Il Corriere della Sera del 23 maggio 2006 E l'uomo comune divenne tecnoscienziato di GIULIO GIORELLO All'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso gli abitanti di Woburn (Massachusetts) constatarono un aumento di leucemie tra i bambini, e qualcuno cominciò a sospettare degli scarichi industriali di sostanze inquinanti non lontano dalle loro case. Per funzionari ed esperti non c'era ragione di allarme; ma le famiglie cominciarono a raccogliere documentazioni sui potenziali effetti delle sostanze scaricate e sui sintomi di chi cadeva ammalato, per passare all'azione legAle e alla pubblica denuncia. Quando gli scienziati del MIT vennero a trattare il caso, trovarono a loro disposizione un dossier che offriva i dati di cinque anni. Così è stata individuata la «sindrome del tricloretilene», malattia del sistema immunitario cardiovascolare e neurologico dovuta a una delle sostanze inquinanti liberate nella zona. Intanto, si veniva definendo nella ricerca biomedica il profilo dell'AIDS: lo stesso termine venne scelto al posto dell'iniziale GRID (Gay Related Immunodeficiency Disease) su pressione delle associazioni di omosessuali; non molto dopo, i pazienti affetti da AIDS che stavano partecipando a sperimentazioni cliniche del farmaco AZT, si erano dotati di una competenza sufficiente per influenzare la procedura di sperimentazione, fino ad accelerare le procedure di autorizzazione del farmaco da parte della Food and Drug Administration. Questi due episodi rivelano un elemento comune: «Non si può continuare a vedere nel pubblico un peso morto da convertire alle ragioni della tecnoscienza. Né ci si può limitare ad aggiornare la favola tecnocratica, gratificando di un pizzico di bonaria comprensione quei poveri cittadini che magari non sanno quello che dicono, ma devono comunque essere ascoltati in nome, se non altro, di un astratto principio democratico». Così racconta Massimiano Bucchi nel suo Scegliere il mondo che vogliamo. E aggiunge: «Qui la conoscenza locale dei pazienti e dei loro familiari non è un ostacolo da superare a forza di opportune iniziative di comunicazione né un tocco di folklore atto a colorire e rendere più politicamente corretta la conoscenza degli esperti». Si tratta invece «di una vera e propria coproduzione in cui il ruolo dei non esperti è essenziale per la produzione stessa di tecnoscienza». Bucchi sa che in Italia non abbiamo tante associazioni come quella degli abitanti di Woburn o rappresentanze dei pazienti di AIDS strutturate come negli USA, bensì gruppi di pressione più informali come quelli che nel 1998 riuscirono a imporre, contro il mondo della medicina ufficiale, il «metodo Di Bella» tra le terapie anticancro «sperimentabili» con i risultati negativi che sono stati poi denunciati. La questione è che le relazioni tra «tecnoscienza» da una parte e «nuovi movimenti sociali» dall'altra, sono «ambivalenti». Bucchi è particolarmente attento alla definizione di tali movimenti, spesso effimeri, ma che talvolta riescono ad acquisire un certo potere, ìndividuando proprio nella scienza il loro principale «nemico». «Paradigmatico», osserva Bucchi, è l'intero ventaglio delle biotecnologie, ove «la scienza finanziata dalle multinazionali è considerata una minaccia al futuro dell'ambiente (distruzione della biodiversità), alla salute umana (sostanze nocive per l'uomo) e un fattore che accentua la dipendenza del Terzo mondo dall'economia dei Paesi industrializzati (erode il tessuto sociale su cui si regge l'attività dei piccoli coltivatori dei Paesi in via di sviluppo»). Basta tutto ciò per portare la «tecnoscienza» davanti a un qualche tribunale costituito da uomini di legge o magari a un tribunale dei popoli? La risposta è no: «Scienza e tecnologia sono risorse per l'identità, per l'organizzazione e per l'azione dei nuovi movimenti» - non solo perché la polemica contro le strategie dominanti ha maggiore efficacia sul lungo periodo se si basa su «analisi e previsioni scientifiche», ma anche perché l'aggregazione delle opinioni avviene sfruttando le tecnologie più leggere e insieme sofisticate della comunicazione (solo così, come ha scritto Howard Rheingold, quei movimenti possono diventare Smart Mobs, ovvero «moltitudini» agili e accorte, e non semplici masse eterodirette e oscurantiste). Bucchi si rende conto della inadeguatezza non solo del «modello tecnocratico» (la tecnoscienza ha sempre ragione), ma anche della irrilevanza dell'attuale bioetica («la stanza della chiacchiera», come l'ha definita l'epistemologo Giovanni Boniolo), per non dire della vacuità della «correttezza politica», ogniqualvolta questa pretenda di mettere in gabbia la scienza. Bucchi delinea i tratti di una integrazione tra impresa tecnico-scientifica e democrazia che miri a conferire un diritto di cittadinanza alle innovazioni più interessanti, magari quelle stesse di cui si ha timore. Ma non concordo con il suo uso del termine «tecnoscienza»: sembra suggerire una prevalenza del momento applicativo su quello creativo e teorico. Né penso che il complesso e variegato paesaggio tecnico-scientifico si possa ridurre a un qualcosa di monolitico. Nella scienza, come nella tecnologia, c'è un elemento di libera scelta che è quello che consente il nuovo anche a livello dell'industria. Non pochi critici della «tecnoscienza» agitano lo spettro di un apparato che finirebbe col «gestire» i momenti essenziali della nostra vita - dalla nascita alla morte, per non dire della sorte delle generazioni future. Ma quando mai un genetista serio ha mai pensato di tramutarsi nel pianificatore della «felicità»? Credo che Bucchi condivida questa mia sensazione: ma allora, perché non affrontare con maggior decisione l'intreccio perverso tra paura e ignoranza nella convinzione che sono le competenze a garantire la salvaguardia dei diritti dei singoli? Diceva Thomas Hobbes che un contratto «politico-scientifico» può anche creare un Leviatano, cioè una struttura che ridefinisce i ruoli sociali, ma non bisogna dimenticare che quel biblico animale (Giobbe, 41,25) è «fatto per non avere paura».