19.03.06 |
Quale responsabilità? -parte 2- (...continua dal post precedente) | |
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Ringraziando tutti coloro che hanno finora partecipato al call, approfitto della necessità di fare l'annuncio della sua prossima chiusura, prevista per il 1 aprile, per rilanciare alcuni aspetti della problematica sollevata. Si è lanciata la sfida di pensare un nuovo concetto di responsabilità e si è considerata l'opportunità, ma anche tutti i rischi relativi, di sostituire al valore la procedura, valutata per efficienza rispetto a certi parametri. La domanda si sposta quindi da: a quali valori debbo rispondere per essere un individuo responsabile a: quali parametri debbo misurare per valutare la responsabilità di un progetto o un processo? Varrebbe la pena considerare congiuntamente sia gli aspetti espitemologici che quelli politici di questa proposta. L'innovazione per definizione esclude la possibilità di essere un puro frutto di calcolo razionale. Per essere tale l'innovazione contiene un elemento di rischio, di creatività e, a volte, di passione - questo è emerso con chiarezza in occasione del corso recentemente tenuto dalla Fondazione Bassetti all'Università Carlo Cattaneo - LIUC di Castellanza (di cui sono di prossima uscita i Quaderni). Fa da sempre parte della filosofia della Fondazione la convinzione che l'innovazione non coincida con la creatività o con il pensiero creativo, che si possa cioè parlare di innovazione solo laddove si verifichi la realizzazione dell'improbabile: un oggetto, un corso di azione o un sistema di pratica che si stabilisce nella realtà e la influenza durevolmente. Siamo quindi nel campo dell'azione piuttosto che del pensiero. Ora, potrebbe essere interessante considerare la responsabilità dell'innovazione in termini di responsabilità nella produzione della conoscenza: la recente intervista a Ignacio Chapela condotta da Jeff Ubois per conto della Fondazione segue proprio questa falsariga. Chapela sostiene che la responsabilità dell'innovazione consisterebbe nel garantire la diversità del pensiero contro l'iper-specializzazione, allo stesso modo in cui occorre garantire la biodiversità. Ecco perché la sua critica dei circoli viziosi nel sistema di peer-review per la pubblicazione degli articoli scientifici merita attenzione, al di là della sua vicenda personale e intellettuale. A questo punto sarebbe conveniente per gli stessi scienziati affrontare direttamente la questione della loro responsabilità, per potersi meglio accreditare presso il pubblico. Ma di quali strumenti avrebbe bisogno un osservatore esterno per misurare la presenza o meno della responsabilità? Per rispondere, occorrerebbe riuscire a definire di volta in volta il contesto adatto per immaginare l'effettiva sfera di influenza, e l'ordine di grandezza degli effetti, di ogni singola innovazione. Latour pone esattamente questo problema quando invoca un parlamento delle cose (nella sua Lecture Nessuna innovazione senza rappresentanza! organizzata dalla Fondazione Bassetti e di prossima pubblicazione nelle Lectures della Fondazione Giannino Bassetti, 2002-2005. Il Parlamento delle cose dovrebbe provocatoriamente tenere in considerazione i contesti sociali, umani, demografici, naturali etc. dell'azione innovativa. L'innovazione, tuttavia, non è solo nelle mani degli scienziati. Anzi, la Fondazione da tempo sottolinea il ruolo storico e politico degli innovatori che cambiano lo stile di vita e la visione del mondo della gente introducendo oggetti e corsi d'azione nuovi o efficaci nelle loro routine quotidiane (pensiamo al personal computer, agli interfaccia e ai software, ma anche alla minigonna, ai piatti e bicchieri di plastica... Ci si potrebbe chiedere (e si dovrebbe chiedere loro) se questi innovatori influenti sono consci del loro ruolo nella storia, e se si pongono la questione della politicità del loro agire. In altri termini, si pongono il problema degli scopi e della direzione in cui si muovono le loro innovazioni? Parrebbe di no, se, come nota Daniele Navarra riportando il suo colloquio con Nicholas Rose (Science, politics and responsibility: an agenda for the governance of innovation and technology), "ciò che la biotecnologia, la genetica e le tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno in comune è che sono state tutte introdotte senza poter prevedere quali ne sarebbero stati gli effetti sul lungo e medio periodo. Nessuno pernsò che queste innovazioni avrebbero fatto progredire l'umanità e reso disponibili nuove risorse nel modo in cui fece per esempio Internet. Del resto, nessuno pensò che questa avrebbe ugualmente incentivato la pornografia come la pubblicizzazione della sequenza del genoma umano". Rimangono perciò aperte tutte quante le domande poste inizialmente, che riassumiamo e rilanciamo così: |
English version First of all thanks to all those who have so far contributed to this call for comments, which I plan to close on April 1st. I briefly recapitulate the line of reasoning followed so far. An interesting reflection on this aspect can be found in Michael Power's article, From Risk Society to Audit Society, which links up explicitly Beck's notion of risk society with Strathern's definition of an audit culture. In a risk society, "new information structures are required in order to challenge and shift the boundaries between insiders and outsiders and to reconnect decision makers with their remote publics". As a result, "audit represents a distinctive style of risk management". The notion of risk, in fact, is always relative to a theory of knowledge: "ways of knowing are ways of being ignorant". Beck's notion of a risk society can thus be read as the political translation of an epistemological notion, that of a complex system. Amongst the political aspects of an epistemology of risk, then, the most disturbing is that "other disciplines, such as accounting, have begun to replace the cultural authority of science" - and I would add, of a political science. This happens because "accounting as a technology for managing uncertainty translates the spontaneous disturbances of daily transactions into manageable data for decision making purposes". The Foundation has always maintained that innovation does not coincide with creativity or creative thinking alone. One can speak of innovation only when something improbable is made real: an object, a course of action or a system of practice that exerts durable influence on society. To schematise it grossly, we are therefore in the field of action rather than thought. It would be interesting to depart slightly from this position and consider responsibility in innovation in terms of responsibility in the production of knowledge. The recent interview to Ignacio Chapela by Jeff Ubois follows exactly this course. Chapela maintains that responsibility in innovation consists in guaranteeing diversity of thought against hyper specialisation, analogously to biodiversity. This is why his critique of the vicious circles in the peer-review system deserves attention beyond his personal plight. Indeed, it would be convenient for the scientific establishment to show that they are facing the issue of their responsibility in order to gain more credit amongst the public. Which only re-launches the question: which tools would be needed in order to ascertain the presence of responsibility? in order to answer, one should be able to define each time the context, the influence and the scale of the effects of each innovation. Latour poses this problem when he advocates a Parliament of things (in his Lecture No Innovation without Representation!, shortly in press in the Lectures della Fondazione Giannino Bassetti, 2002-2005. A Parliament of Things is a provocation to think about the social, demographic and natural contexts of innovative action. Innovation, though, is not only in the hands of scientists. The Foundation has been underlining the historical and political role of innovators who change lifestyles and worldviews by introducing relevant objects and efficacious courses of action in everyday routine (take for instance the personal computer, interfaces and softwares, but also the miniskirt, plastic plates and cups, etc....) One should ask whether such innovators are aware of their relevance in history, and whether they consider the political outcomes of their actions. Do they pose themselves the question of the aims and scopes of their innovations? The initial questions are all open, and I sum them up thus: |