimica e genetista di origine
malese, laureata a Hong Kong ma per anni attiva negli Usa e in Gran Bretagna. Indignata
anche lei, ma in direzione opposta a quella della maggior parte dei suoi colleghi, sceglie
di sferrare un attacco spudoratamente ideologico alle biotecnologie, e più radicale di
quello che molti ambientalisti oserebbero fare. Il risultato è un libro provocatorio,
scandaloso (il titolo originale, meno timido di quello italiano, Genetic Engineering:
Dream or Nightmare?, rende un po' meglio l'idea della virulenza polemica del testo).
Il libro non si limita a sottolineare il rischio ecologico connesso alle coltivazioni
transgeniche, né l'impatto economico sui paesi in via di sviluppo, ma pretende di mettere
in discussione la biotecnologia in quanto scienza, criticare i fondamenti teorici della
biologia contemporanea e abbattere la distinzione indiscussa fra la ricerca pura
(neutrale, libera, inviolabile) e le sue applicazioni tecnologiche (da sottoporre invece
al controllo sociale).
In una serie di capitoli ben documentati, Ho spiega e arricchisce le argomentazioni ormai
note contro il mercato genetico dominato dalle multinazionali. Evidenzia (troppo, come
diremo poi) i rischi ambientali, sociali, sanitari. Parla di allergie e di resistenza agli
antibiotici, di impatto ecologico e di biodiversità, di brevetti e bioprateria, di
xenotrapianti, terapia genica e clonazione. Sottolinea la produttività crescente e
straordinaria (confermata da una ricerca recente pubblicata sulla rivista internazionale Nature)
delle coltivazioni ecologicamente sostenibili, e mostra come le tecnologie industriali che
si affermano non sono necessariamente le migliori per la società, ma diventano le
migliori perché si impongono come uniche: "Il dipartimento per l'agricoltura
statunitense ha stanziato meno di 5 milioni di dollari alla ricerca sullo sviluppo
sostenibile, e 90 milioni per l'ingegneria genetica [...] La biotecnologia scavalca e
marginalizza tutti gli approcci alternativi che affrontano le cause sociali e ambientali
della malnutrizione e della malattia". Ho, come hanno già fatto altri, demolisce il
mito della necessità delle piante transgeniche come soluzione al problema della fame. Non
si combatte la fame producendo di più: le biotecnologie (e gli altri modi industriali,
proprietari, capitalisti) di super-produrre beni non solo non risolvono il problema, ma
"finiscono per rinforzare le strutture stesse che creano i danni ecologici e la
fame".
Ma la caratteristica nuova del libro è l'approccio epistemologico. Ho non si accontenta
di attaccare il mercato e le multinazionali del biotech. Pretende di decostruire anche il
paradigma scientifico che anima la biologia contemporanea. L'ingegneria genetica, dice, si
basa sull'assunto che gli organismi siano determinati dai geni, i quali funzionano come
una sorta di interruttori che accendono e spengono determinate funzioni. Tale riduzionismo
genetico ha radici nel matrimonio fra genetica mendeliana e darwinismo, il quale a sua
volta è "un prodotto del clima socioeconomico e politico dell'Inghilterra del XIX
secolo" epoca in cui "la classe dominante credeva fermamente nel progresso
ottenuto attraverso la competizione nel libero mercato". A partire dagli anni 70 si
è visto invece che i geni operano in una rete complessa: un gene può regolare più di
una funzione, una funzione può essere regolata da più geni. Il genoma non è immutabile
ma dinamico e fluido. E l'ambiente ne influenza profondamente il funzionamento: in certi
casi c'è persino una ereditarietà dei caratteri acquisiti durante la vita. I batteri, ma
anche alcuni organismi superiori, possono modificare il proprio Dna in maniera da
rispondere alle sfide ambientali. Di conseguenza, dice Ho, l'idea di base su cui si fonda
l'ingegneria genetica (modificare o inserire un gene per ottenere o modificare una certa
funzione) è irrimediabilmente, e pericolosamente, destinata al fallimento. La biologa si
scaglia persino contro le analisi genetiche e la terapia genica: "la ricerca sulle
predisposizioni genetiche non solo sottrae le risorse pubbliche alle reali cause del
disagio sociale, ma è estremamente pericolosa a causa dell'ideologia
genetico-determinista che la motiva [...] gli unici che traggono beneficio dai test
genetici sono quelli che li vendono".
Infine Ho, in maniera tanto ideologica quanto spericolata, mette in discussione un assunto
sacro agli scienziati. Quello della libertà della ricerca (che ad esempio ha animato la
recente marcia degli scienziati italiani). "Non possiamo rinunciare alla
scienza", dice. Ma aggiunge: "la scienza è imbevuta di valori morali fin
dall'inizio, e non può esserne disgiunta. E' solo la cattiva scienza che si proclama
"neutrale" [...] Non ha senso istituire dei comitati etici che non mettano in
discussione i presupposti scientifici di base che guidano l'ingegneria genetica".
Secondo Mae Wan Ho non è vero che la spinta naturale verso il progresso della scienza si
sottrae a ogni possibile rimprovero: non sono solo le applicazioni della scienza a
poter essere giudicate, ma persino la ricerca stessa. Posizione radicale (e
certamente inquietante per uno scienziato): "la scienza è fallibile e negoziabile:
possiamo quindi scegliere cosa fare e cosa non fare".
Questa vis polemica stupefacente e incosciente è il pregio e la novità del libro,
ma è anche una lama a doppio taglio. L'indignazione espone gli scritti di Mae Wan Ho a
due grandi rischi. Il primo è quello di cui parlava Carla Lonzi. Ribellarsi è naturale,
di fronte all'arroganza ottusa di alcuni biotecnologi-manager, alle violazioni palesi del
diritto e dell'etica compiute dalle multinazionali. E' anche naturale preoccuparsi degli
effetti di una ricerca tecnoscientifica dominata dall'imperativo del profitto entro dieci
anni, schiacciata sui valori della produttività e del mercato. Però è un peccato
trovare, specie nei primi capitoli e nelle conclusioni del libro, un linguaggio puramente
ideologico e dichiaratamente catastrofista: l'ingegneria genetica applicata, ad esempio,
è "un'alleanza diabolica senza precedenti tra cattiva scienza e grande
business, che potrebbe portare alla fine dell'umanità e del mondo come li
conosciamo". E ancora: "potrebbe essere arrivato il momento di impedire che i
sogni diventino incubi, agendo ora, prima che avvenga un mescolamento genetico
totale". Un linguaggio del genere, che punta su quelle che i linguisti chiamano
funzioni conative ed emotive, rischia di essere populista e di dubbio valore politico. Non
solo. E' sbagliato tatticamente, perché convince solo chi convinto è già, e lascia
ostili tutti gli altri. Inoltre fra dieci anni, con grande probabilità, "il mondo
come noi lo conosciamo" sarà ancora qui. Sarà pieno di transgenici (lo è già). E
si dirà che qualcuno ha gridato al lupo al lupo senza fondamento.
L'altro rischio è epistemologico: il gusto di sentirsi eretici può portare a confondere
la critica a un paradigma per la proposta di un nuovo paradigma (può esistere un'altra
biologia, anticapitalista? O una scienza delle donne? O quella degli oppressi?). E'
prezioso analizzare criticamente la maniera in cui si è venuta a costruire la biologia
contemporanea, decostruirne le metafore e la retorica, criticarne le applicazioni e le
scelte strategiche. E' però anche vero che il dogma centrale della genetica (ogni gene
determina una proteina, l'ambiente non influenza i geni), anche se inadeguato a descrivere
la complessità biologica, è un punto di partenza conoscitivo importante e probabilmente
imprescindibile: è difficile, quando si esplora scientificamente un'area nuova, non
cominciare da un livello analitico riduzionista, che semplifichi il problema
suddividendolo in parti, per poi risalire alla complessità del reale e trovare sfumature,
eccezioni, fenomeni emergenti.
A momenti sembra che Ho goda del suo status di profetessa eretica. Sostiene che gli
organismi, lungi dall'essere meri automi comandati dai geni o creature frutto del caso e
della necessità, possono scegliere di indirizzare le mutazioni in funzione di ciò che
l'ambiente richiede: "i microbi non competono tra loro. Al contrario, sono impegnati
in una libera cooperazione, condividendo persino i più importanti fattori di sopravivenza
per respingere l'attacco di esseri umani egoisti e miopi. [...] con l'uso eccessivo di
antibiotici siamo riusciti a trasformare i batteri in nemici promiscui assetati di sesso.
Abbiamo creato, e continuiamo a creare, un orrendo campionario di ceppi di microbi che si
sbranano anche fra loro. E' facile immaginare che anch'essi avrebbero preferito continuare
a vivere pacificamente con gli esseri umani in una relazione ecologica bilanciata, come
accadeva in passato. E' giunto il tempo di abbandonare la mentalità della "guerra
contro natura" e di cominciare a imparare a vivere con la natura in modo sano e
sostenibile".
Bello. Però, desideri e pulsioni dei microbi a parte (sui quali preferiamo sospendere,
laicamente, il giudizio), nei cenni di Ho alla medicina olistica, alla stimolazione di
poteri di autoguarigione dell'organismo, non riusciamo a non vedere il rischio, grave, di
buttare il bambino con l'acqua sporca. Di rinunciare alla scienza in quanto metodo
conoscitivo (antiautoritario) solo perché la scienza in quanto istituzione (autoritaria)
ci appare dominata dal libero mercato.